Note di viaggio – Una nuova grande alleanza tra scienza e democrazia, tra ragione e solidarietà. Di Giacomo Ronzitti

Genova, 11 aprile 2020

 

Siamo giunti alla vigilia di Pasqua, una festa che avremmo voluto condividere con familiari e amici; un giorno che avremmo voluto trascorrere all’aperto, in riva al mare o in montagna, ma che rimarrà nella nostra mente come la “festa della reclusione e non quella della Resurrezione”, come dice il calendario dei credenti; che ricorderemo per la solitudine di Papa Francesco nella “via Crucis” e per la messa celebrata sul sagrato deserto di San Pietro.

Ricorderemo questa Pasqua  per le immagini televisive, costretti in casa lontani dai nostri cari, dai nostri figli, nipoti, mamme, papà, nonni.

Per noi giungerà il giorno di una “resurrezione” più laica e terrena, quando il virus sarà debellato e la pandemia sarà un brutto ricordo, ma dobbiamo ancora aspettare. Pazientemente aspettare che il potere immanente della scienza ce lo consenta e quello politico-democratico ce lo indichi responsabilmente. Per adesso festeggiamo a distanza e comunichiamo a distanza attraverso le nuove tecnologie digitali, come abbiamo fatto da quando, esattamente un mese fa, siamo stati confinati in una sorta di quarantena casalinga.

Tanti altri, invece, anche a Pasqua saranno sul campo a combattere contro la morte silenziosa e un nemico invisibile, come hanno dovuto fare in queste lunghissime settimane, per garantire a noi tutti i servizi essenziali. Primi fra tutti i medici e operatori sanitari e, insieme a loro, i volontari della protezione civile e gli appartenenti alle forze dell’ordine, i lavoratori della filiera alimentare, dei trasporti, dei servizi pubblici e privati indispensabili ad assicurare al paese le elementari condizioni di vita e di igiene in questa fase emergenziale. A tutti loro rinnoviamo la nostra profonda gratitudine, consapevoli che senza il loro generoso impegno l’Italia sarebbe precipitata facilmente in una crisi ancor più catastrofica.

 

Non siamo in passiva attesa

La gran parte di noi segregati a casa ha adottato per la prima volta lo smart-working o si è ingegnata, come ha potuto, ad usare le tecnologie telematiche per continuare a mantenere i propri rapporti e coltivare i propri progetti: così stiamo facendo anche noi, dirigenti e collaboratori dell’ILSREC.

Ciò perché, come altri, avvertiamo il rischio di essere risucchiati in una specie di passiva attesa della ripresa, come se questa potesse avvenire in tempi brevi e certi e non, come è più probabile secondo le stime ponderate dell’OMS e dell’Istituto Superiore di Sanità, gradualmente e in periodi non immediati.

Di certo la ripresa ci sarà, ma, quando avverrà, dovremo seguire scrupolosamente le indicazioni degli esperti e delle autorità competenti, come abbiamo fin qui fatto per evitare il riaccendersi di devastanti focolai virali. Per questo, per quanto possibile attraverso internet, stiamo cercando di dare continuità ai nostri impegni e programmi rivolti in primis al mondo della scuola e, più in generale, alla cittadinanza genovese e ligure.

Perciò, in previsione del 25 Aprile presenteremo sul nostro sito i risultati del lavoro avviato in occasione del 75° della liberazione che aveva al centro, non a caso, il tema della “Resistenza e della democrazia europea”, la figura di Sandro Pertini nel 30° della sua scomparsa, la digitalizzazione dell’archivio e molti altri progetti didattici, divulgativi e di ricerca.

