di Giosiana Carrara, Direttore scientifico e didattico ISREC “U. Scardaoni” di Savona
Premessa
Le origini della Resistenza a Savona sono radicate nel suo tessuto sociale, economico e politico. Da un lato, traggono ragione dal considerevole sviluppo industriale avviato alla fine del XIX secolo nei settori meccanico, siderurgico, cantieristico, chimico, tessile e alimentare. Dall’altro, pongono in primo piano la classe operaia occupata nelle fabbriche e al porto, costitutivamente sensibile alle dinamiche politiche e permeata dall’indubbia identità socialista prima e comunista poi. È questa infatti la componente che, pur affiancata da figure provenienti dall’area popolare, liberale e repubblicana, riveste il ruolo di protagonista nella Resistenza savonese.
Per ragioni di opportunità, in questa sede non ripercorriamo tutte le vicende locali che hanno condotto alla Liberazione. Ci preme piuttosto considerare la prima fase della Resistenza che va dall’8 settembre al dicembre 1943. La fase in cui l’antifascismo savonese, dalle prime forme di ribellismo animate da sinceri intenti ma complessivamente ancora eterogenee e scomposte, dopo la strage del 27 dicembre 1943, il cosiddetto “Natale di sangue”, si appresta ad avviare un’importante svolta politica e militare.
Nel corso del 1944, sostenuto dall’azione dei partigiani di montagna e dei gruppi urbani delle SAP (Squadre di Azione Patriottica), il fronte dell’antifascismo si riconoscerà nell’urgenza delle risposte da dare al nemico e nell’elaborazione di strategie unitarie e collaborative, chiave di volta per vincere la guerra ai fascisti e all’occupante tedesco. Nonostante le difficoltà dell’inverno ’44-’45, sarà così in grado di maturare quell’unità di intenti necessaria al compimento della Liberazione. Tanto da far meritare alla città di Savona, con decreto del Presidente della Repubblica del 19 settembre 1974, la Medaglia d’oro al Valor Militare per la sua grande partecipazione alla Resistenza.
Opposizione politica nel Ventennio
L’antifascismo savonese si manifesta fin dal primissimo dopoguerra. Ha connotazioni composite e spesso conflittuali, ma percorre con trame e azioni clandestine l’intero Ventennio sino a giungere, pur con alcune discontinuità, tutt’altro che impreparato alla caduta del fascismo, il 25 luglio 1943.
Opera all’interno di una città popolosa che, all’inizio degli anni Venti, ha circa 58.000 abitanti, più di 150 fabbriche e almeno 20.000 tra operai e impiegati occupati nel settore industriale. Non è dunque un caso che la breve ma intensa stagione del “biennio rosso” si manifesti a Savona con scontri sovente sanguinari tra la classe operaia, impegnata in agitazioni, scioperi ed occupazioni di fabbriche, e gli squadristi, tesi a contendere alla sinistra socialista e comunista il governo della città.[1]
L’avvento del fascismo non smantella né riduce al silenzio l’opposizione. Benché costretta alla clandestinità, essa mantiene i suoi centri nelle fabbriche, animate dai militanti del Partito comunista, e presso élite della società civile (professionisti, intellettuali, insegnanti e studenti).[2]
L’avversione al regime è attestata da alcuni importanti eventi. Pensiamo innanzitutto al “Processo di Savona”, svoltosi tra il 9 e il 14 settembre 1927, in cui vengono processati 9 noti antifascisti, tra i quali spiccano Carlo Rosselli, Ferruccio Parri e Sandro Pertini, accusati di aver organizzato, il 12 dicembre 1926, l’espatrio in Corsica dell’ex deputato socialista Filippo Turati. Nelle rare conversazioni che Rosselli e Parri tengono durante la prigionia viene elaborata per la prima volta la formula “Giustizia e Libertà”, che tanta parte avrà nell’antifascismo degli anni Trenta e durante la Resistenza.