Con palese modestia l’autore di un interessante, apprezzabile e documentato studio sulla “flat tax” si propone “forse un po’ ambiziosamente di coinvolgere su un tema non certo facile e simpatico, come quello della fiscalità, una platea di persone più estesa di quella costituita dagli addetti ai lavori”.
Per la verità, più che un’ambizione, è una necessità perché quando, in Italia, nei cosiddetti dibattiti politici e nei programmi di alcuni schieramenti si accenna alle imposte, generalmente lo si fa solo per proporre qualche abolizione: chi vuole cancellare l’Irap, chi l’imposta sulle successioni e sulle donazioni, chi il tributo sulla prima automobile, chi su tutte le prime case, accompagnando questi progetti (si fa per dire) con l’accrescimento delle spese, molte delle quali utili di per sé, ma senza nulla dire sulle relative coperture. Una concezione miracolistica del bilancio pubblico, quasi fosse un immenso e inesauribile “pozzo di san Patrizio”.
Non una parola, invece, sulla assoluta necessità di ridurre, seppure gradualmente, il macigno del debito pubblico (è il pozzo di San Patrizio), un peso enorme sull’avvenire dell’Italia, un ostacolo al suo sviluppo economico (gli interessi da pagare sottraggono risorse ai servizi), un pericolo per i risparmi degli italiani, una tragedia se, per qualunque causa, fossimo lasciati soli contro le aggressioni dei mercati, che colpiscono i deboli, non i forti: l’Italia, in questi ultimi anni, non bisogna dimenticarlo, è riuscita a ridurre l’onere degli interessi solo con l’aiuto della Banca centrale europea.
Di questo non si parla, ma si discute solo di tagliare o eliminare qualche tributo dimenticando che il sistema fiscale non è un salame che si può impunemente affettare perché è fatto di imposte sul reddito e sul patrimonio, di imposte sui consumi e sui trasferimenti, di tasse dirette e indirette che dovrebbero essere in equilibrio tra loro per colpire equamente le diverse capacità contributive: equilibrio che dovrebbe essere costantemente monitorato e garantito anche nelle situazioni di emergenza, perché esse non escludono la varietà e l’equilibrio dei provvedimenti.
Si dimentica, o si finge di dimenticare, che gli obiettivi della finanza pubblica e, in particolare, delle imposte sono complessi e non possono essere ridotti a schemi semplici proprio perché i tributi si collocano sul crinale tra libertà e autorità.
Occorre, quindi, fare i conti con il consenso del Parlamento e con i principi di uguaglianza, di equità, di capacità contributiva, di proporzionalità, da rispettare nella ripartizione dei tributi e costruire i complessi assetti della finanza erariale e delle sue interazioni con quella locale e con quella regionale, in un delicato equilibrio tra poteri e doveri, tra diritti e obblighi degli enti impositori e del contribuente.
Ecco perché studiare e conoscere la finanza pubblica di un determinato Paese è anche la illustrazione, assai efficace, del suo sistema politico e istituzionale oltre che della salute della sua democrazia.
E non dimenticare anche l’insegnamento di Wicksell quando scrive che, oltre alle tirannie classiche, i cittadini di un Paese possono patire anche la “tirannia non meno opprimente dell’occasionale maggioranza di un Parlamento”.
Si dimentica, in altre parole, che la prima e la più importante misura sociale, e cioè a favore della società, non è finanziare questa o quella spesa, pur utile, ma distribuire con equità, e quindi con i principi garantiti dalla Costituzione, il peso dei tributi che gravano su tutti: infatti, sarebbe un sistema ben strano di convivenza quello che finanziasse spese utili (non sempre a tutti) con le risorse prelevate con un ordinamento tributario irrazionale e sperequato. Il che significa che non si può eliminare un tributo, senza guardare agli effetti di sistema, con la stessa disinvoltura con cui ci si può cambiare un abito.
Di tutto questo, invece, non si parla, e cioè del necessario equilibrio del sistema, ancorché, nel suo periodico e necessario monitoraggio, si potrebbero rinvenire, nelle migliaia di deroghe, eccezioni, agevolazioni, esenzioni (divenute con il passare degli anni meri privilegi), nuove risorse. Ci si limita a proporre solo l’abolizione di questo o quel tributo, confidando nell’impatto retorico della locuzione “È abolita” e altresì nella scarsa memoria dell’opinione pubblica.
