Democrazia e multinazionali
di Giorgio Galli
Trecentoottantasei imprese multinazionali hanno in mano i destini del pianeta. Le ha censite Mediobanca nel 2012. Quasi tutte (il 90% circa) hanno sede nel nord Europa e soprattutto nei Paesi di lingua inglese. Sono i Paesi nei quali si è sviluppata la democrazia. In novemila anni di storia documentata dell’umanità, la democrazia è una piccola eccezione: dura da appena quattrocento anni (dalla fondazione del Parlamento inglese) e coinvolge meno di un decimo della popolazione del pianeta, oggi stimata in sette miliardi di persone. Dunque le multinazionali sono dappertutto, ma la democrazia solo in una parte limitata, e in quella parte è in crisi.
La democrazia rappresentativa è fondata sulla divisione dei poteri; sui diritti politici e civili dei cittadini; sulle elezioni periodiche; in gran parte del mondo (Russia, India, Paesi islamici, America latina) ci si limita però a chiamare i cittadini al voto. In Cina, vero e proprio Stato-continente, nemmeno si vota. Multinazionali e stati continentali sono i dominatori del pianeta, i protagonisti della realtà nella quale i ceti politici debbono operare.
La democrazia è a repentaglio perché la maggior parte degli Stati-continente, fuori dall’area euro-nordamericana, sono democrazie solo elettorali e le multinazionali sono rette da élite autoselezionatesi e per questo non scelte democraticamente. Esse stanno svuotando il potere decisionale dei Parlamenti della democrazia rappresentativa, che non è minacciata dai populismi, ma dalla concorrenza di Stati-continente che, in Italia, comprano le nostre acciaierie (attraverso le multinazionali indiane) e persino le nostre squadre di calcio (come le società cinesi).
I populismi sono la conseguenza di queste situazioni, ottengono consensi in conseguenza delle preoccupazioni suscitate dalle dislocazioni produttive, dalla perdita di posti di lavoro, dalla convinzione che il presente è peggiore del passato e che il futuro sarà peggiore del presente.
Lo statunitense Robert Dahl, forse il maggior politologo dello scorso secolo, giunge alla convincente conclusione che la democrazia dei nostri successori non sarà comunque quella dei nostri predecessori. Da studioso, teme che potrebbe involvere in senso oligarchico, il governo dei pochi.
Come potrebbe, invece, migliorare? “È necessario – scrive Dahl – che esista una massa di cittadini bene informati, abbastanza numerosi e attivi, onde fornire una base solida al processo”. La tesi è che nelle democrazie si dovrebbe dare spazio a un “minipopulus”: un migliaio di cittadini scelti a caso tra il “demo”, il popolo, con il compito di deliberare su una certa questione per un anno circa e riferire poi le sue decisioni. I membri del “minipopulus” potrebbero incontrarsi tramite le telecomunicazioni. Questo regime di consultazione e di ascolto dei cittadini, secondo Dahl, non sarebbe sostituiva degli organi legislativi, ma fungerebbe da complemento.
Il punto cruciale è però quello dell’informazione dell’elettorato. L’estensione del suffragio universale era basata sul presupposto illuminista che l’alfabetizzazione di massa, la scuola e la stampa fossero sufficienti a creare il cittadino sufficientemente informato della cosa pubblica e voglioso di partecipare alla sua gestione attraverso il voto. Tuttavia il successivo diffondersi della radio prima e della Tv poi e infine l’universo massmediatico dominato dai big data delle multinazionali informatiche hanno, invece, creato una situazione di disinformazione diffusa, dominata dall’immediatismo e dalla manipolabilità.
Il problema è oggi quindi come controllare l’informazione, quindi le multinazionali che la gestiscono su scala planetaria. Sono loro oggi a gestire la vera ricchezza del pianeta. Falliti il modello marxista di controllo dei mezzi di produzione e quello liberale di regolamentazione delle multinazionali, l’elezione diretta a suffragio universale di almeno una parte dei consigli di amministrazione delle circa quattrocento multinazionali che decidono le sorti del pianeta appare oggi lo sviluppo più conseguente della filosofia politica democratica. Le elezioni possono funzionare anche per la selezione di quella particolare “superclass” che sono le élite dei consigli di amministrazione delle multinazionali, i ricchissimi e i grandi dirigenti (cioè la tecnocrazia manageriale), i quali operano ormai “con i soldi degli altri” sul “mercato d’azzardo”. Si tratterebbe dunque di espropriare gli espropriatori, conferendo ai cittadini la possibilità di scegliere i gestori di ricchezze “delle nazioni”, come direbbe Adam Smith, frutto del lavoro dell’intera collettività.