 

Ridefinire la nostra agenda

Tuttavia, alla luce dello sconvolgimento provocato dalla pandemia del coronavirus, di fronte agli inediti e drammatici interrogativi che questa pone a noi tutti, abbiamo sentito il dovere di non rimanere spettatori inerti e ridefinire anche la nostra agenda, aprendo forum di approfondimento, di confronto e di dibattito sulla portata e sulle implicazioni prodotte dalla diffusione del Covid-19; su come la nostra esistenza sta mutando e sulla necessità di prepararci ad un a nuova normalità”, perché siamo convinti davvero che “nulla sarà più come prima”, sebbene molti pensano che vi possa essere, quando la “tempesta” cesserà, un tranquillo ritorno allo stesso mondo e alle stesse abitudini che avevamo temporaneamente lasciato.

Di sicuro, ora, nessuno ha certezze da suggerire per il dopo, poiché in poche settimane l’umanità intera si è trovata a fare i conti con apocalittici scenari prima inimmaginabili. Scenari che, in tutta evidenza, anche nelle previsioni più ottimistiche, impongono di cambiare radicalmente l’ordine delle priorità che si erano consolidate nei decenni passati in ogni sfera della vita pubblica e privata, nei comportamenti domestici e di lavoro, nelle relazioni tra gli stati, tra i popoli e tra le singole persone: perché è la “contemporaneità” che sta modificando i propri paradigmi. E  noi siamo pienamente dentro questi mutamenti, che lo vogliamo o meno!

È questo, peraltro, il modo in cui abbiamo concepito la missione dell’Istituto, non avulsa dalla realtà e dal contesto sociale e storico-politico in cui operiamo, evitando di chiuderci nella nostra “torre d’avorio”, rifiutando di essere semplici custodi acritici del tempo andato, persuasi, nondimeno, che la storia non è solo conoscenza del passato, ma componente viva del presente.

Vorrei, per questo riprendere alcune questioni già richiamate nelle “note di viaggio” che avevo inviato alcune settimane fa, anche stimolato da quel che è stato detto e scritto in queste periodo da molti scienziati e intellettuali, uomini politici e di governo, opinionisti e giornalisti, amici coi quali continuiamo a scambiaci sensazioni e preoccupazioni.

Innanzitutto, mi pare dover rilevare che il dato di fondo che emerge e accomuna la totalità degli osservatoti, al di là di singole questioni, è la “sorpresa e l’impreparazione”. Di tutti: ad ogni latitudine e longitudine del globo.

Virologi ed epidemiologi, nella loro maggioranza, ne hanno immediatamente colto la eccezionale velocità di contagio e la pericolosità. Non sempre dagli stessi, però, sono venute univoche indicazioni per il contrasto e contenimento dell’epidemia, in attesa di scoprire e produrre terapie farmacologiche idonee e vaccini risolutivi. Mentre non pochi leader di grandi nazioni ne hanno inizialmente banalizzato l’impatto e deriso gli studiosi, considerati alla stregua di “pedanti menagramo”. Un riflesso condizionato di quella cultura antiscientifica che tanti danni ha prodotto alla coscienza civile e al tessuto democratico della comunità umana, incentivando e giustificando, nel contempo, quella “deregulation” che ha acuito il disequilibrio dell’eco sistema e il rapporto tra l’uomo e la natura.

 

Una crisi “esterna al sistema”

Diversi analisti, poi, soprattutto economici, in un primo tempo hanno paragonato le ricadute di questa crisi a quella provocata dal fallimento delle grandi banche d’affari statunitensi nel 2008; altri a quella seguita all’attentato delle torri gemelle che segnarono profondamente non solo gli USA, ma il sistema economico-finanziario internazionale. Un giudizio che, tuttavia, in entrambi i casi, rischia di non cogliere appieno la natura epocale e senza precedenti di questo“inedito sconvolgimento” e quindi anche delle sue conseguenze.

Se, infatti, non c’è dubbio che gli esiti dei fallimenti bancari del 2008 e del traumatico attentato dell’11 Settembre, furono gravissimi per i costi di vite umane, per il crollo delle borse e il dissesto di molti debiti sovrani ai quali seguì un lungo periodo di stagnazione, nulla di quelle vicende può essere lontanamente paragonabile alla catastrofe provocata dalla epidemia virale di oggi. Ciò perché quelle erano crisi che maturarono “nel sistema e divenute di sistema”.