È il caso della proposta cancellazione del tributo sulle successioni e sulle donazioni, già attuata nel 2001 dal governo Berlusconi che ebbe il solo risultato di sottrarre risorse all’erario, ripristinato, fortunatamente, nel 2006 e che (tributo plurimillenario ed esistente in tutto il mondo), dal 2000 in Italia, nei trasferimenti tra padri e figli, per l’aliquota proporzionale mitissima (4%) e per le deduzioni (un milione a figlio) non è in grado di spaventare nessuno. Agevolerebbe, come tra il 2001 e il 2006, solo i ricchi, ed è uno splendido messaggio della retorica che dovrebbe indurre a riflettere sulla capacità di governo di chi vi aspira promettendo miracoli inesistenti.
Sembra realizzarsi, così, il programma che viene propagandato, con una espressione popolare e diffusa: “Non mettere le mani nelle tasche degli italiani”.
L’espressione ha un lontano precedente letterario ma, quanto allo scopo da raggiungere, può provocare delusioni. In un breve racconto di Joseph Roth, intitolato Barbara, costei dopo aver descritto il padre “un commerciante benestante che aveva iniziato a giocare e aveva perduto sia i soldi che il negozio e, nonostante ciò, andava sempre all’osteria e giocava”, soggiunge: “Era alto e magro e teneva le mani nervosamente affondate nelle tasche dei pantaloni. Non era chiaro se in questo modo volesse tenersi stretti quei pochi soldi che gli erano rimasti oppure se volesse impedire che qualcuno gli mettesse le mani in tasca per sincerarsi sul loro contenuto”.
La locuzione, che pare rassicurante, è foriera, invero, di pesanti conseguenze e iniquità, perché sembra assumere che il tributo, lungi dall’essere una prestazione patrimoniale imposta da ripartire secondo i canoni costituzionali, altro non sarebbe, nel migliore dei casi, che “denaro”, “risorsa”, copertura di nuove spese salvo intenderla, quella espressione, anche come un furto con destrezza perpetrato sui mezzi di trasporto.
E la gravità sta nel fatto che essa non può essere declassata a un abbassamento dei registri espressivi, a un linguaggio di parole povere, il prezzo pagato alla retorica dell’antiretorica, quasi che esprimersi con un linguaggio curato e preciso significhi non appartenere al popolo.
Pronunciata da chi, seppure temporaneamente, è al potere e lo ha, significa il rovesciamento dei termini della relazione libertà-autorità onde la legge tributaria non rileva come autolimitazione (attraverso il consenso, seppure mediato) dell’individuo, titolare dei diritti di libertà e di proprietà, ma come autolimitazione dello Stato, già titolare di un diritto (“naturale”) di imposizione.
E questa concezione autoritaria, che riposa su una affievolita visione della norma giuridica e su un evidente influsso degli schemi anteriori alle monarchie parlamentari ottocentesche, sembra solo scalfita nel pensiero di chi quelle parole pronuncia dalla vigenza della Costituzione repubblicana.
A ben guardare, esse mettono in gioco la stessa concezione della Costituzione. Sottesa alla descritta e criticabile opzione, v’è l’idea secondo cui la Costituzione è un mero strumento tecnico di organizzazione dello Stato: insomma, l’idea di una Costituzione come pura regola giuridica di uno Stato dispensatore ultimo dei diritti individuali, dei benefici, fra i quali “la promessa di non mettere le mani nelle tasche dei cittadini”.
Ne consegue che la prassi può mettere in ombra il rapporto Stato-contribuente e relegare nel metagiuridico i principi costituzionali: i tributi sono denaro di cui si ha bisogno, sono una “copertura” delle spese, e non “prezzi pagati da ciascuno”, per i quali è doveroso garantire la giusta ed equa ripartizione e la esistenza di efficienti, razionali e proporzionali regole applicative (meglio se consolidate).
Sono scelte, quelle di trovare “le coperture”, ineluttabilmente affidate alla burocrazia (come nel concreto accade) con l’abuso del decreto legge perché essa deve trovare le risorse aggiuntive senza intaccare, agli occhi del contribuente, l’apparenza e cioè che “non sono state messe le mani nelle tasche dei cittadini”: e così il momento e il luogo del consenso sono sacrificati al “dominium”.
Ebbene questo perverso meccanismo si sta riproducendo con riguardo alla “flat tax” proposta dal centro destra, e non solo, con un approccio privo di qualsiasi documentazione, senza una buona informazione e completamente disancorato dai principi costituzionali: un invito alla retorica fiscale. Ebbene a costoro andrebbe ricordato che uomini politici importanti, già pochi lustri fa promettevano, quando fossero chiamati a governare, e lo furono, una imposta sul reddito a tre aliquote. Oggi gli stessi sono discesi a una, e rincorrendosi nell’abbassarla e trasformandolo in uno slogan infragiliscono lo stesso progetto (che non spiegano mai) e commettono anche una ingenuità a proprio danno perché, scendendo gli scalini a due a due, alle prossime elezioni saranno costretti a promettere una imposta sul reddito ad aliquota “zero”.