[3] La sentenza relativamente mite comminata agli imputati è accolta con giubilo non solo dalla cittadinanza savonese ma anche dalla stampa internazionale. In seguito, a dispetto dell’entrata in vigore delle “leggi fascistissime” per le quali ogni procedimento politico è in carico al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’antifascismo savonese non viene meno. Lo confermano le sentenze emesse tra il 1929 e il 1939 dallo stesso Tribunale Speciale, che condannano complessivamente a 309 anni di carcere ben 57 oppositori, tra cui Sandro Pertini, e decretano 52 condanne al confino.[4]
Consideriamo poi, nel marzo del 1934, gli arresti, le carcerazioni e le condanne al confino di numerosi leader locali del Partito comunista,[5] vittime della repressione dell’OVRA (Opera di Vigilanza e Repressione Antifascista) ma che, meno di 10 anni dopo, saranno tra i protagonisti della Resistenza savonese. Altri oppositori politici agiscono dall’estero, tenendo clandestinamente le file del territorio nazionale. Tra costoro si annoverano ben 21 dei 27 antifascisti savonesi che partecipano alla Guerra civile spagnola combattendo nelle Brigate Internazionali. Anche in questo caso, dopo l’8 settembre 1943, molti entreranno nella Resistenza (Libero Bianchi, Giacomo Calandrone, Italo Oxilia, Pietro Pajetta, ecc.) ricoprendo funzioni di comando.[6]
Ricordiamo infine che, tra il 1937 e il ’38, durante azioni volte a contrastare il comunismo, l’OVRA arresta 19 “sovversivi” savonesi accusati di propaganda antifascista e arruolamento di volontari per la Guerra di Spagna. Sono anarchici, socialisti, sindacalisti già impegnati nelle lotte di inizio secolo e nel “biennio rosso”, comunisti, repubblicani e noti antifascisti; ma troviamo anche molte persone comuni, simpatizzanti vigilati dalla polizia fascista, vittime di delazioni o semplici sospettati che, tuttavia, pagano con la diffida, il carcere o il confino l’appartenenza a “reti cospirative”.
Il governo Badoglio dei 45 giorni
La sera di domenica 25 luglio 1943, la notizia della caduta del fascismo arriva mentre i savonesi sono nei rifugi antiaerei.[7] All’alba del lunedì 26 luglio si riunisce il Comitato Federale del Partito Comunista Italiano, che decide di promuovere uno sciopero generale contro la guerra e di contattare altre forze democratiche. In giornata si istituisce quindi il Comitato d’Azione Antifascista che proclama lo sciopero generale. Le parole d’ordine sono: liquidazione totale del fascismo, ripristino di tutte le libertà civili e politiche, abolizione delle leggi razziali, ristabilimento della giustizia, costituzione di un governo con i rappresentanti di tutti i partiti e armistizio per la fine immediata della guerra. Dalle principali fabbriche della città si dipartono numerosi cortei con operai, lavoratori provenienti da ogni settore, donne, ragazzi e curiosi. Lo sciopero ottiene un grande successo. L’adesione di massa conferma l’insofferenza popolare verso il fascismo che ha condotto il paese a una guerra rovinosa. Tra la folla appaiono anche cartelli che inneggiano a Badoglio e al Re.
Tuttavia, prima di sera, nel rione Fornaci, davanti alla casermetta della Milizia portuale, durante un corteo composto in maggioranza da donne al solo scopo di voler cancellare gli emblemi del fascismo dall’edificio, l’Ufficiale comandante ordina di aprire il fuoco sui manifestanti. Le conseguenze sono gravi: ci sono 30 feriti e 2 giovani donne perdono la vita. Sono Lina Castelli, casalinga di 22 anni, e Maria Pescio, domestica a giornata di 29 anni, che morirà il giorno seguente per le ferite riportate.