Riconducibili, cioè, direttamente o indirettamente agli interessi e ai rapporti conflittuali tra “soggetti sociali”, ovvero prodotte dalla logica del profitto o dall’odio integralista, dalle variabili dei molteplici fattori in gioco nelle relazioni internazionali e nelle economie globalizzate. Per tale motivo era possibile ipotizzarne la portata e circoscriverne le conseguenze, intervenendo con gli“strumenti e le regole proprie dell’economie di mercato, di quelle militari e dell’intelligence”. Strumenti spesso crudeli e inaccettabili per la nostra coscienza civile che avrebbe preferito azioni “umanitarie”, rispettose della vita e della dignità umana.

Ma pur con visioni profondamente diverse e tra loro alternative, si poteva combattere con le armi tradizionali proprie del “sistema”, sperimentate nei decenni e nei secoli precedenti. Infatti, memore della grande depressione del ’29, l’allora Presidente degli USA Barack Obama, decise di non lasciare agli “spiriti selvaggi del mercato” la soluzione dei problemi e promosse una più lungimirante strategia di tipo Keynesiano, a differenza di quella sciagurata adottata dalla UE verso la Grecia.

Al contrario, la pandemia di oggi ci mette di fronte ad un nemico “esterno”, sconosciuto al nostro “sistema mondo” che viene minacciato; ci spiazza e ci fa sentire impotenti, rendendo inservibili molti vecchi strumenti di analisi e categorie di pensiero. La storia ci racconta di altre terribili pandemie ma non ci fornisce, né può fornirci, soluzioni che competono alla scienza.

Chi avrebbe mai potuto immaginare che la “società della conoscenza e del benessere” (almeno per gran parte del mondo) potesse essere precipitata improvvisamente in una “terra ostile e inesplorata”?

Per questo l’attuale flagello può scompaginarne, come sta succedendo, il normale svolgimento della vita e delle relazioni umane, l’ordine economico-sociale, la gerarchia di valori che ci ha accomunato dopo la seconda guerra mondiale e le stesse libertà individuali e collettive affermate nei moderni ordinamenti costituzionali.

Non credo siano considerazioni apocalittiche, fuori luogo. Del resto è sufficiente guardare la mappa del contagio, la sua diffusione esponenziale che in poco più di tre mesi ha infettato ogni angolo della terra; che ha mietuto decine di miglia di morti, forse già centinaia di migliaia, che ha serrato in casa oltre 4 miliardi di persone, ben oltre la metà della popolazione; che può provocare un collasso economico-sociale mondiale senza precedenti come preconizza il FMI, paragonabile, forse, solo alla grande depressione che fu una delle principali cause che sprofondarono il mondo nella seconda guerra mondiale.

 

La fragilità della nostra modernità

Una condizione di incertezza e fragilità che ha investito, oggi, soprattutto l’occidente, l’area geopolitica più ricca, la più densamente popolata e tecnologicamente avanzata della terra: forse metafora dei limiti e delle contraddizioni stridenti di un certo “modello di modernità”. Una modernità non governata, schiacciata in un batter d’ali tra l’incudine della depressione economico-sociale e il martello incontrollabile del virus.

Una situazione delicatissima, che sta piegando le aree opulenti, ma che non sappiamo ancora quale disastrosa dimensione assumerà in Africa, il continente più povero e indifeso del pianeta.

Per molte ragioni, dunque, occorre agire con sapienza e giudizio, senza ignorare che lItalia è solo una tessera di un mosaico ben più grande e complesso. La prudenza appare, quindi, la prima regola da seguire per tenere insieme due esigenze ugualmente importanti, che rischiano però di entrare in rotta di collisione.

Per questo è azzardato fare scelte intempestive e sarebbe bene seguire quel principio di precauzione che viene invocato da chi ha la maggiore conoscenza scientifica del “male” e delle sue letali dinamiche. Non oso perciò ipotizzare nessuna valutazione sui modi e i tempi del contrasto o dell’agognata sconfitta del virus, su cui i centri di ricerca si stanno quotidianamente e affannosamente cimentando, sebbene, a quanto pare, con questa infezione dovremo imparare a convivere ancora a lungo.

