Braccia per il Terzo Reich. Gli ottomila operai dalla Liguria ai lager

di Paolo Battifora

Colmare i vuoti nelle fabbriche tedesche, determinati dal crescente invio di uomini sul fronte orientale, risultò essere un imperativo da ottemperare ad ogni costo. L’inaspettato arresto dell’avanzata in Russia, la controffensiva sovietica, l’ecatombe di soldati tedeschi – al 30 aprile 1942 le perdite ammontavano a quasi 1.300.000 uomini – causarono una tale emorragia di lavoratori da spingere il regime nazista ad attuare una drastica politica di reclutamento forzato di manodopera su scala continentale. “Tante braccia per il Reich” è il titolo della presentazione della ricerca, realizzata dagli storici genovesi Irene Guerrini e Marco Pluviano, sulla deportazione dei lavoratori liguri, ad opera dei tedeschi, nel corso della Seconda guerra mondiale: “non meno di 6.000 uomini – spiegano Guerrini e Pluviano – furono prelevati a Genova e provincia, circa mille nello spezzino, almeno 800 nel savonese e tra i 500 e 600 nell’imperiese. A partire dall’8 settembre 1943, almeno 8.400 lavoratori vennero quindi inviati in Germania dalla Liguria”.

Tutti catturati con la forza?

«Bisogna distinguere. Alcuni, ma si tratta di basse percentuali, si presentarono come volontari o furono precettati dagli Uffici di collocamento. La maggior parte dei lavoratori, invece, venne presa durante rastrellamenti, come quello tristemente noto del 16 giugno 1944 a Genova, operazioni antipartigiane, come a La Pigna di Sanremo o nell’imperiese, pattuglioni. In alcuni casi bastava trovarsi nel posto sbagliato, magari al cinema, in un ristorante o semplicemente per la strada, nel momento sbagliato per essere catturati e spediti in Germania. Anche circa 500 detenuti, prelevati dalle carceri di Marassi, Chiavari, Spezia e Savona, furono inviati al lavoro coatto».

Quanti non fecero ritorno?

«La cifra oscilla tra 100 e 150. Le cause della morte potevano essere bombardamenti, malattie, incidenti sul lavoro, violenze subite. Se i dati sulla mortalità sono relativamente bassi, disastrose risultarono le condizioni fisiche e psichiche di questi lavoratori nel dopoguerra: oltre il 10% aveva contratto la tubercolosi».

Quale lo status di questi lavoratori inviati nelle fabbriche del Reich?

«Costoro, in teoria, firmavano un contratto che formalmente avrebbe dovuto garantire certi diritti, come la retribuzione e il godimento delle ferie. In realtà questi lavoratori non potevano rientrare in Italia, godere di permessi, cambiare il lavoro, spostarsi sul territorio. Tassativamente vietati erano i rapporti con donne tedesche: per questa infrazione, i lavoratori slavi venivano giustiziati».

Su tutti incombeva poi la minaccia del lager.

«Dove le condizioni di vita erano terribili e la mortalità altissima. Il circuito concentrazionario era gestito dalle SS: gli ebrei erano destinati ai centri di sterminio, mentre nei lager (KL) venivano rinchiusi i partigiani e gli oppositori a vario titolo del Reich. I lavoratori coatti erano gestiti dal Plenipotenziario per l’impiego della manodopera, ma per indisciplina, inadempienze o ragioni arbitrarie anch’essi potevano finire in un lager».

Come successo, ad esempio, a una parte dei lavoratori savonesi, prelevati dalle fabbriche in occasione dello sciopero del 1° marzo 1944.

«Portati a Genova e oggetto di una preliminare selezione, coloro che furono dichiarati da un medico compiacente inidonei al lavoro non solo non furono risparmiati dalla deportazione ma anziché in fabbrica finirono a Mauthausen. Su un totale di circa 160 deportati dall’area savonese in 26 non fecero ritorno».

Dove alloggiavano in Germania i lavoratori coatti?

«La maggior parte negli Arbeitslager, campi di baracche per lavoratori. Questi alloggiamenti speciali talora potevano distare molti chilometri dalla fabbrica di riferimento. Coloro che erano impiegati in agricoltura risiedevano presso fattorie».

Quale libertà di movimento?

«In teoria avevano il sabato pomeriggio e la domenica liberi. Ma erano sporchi, senza vestiti adeguati, praticamente senza soldi: in quelle condizioni si vergognavano anche a salire su un mezzo pubblico. In Austria sappiamo di lavoratori italiani costretti a scendere dal tram».

Che dire delle retribuzioni?

«I lavoratori coatti erano pagati in Reichsmark. Per mandare i soldi a casa dovevano versare su un conto bloccato della Sparkasse, la Cassa di Risparmio del Reich, che a sua volta avrebbe effettuato il versamento agli organismi competenti della Rsi, incaricati poi di inviare i soldi alle famiglie. Il sistema però funzionava male e si verificavano notevoli ritardi».

Quale aspetto traspare, con maggior rilievo, dalla memorialistica?

«La profonda umiliazione, vissuta al lavoro, nei campi, per strada. Privati della libertà di movimento, disprezzati dalla popolazione, laceri e mal ridotti, i lavoratori si sentivano feriti nella loro dignità. Nel caso genovese molti deportati erano operai specializzati, non manovali o braccianti, e il fatto di avere una specifica professionalità acuiva ulteriormente la loro sofferenza».

Quali le responsabilità della Rsi?

«Gli apparati di Salò diedero il loro attivo contributo a queste politiche di ingaggio e deportazione dei lavoratori italiani: dalle prefetture alla GNR, dai sindacati fascisti a certi datori di lavoro, venne offerta piena collaborazione ai tedeschi».

Che bilancio trarre dalla vostra articolata ricerca?

«Pochi sono stati gli studi su questa tema, tra cui quelli, a livello nazionale, di Enzo Collotti e Lutz Klinkhammer e, per la realtà ligure, di Paolo Battifora, e faticosa è stata la ricerca della documentazione nei vari archivi. Il nostro contributo vuol essere un riconoscimento civile e storico alle vittime di questa vicenda, troppo a lungo trascurata dalla storiografia e dalla società civile».

L’articolo è pubblicato su “Il Secolo XIX” di Giovedì 23 gennaio 2020.

P Battifora_Braccia per il Terzo Reich_Il Secolol XIX_23 gennaio 2020

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.