Alla notizia della morte delle due donne, si riunisce d’emergenza il Comitato d’Azione Antifascista che in un comunicato depreca l’eccidio e indice una manifestazione di protesta per il 27 luglio. Nella giornata si svolgono due importanti eventi. Il primo si tiene in Piazza Mameli, ai piedi del Monumento ai Caduti, dove si succedono gli interventi dell’avvocato Achille Campanile (PSI), dell’operaio Pierino Molinari (PCI) e dell’avvocato Cristoforo Astengo (Pd’A). Nel secondo, in piazza Sisto IV, è l’operaio comunista Angelo (“Gin”) Bevilacqua che, dal balcone del Palazzo comunale, davanti a una folla entusiasta, chiede la cacciata dei tedeschi dall’Italia, la cessazione immediata della guerra, lo scioglimento delle forze armate fasciste e la ricostituzione di tutte le libere associazioni politiche e sindacali.
Il 28 luglio le attività lavorative riprendono ma il clima interno alle fabbriche è già mutato per l’azione congiunta di nuovi fattori. Le giornate di fine mese hanno permesso a molti giovani di entrare in contatto con alcuni degli esponenti del “vecchio antifascismo”. Nei luoghi di lavoro si sono stretti nuovi rapporti di conoscenza soprattutto con gli esponenti del Partito comunista. Per questi giovani, futuri partigiani di città, la fabbrica è il primo ambiente in cui ricevono il battesimo politico.[8]
Ma le novità coinvolgono anche lo stesso Partito comunista che, prima a livello nazionale e poi locale, dopo 20 anni di clandestinità deve misurarsi con una serie imprevista di nodi. Da un lato, avverte la necessità di farsi carico di emergenze provenienti da categorie a cui non è certo insensibile, come la reazione spontanea e di massa della popolazione, l’urgenza delle rivendicazioni di tipo economico dei lavoratori e le richieste di garanzie salariali del proletariato di fabbrica. Tutte istanze d’impronta più sindacale che strettamente politica, che potrebbero sviare il partito dai suoi obiettivi primari. Dall’altro lato, e in prospettiva, l’appoggio offerto alle forze politiche democratiche porta il PCI ad aderire a programmi finora estranei alle sue logiche. Innanzitutto c’è l’orizzonte nazionale, che accomuna l’intero antifascismo nella lotta contro i tedeschi; ma c’è anche l’interclassismo, che scaturisce dall’appello rivolto dagli antifascisti a tutti gli strati sociali.
Ora, se riprendiamo schematicamente la triplice caratterizzazione della Resistenza come “guerra civile”, “guerra patriottica” e “guerra di classe” introdotta da Claudio Pavone,[9] è evidente che, almeno alle origini della lotta di liberazione, il PCI rischia di entrare in cortocircuito con le altre componenti dell’antifascismo. Facendo eccezione della “guerra civile”, combattuta contro i fascisti da tutti gli avversari del regime, per il comunismo – in termini di prinicipio – la “guerra patriottica” incrina il tradizionale internazionalismo, mentre la negazione della “guerra di classe” comporta la rinuncia (o la provvisoria abdicazione) all’anticapitalismo che però, specie nelle fabbriche, la classe operaia non intende abbandonare. Si profila dunque un’ulteriore tensione interna al partito: la dirigenza e una parte dei vecchi militanti, anticipando la “svolta di Salerno”, scelgono di posporre la meta della rivoluzione comunista all’unità delle forze antifasciste; di contro, la base operaia non ricusa l’obiettivo della distruzione dello stato liberal-borghese e capitalista.
Nelle fabbriche savonesi questa tensione è palpabile.[10] La si avverte soprattutto alla Scarpa&Magnano, “cuore rosso” del quartiere cittadino di Villapiana, alla Servettaz-Basevi e alla Brown-Boveri di Vado Ligure, da più di 20 anni roccaforti della resistenza al fascismo. Gli operai nominano Commissioni Interne per chiedere l’epurazione degli elementi compromessi con il regime. Intanto, a fine agosto, arrivano a Savona detenuti politici che hanno scontato il confino, come Libero Bianchi, Amedeo Isolica ed altri antifascisti. L’avvocato Sandro Pertini è rilasciato da Ventotene e, con lui, l’avvocato socialista Giovanni Pera.