Per tale motivo, mi sembra stucchevole e irragionevole la polemica di chi pretende di avere certezze e accelerare i tempi della ripresa, prescindendo dall’evoluzione del contagio e dal parere dell’Istituto superiore di sanità.

Non mi sfuggono, al riguardo, i problemi e i costi altissimi derivanti da una troppo lunga serrata produttiva, come sottolineano le associazioni d’impresa, ma sono convinto che i due interessi in campo, la salute pubblica e la salute economica, debbano essere gestiti con grande equilibrio, senza fughe in avanti e strabismi che potrebbero rivelarsi fatali, considerato che l’Italia è uno di centri più colpiti dall’epidemia.

Vorrei, per questo, esprime alcune valutazioni proprio sulle questioni prima richiamate e sulle stime avanzate da molti osservatori internazionali, non pochi dei quali paventano rischi di cadute drammatiche del sistema produttivo mondiale, facendo riapparire lo spettro di una disoccupazione di massa, con la crescita di sacche di povertà spaventose, in assenza di interventi finanziari paragonabili solo al piano Marshall nel dopoguerra.

 

La bussola di Mario Draghi – Jacques Delors – Gerhard Schröder

Anche io sono tra chi ritiene che l’attuale pandemia possa facilmente produrre una gravissima “desertificazione economico-sociale, se i grandi poteri politici e finanziari non sapranno agire con tempestività, adottando misure e strumenti straordinari all’altezza della sfida, come hanno detto, senza giri di parole, Mario Draghi e con lui Jacques Delors e l’ex Cancelliere tedesco Gerhard Schröder.

Su tale questione, infatti, non dovrebbe essere difficile capire che la caduta drastica della produzione e dei consumi a livello internazionale, con il crescere della disoccupazione e la perdita di un reddito minimo di molte persone che andrebbero ad aggiungersi ai tanti che vivono già al di sotto della soglia di povertà, produrrebbe una rottura insostenibile della coesione sociale, con un pericoloso scollamento del tessuto civile.

Si comprende, perciò, il perché una personalità attenta e rigorosa come l’ex governatore della Banca d’Italia e della BCE abbia esortato ad intervenire immediatamente con inediti strumenti finanziari e di bilancio a carico della comunità degli stati e dell’eurozona. Non si comprende, al contrario, la lentezza dell’Unione Europea nel decidere misure risolute e forti, all’altezza di questa “sfida storica”, come l’ha correttamente definita il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte.

Non si giustifica, in particolare, la rigidità “rigorista” dell’Olanda e della Germania nel condividere, non il debito che ogni paese contraente è comunque chiamato ad onorare, ma l’emissione di titoli che metterebbe l’intera eurozona al riparo da una gravissima recessione. Peraltro, come ha ricordato anche Romano Prodi, che senso avrebbe il mercato e la moneta unica senza una condivisione di politiche unitarie e solidali?c E poi, a chi venderebbero i “tulipani” e altri loro prodotti gli olandesi e i tedeschi, in caso di collasso economico della zona euro? E, ancora, come è possibile restare prigionieri di “dogmi” d’altri tempi in un mercato integrato in cui il destino dei singoli paesi è intrinsecamente interdipendente?

 

La solidarietà: interesse comune

Una politica comune e coordinata di misure straordinarie dovrebbe essere dettata, pertanto, non solo da una doverosa e reciproca solidarietà, ma innanzitutto da un comune ed evidente interesse.

Sembra, dunque, miope ed anche autolesionista la posizione dei cosiddetti “Paesi del nord”, che per settimane hanno frenato l’adozione di interventi adeguati da parte delle Istituzioni comunitarie, le quali, tuttavia, pur dopo esitazioni e gaffe clamorose, hanno messo in campo iniziative importanti.

