di Franco Praussello
Al di là delle dichiarazioni governative, che vedono rosa per obbligo istituzionale, è possibile che un Paese che negli ultimi sei mesi del 2018 è entrato in una recessione tecnica, la terza in dieci anni, e abbia iniziato l’anno in corso con questa pesante zavorra, circondato da un’impressionante litania di previsioni e di dati economici pressoché unanimi, di fonti sia pubbliche, sia di enti privati, di livello sia nazionale, sia internazionale, i quali ci rendono il fanalino di coda dell’Europa in fatto di crescita, riesca poi ad arrivare al prossimo San Silvestro con risultati eclatanti che conferiscano al 2019 l’appellativo di annus mirabilis? Forse, ma solo per chi crede ai miracoli, alle scie chimiche o al fatto che gli astronauti Usa non siano mai stati sulla luna: categorie cui non appartiene certo il premier Conte, l’autore di questa sorprendente previsione.
Per limitarsi ai soli dati economici, questo potrebbe avvenire soltanto se nei prossimi mesi il Paese crescesse ai ritmi degli anni Cinquanta e Sessanta, quelli del nostro miracolo economico – quello sì, vero – ossia un’era geologica fa.
La realtà è che contesto internazionale in cui spiccano rischi al ribasso che investono ormai anche l’eurozona, con la Germania nei mesi scorsi sull’orlo della recessione, e previsioni di scarsi se non negativi effetti delle misure varate dal governo pentastellato con i programmi di reddito di cittadinanza e quota 100 lasciano presagire che quest’anno le aspettative ottimistiche di fonte governativa non saranno suffragate dai fatti: la crescita del Pil non arriverà all’1 per cento, ma solo allo zero virgola, ammesso che non scenda in terreno negativo, mentre il deficit supererà la soglia programmata del 2,04 per cento (valutazione geniale della tempra di un esecutivo che vuol meritarsi l’appellativo di governo del cambiamento), con un aumento conseguente del rapporto debito/Pil.
Fra le varie fonti, che propendono per esiti di questo tipo, si possono citare, ultime – per ora – in ordine di tempo, l’agenzia di valutazione Fitch, la Commissione Ue e l’Istat. Le prime due non pronunciano ancora un verdetto definitivo sull’operato del governo, ma si muovono in questa direzione. La prima non retrocede il giudizio di merito sui nostri titoli, che rimangono ancora al livello BBB, ma firma una previsione di sviluppi negativi, che dovrebbero condurre a elezioni anticipate. La seconda, in attesa di ritornare sull’argomento dopo le elezioni europee di maggio, non nasconde a sua volta un pessimismo di fondo, bocciando su tutta la linea le misure di bandiera del governo giallo-verde: nel report che riguarda il nostro Paese afferma che l’economia italiana è destinata a rimanere prigioniera di squilibri eccessivi che ostacolano la crescita, mentre le politiche governative rovesciano riforme importanti effettuate in passato; soprattutto quota 100 provocherà effetti negativi sulla crescita e si tradurrà in un aumento del rapporto debito/ Pil oltre la soglia del 130%, generando nel contempo rischi di contagio per il resto della zona euro. Infine, l’Istat ha appena corretto la stima del Pil per il 2018 dall’1 allo 0,9 per cento, mentre l’Ocse ritiene che quest’anno il Pil scenderà dello 0,2 per cento.
Di fronte a questi dati non certo incoraggianti, come reagirà il governo? La possibilità che si renda necessaria una manovra correttiva dipenderà probabilmente dalle reazioni dei mercati: se lo spread salisse stabilmente oltre i trecento punti non è escluso che si aumentino le imposte (forse anche l’Iva) e si riducano una serie di agevolazioni fiscali. A meno che non si materializzi nuovamente lo spettro dell’eurexit, come potrebbero lasciar pensare le affermazioni di Borghi circa la necessità di abbandonare la stessa Ue (ma il tragicomico balletto della Brexit non sta insegnando niente?) e i tentativi di alcuni esponenti della destra di mettere le mani sui lingotti depositati nei sotterranei della Banca d’Italia. Deus dementat…