Benché si intravvedano forme di vita democratica attecchire sulle macerie del regime, complessivamente l’incertezza del momento e il disagio che attraversa i partiti configurano un clima di attesa, talora di immobilità.
“L’8 settembre lo Stato non esisteva”[11]
Alle 19.45 dell’8 settembre 1943 il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio legge alla radio il proclama dell’armistizio firmato dal governo italiano con gli Angloamericani. La notizia infiamma gli animi di speranza. I savonesi, nuovamente illusi che la guerra sia finita, scendono in strada esultando. Ma la gioia ben presto si spegne e non tardano a manifestarsi segnali inquietanti. Primi tra tutti l’assenza di ordini ai comandi dell’esercito nazionale e il blocco, a poche ora dall’armistizio, dei principali punti di accesso alla provincia da parte delle formazioni tedesche. Queste, infatti, fin dai primi di settembre si sono schierate in Liguria con quattro grandi unità di fanteria. Per questa ragione dall’alba del 9 settembre la città è già occupata dai reparti tedeschi.
Il Comandante interinale del presidio, data l’esiguità delle forze armate disponibili, rinuncia a ordinare la difesa delle caserme e lascia i soldati allo sbando. Il momento è tra i più bui. Tuttavia la popolazione regisce. Molti offrono assistenza ai militari sbandati per impedire che cadano nelle mani dei tedeschi, altri raccolgono armi abbandonate per servirsene come autodifesa. Giovani lavoratori delle fabbriche ostili al fascismo recuperano presso caserme e depositi abbandonati fucili e munizioni, presumendo di doversene presto servire nella lotta armata contro i tedeschi trascurata dall’inettitudine degli alti comandi.
Quasi ovunque la ribellione ha i caratteri dello spontaneismo e dell’improvvisazione.
Diverso è il caso dei “vecchi antifascisti” che, preoccupati per gli eventi che si prospettano, fin da subito lasciano la città per trovare rifugio nei quartieri periferici o nei boschi. Tra costoro si distinguono i comunisti Angelo Bevilacqua, Antonio Carai, Piero Molinari, Quinto Pompili e Pierino Ugo (militanti antifascisti della prima ora, tutti arrestati per appartenenza al PCI nel 1934), Gino De Marco (il partigiano “Ernesto”) e Giuseppe “Pippo” Rebagliati (arrestato già nel 1926 per propaganda comunista tra i lavoratori del porto). Ma ci sono anche l’anarchico Isidoro Parodi e il cattolico Renato Vuillermin. Ad ottobre si allontanano da Savona i comunisti Andrea Aglietto (futuro sindaco “della Liberazione e della Ricostruzione”) e Giovanni Rosso. Nel corso del mese, i nuclei di ribelli si accrescono per l’adesione di soldati delle forze armate nazionali allo sbando, ragazzi che non sopportano il fascismo di ritorno della neo-nata Repubblica Sociale Italiana, giovani che temono la chiamata alle armi e uomini in fuga dalle precettazioni del lavoro coatto in Germania. E’ intorno a questi gruppi che si formano i primi distaccamenti e poi le brigate partigiane del savonese, affiancate da un crescente numero di donne che ricoprono ruoli di staffette nei collegamenti tra la montagna e la città o di combattenti nelle SAP urbane.