Era, perciò, attesa con ansia e preoccupazione la riunione dei ministri dell’eurogruppo, dopo l’impasse delle scorse settimane. Il compromesso trovato la notte scorsa, sembra andare nella giusta direzione, sebbene deve essere ancora definito nei dettagli e approvato dai Capi di Stato e di Governo. Un fatto nuovo e apprezzabile, che lascia cautamente sperare nell’apertura di una nuova prospettiva che porti a superare le chiusure dei cosiddetti paesi “frugali”. Nessuno ha forse ottenuto quel che riteneva più giusto e conveniente, ma il pericolo maggiore dello “sgretolamento” sembra scongiurato, sempreché sia seguito come pare e ci auguriamo, dall’adozione di una misura straordinaria a sostegno di un forte rilancio dell’attività produttiva.

Se la cautela, dunque, è doverosa, appare davvero surreale, al contrario, la reazione scomposta dei populisti-sovranisti in Italia e in altri paesi aderenti alla moneta unica. Si tratta chiaramente di una reazione pregiudiziale e prevedibile, che, al di là della propaganda minacciosa, non è in grado di esprime alcuna seria proposta idonea a fronteggiare una crisi di queste proporzioni. Viene alla luce, ancora una volta, se ve ne fosse stato ancora bisogno, la contraddizione insanabile di questo eterogeneo arcipelago politico, unito e cementato solo ed esclusivamente dall’antieuropeismo. Quale Europa uscirà dalla Pandemia?

Allo stesso tempo c’è da chiedersi, però, quale Europa vogliono costruire le attuali classi dirigenti europeiste che sono a capo dell’UE.

Questa domanda deve, in primo luogo, essere rivolta agli attuali governi degli “stati anseatici”, che pare non comprendano che il progetto europeista dipende, oggi, dalle risposte che l’insieme dei paesi dell’Unione sapranno dare a questa immane e difficilissima emergenza.

Perché, a me pare, sia divenuto legittimo il dubbio che, in diversi di loro, sia maturata in questi ultimi anni una scelta di arretramento verso una Europa di “mero libero scambio”, come vogliono i campioni del neoliberismo sovranista e del gruppo di “Visegrad”.

 

Tentazioni illiberali e neo-autoritarie

Tutto ciò preoccupa fortemente, perché in discussione non vi è solo la primaria questione della tutela dellasalute pubblica, delle conseguenze gravi che possono derivarne sulle prospettive politiche ed economico-sociale, ma anche quelle, non meno gravi, che possono prodursi sui sistemi democratici e sui diritti di cittadinanza.

A dimostrazione che questo non è solo una preoccupazione astratta, c’è il provvedimento allarmante imposto dal Premier ungherese Viktor Orbàn al suo Parlamento, costretto di fatto a conferirgli i “pieni poteri a tempo indeterminato”. Un voto che taluni in Italia hanno definito democratico, senza curarsi dell’azione coercitiva esercitata sui parlamentari, ma, soprattutto, del vulnus arrecato ad un principio fondamentale dello stato di diritto. Palesando, anche in questa circostanza, quale sia la concezione che essi hanno della democrazia.

Stupisce al riguardo, però, non solo lo scarso rilievo dato da molti organi di informazione a questo fatto gravissimo, ma soprattutto la debole reazione della UE di fronte ad una decisione dirimente e incompatibile con i principi della Carta europea.

Tutti, perciò, dovrebbero far sentire la loro voce, poiché nessuna emergenza socio-sanitaria può giustificare una così grave lesione della democrazia.

Ho già scritto nelle precedenti note, che lo “stato di eccezione” presuppone certamente rapidità ed efficacia delle decisioni e, dunque, l’adozione di strumenti appropriati in una situazione eccezionale, ma sempre dentro la cornice dello “Stato di diritto”. Lo stato di eccezione, che vive l’insieme della comunità europea e internazionale, non può e non deve perciò in alcun modo diventare l’occasione di “svuotamento” o di “sospensione sine die” degli istituti democratici.