Intanto, dalla sera dell’8 settembre, alla Capitaneria di porto si lavora per impedire ai tedeschi di impadronirsi di navi italiane ancorate nelle acque portuali. Il comando è affidato al Tenente Colonnello Enrico Roni, d’origine livornese, che tuttavia non ha ancora ricevuto alcun ordine ufficiale. Apprende le istruzioni soltanto dalla Radio inglese, con l’Ammiraglio britannico Cunningham che intima di non lasciare la flotta italiana in mano ai tedeschi. Roni sa bene che tutte le navi in grado di partire devono lasciare il porto e dirigersi verso Malta oppure autoaffondarsi sul posto, ma necessita di una conferma formale. L’ordine del Caposettore del Comando Marina di Genova gli giunge soltanto alle 7.00 del 9 settembre. Un quarto d’ora dopo, consapevole del rischio di rappresaglie dei tedeschi, Roni impartisce gli ordini: 6 unità navali prendono il largo mentre 10 si autoaffondano.[12]
A Savona, la mattina del 9 settembre, si riunisce il Comitato d’Azione Antifascista ma l’occupazione tedesca spinge alla formazione di nuovi organismi. Dai primi incontri tra i rappresentanti dei partiti democratici avrà origine, nel novembre 1943, il Comitato di Liberazione Nazionale provinciale. E’ formato da Leopodo Fabretti (DC), Giuseppe Musso (PRI), Corrado Ferro (PSIUP) e Agostino Siccardi (PCI) e dal segretario Antonio Zauli (PRI). Risale al luglio 1944 la creazione, all’interno del citato organismo, di una Delegazione militare che nell’agosto, divenuta Comando militare provinciale del CNL, costituirà l’elemento di base per la direzione della lotta armata.[13]
Il 9 settembre, intorno alle 18.00, un gruppo di giovani e operai che ha fatto scorrerie d’armi al Priamar, mentre si trova all’inizio di via Untoria, vede sopraggiungere dal porto una colonna di autocarri blindati tedeschi preceduti da una camionetta con a bordo dei soldati. Quando la colonna sta per entrare in piazza Giulio II, il portuale Mannoro Mannorini lancia una bomba a mano di fabbricazione italiana che, pur centrando la colonna, non scoppia. L’attentatore, sorpreso in fuga, viene catturato e trascinato prima in un edificio del porto e poi nella vicina caserma di corso Ricci. A sera, in località Maschio, è barbaramente ucciso. Il suo cadavere viene trovato tre giorni dopo, sulla strada di Montemoro, con il volto insanguinato e il corpo crivellato di pallottole. È il primo savonese caduto per la lotta di liberazione dal nazifascismo.
Le prime formazioni partigiane savonesi (settembre-dicembre ’43)
All’indomani dell’armistizio e con l’inizio dell’occupazione tedesca, a Savona, come nel resto dell’Italia occupata, prevale l’attesismo, determinato dall’intreccio di fattori d’ordine internazionale e nazionale.[14] Tanto gli Alleati quanto il nascente “Regno del Sud” inizialmente diffidano della componente popolare: temono infatti ch’essa sia troppo soggetta all’influenza delle sinistre. Del resto, sul piano nazionale, la borghesia, gli industriali e la Chiesa intravvedono la necessità di favorire la nascita di una classe dirigente che, a guerra finita, sostituisca quella dei fascisti saloini evitando però, magari con il ricorso agli Angloamericani, qualsiasi rivoluzione di classe.
Diverso e più complesso è il caso del PCI. Pur rifiutando l’idea che la liberazione sia esclusivo compito degli Alleati, la dirigenza comunista, in linea con l’Urss ma anche in ragione dell’unità antifascista, intende imprimere un’accelerazione al movimento partigiano elaborando strategie mirate. Sceglie innanzitutto di “orientare” il partigianato, affiancando ai comandanti militari i migliori tra i propri uomini in funzione di commissari politici; quindi decide di supportare le formazioni inviando in montagna almeno il quindici per cento dei militanti più validi. Per il Partito comunista, dunque, l’uscita dall’attesismo è prioritaria ed è complementare al suo nuovo ruolo di guida della resistenza nascente.
Tuttavia questo orientamento espone il partigianato a potenziali conflittualità interne. Si profilano scontri sia con i partigiani “apolitici”, gli ex-militari prediletti dal governo Badoglio, sia con gli irriducibile che fanno capo alla “sinistra comunista” e che non intendono rinunciare alla rivoluzione proletaria né disgiungere la lotta antitedesca e antifascista da quella di classe.