La gravissima scelta del governo ungherese, per questo, non può essere considerata un mero fatto di politica interna e giunge, peraltro, dopo che nei suoi confronti è stata avviata una procedura da parte della UE, proprio per le violazioni di principi di libertà fondamentali. C’è, quindi, da domandarsi perché il Partito Popolare, di cui Fidesz-Unione Civica Ungherese fa parte, non ne decida finalmente l’espulsione in coerenza con i propri valori; come sia possibile sottovalutare, da parte di un partito che annovera tra io suoi Padri nobili Konrad Adenauer e Alcide De Gasperi, che i due analoghi e inquietanti precedenti nella recente storia europea sono, com’è noto, quelli della Germania nazista e dell’Italia fascista?

 

La Ragione e il Diritto per salvare e rilanciare il sogno europeista

La cultura democratica e progressista europea deve perciò mettere in campo, qui e ora, la “forza della ragione e del diritto” per sconfiggere le pulsioni egoistiche e regressive che possono compromettere irreparabilmente i pilastri dell’Unione e il suo modello sociale fondati sulla solidarietà, sul cosmopolitismo, sulla separazione dei poteri e l’universalità dei diritti.

Al contrario le stesse istituzioni democratiche potrebbero essere travolte da questa minaccia sconosciuta e sfuggente, che può alimentare ulteriormente le spinte isolazioniste e antieuropee che covano da tempo nel profondo delle società del vecchio continente, e, più in generale, in quelle del mondo di oggi.

Il senso di insicurezza e di isolamento, l’aggravarsi delle condizioni di vita e l’incertezza sui tempi e modi di uscita dal tunnel della pandemia, unite alla percezione di debolezza dei sistemi democratici, infatti, può produrre rischiosi sensi di smarrimento e di sfiducia dell’opinione pubblica.

È la storia, del resto, ad insegnarci che nei momenti di crisi, assieme alla rabbia cresce la domanda di “uomini e regimi forti”, nell’illusione di avere maggiore protezione, non importa se a scapito delle proprie libertà e dei propri diritti. La democrazia europea affronta, anche per tali ragioni, la sua più grande prova dopo la sua rinascita, seguita alla lunga e buia notte dei totalitarismi del novecento.

Di questo, come detto prima, dovrebbero essere coscienti le donne e gli uomini di governo che sono chiamati in questi giorni a decisioni cruciali, dalle quali dipende anche la speranza di tante ragazze e ragazzi della “generazione Erasmus” e di quanti credono ancora nel “sogno europeista”.

La storia europea ci dice, inoltre, che vi è un rapporto inscindibile tra i diritti primari dei cittadini, la loro condizione economico-sociale e la democrazia. Consapevoli che tra questi momenti non vi può essere dicotomia, un prima e un dopo, poiché sono parte di un unico orizzonte.

La lotta contro il virus, quindi, deve accompagnarsi a quella necessaria per scongiurare di precipitare nel caos il sistema economico e con esso gli ordinamenti democratici. In questo quadro, mi pare giusto ribadire anche qui, come avevo anticipato nella lettera aperta pubblicata il 18 di Marzo, che questo è il momento della responsabilità collettiva e che verrà il tempo dei bilanci e dei giudizi sull’operato di chi ha funzioni politiche e di governo, quando ciascuno potrà esprimere democraticamente le proprie valutazioni.

Così come si porrà domani anche il tema delle competenze tra i vari livelli istituzionali,in coerenza con il principio di sussidiarietà che dovrebbe connetterli razionalmente e armonicamente. Fin d’ora, tuttavia, chi ha un minimo di cognizione della realtà non può non considerare che il “facciamo da soli”, tanto evocato in questi ultimi anni, risulta niente più che uno slogan senza senso, una banale sciocchezza, che appare non solo risibile ma rischiosa in presenza di una crisi di tale portata. Non si può sfuggire, infatti, all’impressione che troppo spesso, anche in questo terribile frangente, vi sia chi al dovere della responsabilità risponde con false e irrealistiche promesse, accompagnandole con polemiche pretestuose per puri fini elettorali.

 

Le responsabilità dell’informazione in questa ora buia

A tutto ciò, spiace doverlo constatare, oltre agli anonimi sciagurati del web, non si sottraggono molti mezzi di informazione, nazionali ed europei, che, non di rado, adattano le notizie ai loro commenti, quando addirittura non le manipolano per puri scopi editoriali e politici di parte. Anche qui vale la pena ribadire che è del tutto fuori discussione ogni ipotesi di censura e di restrizione dell’autonoma lettura critica delle vicende da parte dei media, anche in questa dura contingenza. Nessuno può ergersi a giudice e gridare al “sabotaggio o al tradimento della ragion di stato” di fronte a opinioni e giudizi diversi, per quanto critici possano essere.

Ciò che ho richiamato per il rispetto dello stato di diritto in riferimento alle gravi violazioni del governo ungherese, deve valere per ogni paese e in ogni circostanza. Così deve essere, dunque, per il diritto all’informazione e quello di espressione, che sono cardini imprescindibili di ogni regime democratico.

Ma, tutto ciò premesso, niente autorizza il venir meno della correttezza deontologica e ancor meno può esser lecita la strumentale forzatura dei fatti, tanto più in una situazione di oggettiva soggezione di una “collettività segregata” tra le mura della propria casa.

Se, infatti, la libertà di informazione è l’ossigeno della democrazia, essa, quando è manipolata, può essere veicolo di tossine altrettanto letali per un corpo sociale provato, al pari del coronavirus per gli esseri umani.

 

Una nuova grande alleanza tra scienza e democrazia –  tra etica della responsabilità e libertà

Come è stato da più parti richiamato, infine, l’epidemia che sta sconvolgendo l’intero pianeta, ha riproposto la questione del rapporto tra potere politico e scienza, tra sapere e democrazia nell’era di internet, tra l’etica della responsabilità e la libertà di pensiero e alla privacy: nodi complessi e difficili, che non possono essere sciolti con un colpo di daga o battute demagogiche. Questioni che interpellano i singoli cittadini e le autorità statuali, la sfera pubblica e quella privata, princìpi morali e ragione scientifica.

È d’altra parte la natura di questa sfida epocale che ci impone di dare risposte razionali, perché mai, dall’ultimo conflitto mondiale, l’umanità si è trovata improvvisamente di fronte ad un “bivio”, a “scelte cruciali” per il suo futuro, che non prevedono chiamate d’appello.

Una prova ardua e decisiva, perché siamo entrati improvvisamente in un futuro in gran parte ignoto, rispetto al quale non vi sono mappe su cui orientarsi, ricette pronte per l’uso, come non vi sono ancora il vaccino e i farmaci che i centri di ricerca stanno studiando e testando.

Abbiamo però cognizione del passato, delle sue tragedie e dei suoi straordinari avanzamenti in ogni campo della vita civile, sociale e democratica.

Abbiamo la lezione della storia che può aiutarci a non commettere gli errori compiuti nel novecento.

Ma per affrontare le sfide di questo nuovo millennio, è decisivo che la scienza e la conoscenza tornino ad illuminare razionalmente e responsabilmente il nostro futuro.

Un futuro che fino a qualche mese fa credevamo di poter plasmare sulle nostre esigenze e sui nostri desideri, ma che d’improvviso ci appare incerto, carico di incognite, che sembra sfuggirci di mano.

È questo il tempo di suggellare una nuova grande alleanza tra scienza e democrazia, tra ragione e solidarietà che guidi l’umanità sulla via maestra del progresso e della libertà, dei diritti e della dignità delle donne e degli uomini senza distinzioni di lingua, di razza, di condizioni sociale, di credo politico e religioso, come recita l’art. 3 della nostra Costituzione e la Carta dei diritti fondamentali dell’ONU e della UE.

 

Giacomo Ronzitti

Presidente Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.