A questo proposito, è emblematica l’intricata e tragica vicenda della “Stella Rossa”, il primo distaccamento che si forma a Savona. Esso è formato da un elevato numero di comunisti che inizialmente si stabiliscono a Santa Giulia, non lontano da Dego. Ne fanno parte, tra gli altri, Mario Sambolino, Pietro Toscano, Stefano Bori e Aldo Tambuscio. A costoro si uniscono anche militari sbandati, come Aniello Savarese e Aurelio Bolognesi. Il distaccamento rifiuta la disciplina militare e sperimenta al suo interno forme di autogoverno simili a quei microcosmi di democrazia diretta realizzati, pur provvisoriamente, in alcune bande o tra le repubbliche partigiane sorte nell’estate-autunno del 1944. I giovani della “Stella Rossa” intendono resistere allo sfascio dell’esercito italiano, all’attesismo diffuso di alcuni, alla cautela della dirigenza del PCI e all’indifferenza della maggioranza. Ma il distaccamento paga a caro prezzo l’aspirazione all’autonomia e il permanente “sovversivismo”. Alla vigilia del Natale 1943 è disperso dagli attacchi delle formazioni autonome dell’Esercito Italiano di Liberazione Nazionale (i badogliani dell’EILN), preoccupate di garantire nel basso cuneese accordi per il mantenimento dell’ordine pubblico presi con l’occupante.[15]
Il secondo gruppo partigiano si costituisce a Montenotte. È formato da ex condannati al carcere e al confino dal Tribunale Speciale (Giovanni Carai, Giovanni Aglietto ed altri) ai quali si affianca un gruppo di giovani. Il Comandante è Libero Bianchi, già volontario della Guerra di Spagna, mentre Quinto Pompili ricopre il ruolo di Commissario politico. Il terzo gruppo ha sede a Osiglia, nella Val Bormida orientale. Ne fanno parte Antonio Carai, Pierino Molinari, Angelo Miniati, Mario Tamagnone ed altri. Quattro componenti del gruppo (Pierino Ugo, Nino Bori, Renzo Guazzotti e Salvatore Cani) saranno trucidati dai tedeschi il 2 gennaio del ’44, a Bormida, presso la “Cascina Bergamotti”.[16] Infine, un altro gruppo di partigiani s’insedia nella zona tra Roviasca e le Tagliate, presso il “teccio del Tersè”, una costruzione servita nel passato come essiccatoio per le castagne. Il primo compito che impegna i partigiani è la raccolta di armi. Al gruppo, comandato da Gino De Marco (“Ernesto”), appartengono anche Sergio Leti detto “Gin” (il figlio di Clelia Corradini, che sarà martire della Resistenza savonese), Vincenzo Pes, Giorgio Preteni, Pietro Morachioli e Francesco Calcagno.
A queste forze partigiane, orginariamente solo comuniste, se ne affiancano altre: gli azionisti del gruppo di Renato Boragine a Giustenice, la brigata Astengo delle valli dell’Erro e dell’Orba e la brigata “Giustizia e Libertà” della Valle Bormida, poi intitolata al martire “Nicola Panevino”; formazioni di tipo militare, come gli autonomi di “Ferrando”; nuclei armati non politicizzati come il gruppo del Comandante “Mingo” delle Valli dell’Erro e dell’Orba e la prima brigata Savona, organizzata da Giuseppe Dotta (“Bacchetta”) dalla quale si originerà la Divisione Fumagalli dell’EILN, presto in drammatico conflitto con la “Stella Rossa”.[17]
In autunno, a Savona, si formano anche gruppi di antifascisti che hanno l’obiettivo di agire in città. Il più importante è il Fronte della Gioventù (FdG), costituito da studenti come Giuseppe Noberasco e Settimio Pagnini e dagli operai Francesco Vigliecca e Stefano Peluffo. Questi giovani si formano sui classici della letteratura d’oltralpe, severamente proibita dalla scuola fascista. Si appassionano a letture come Martin Eden e Il tallone di ferro di Jack London o Furore di John Steinbeck; sono conquistati dai romanzi di Emile Zola e dai saggi del comunista Henri Barbusse; di nascosto, leggono anche La madre di Maksim Gor’kij e, naturalmente, il Manifesto di Karl Marx. Tutti volumi che cercano avidamente nelle biblioteche private.[18] Nella primavera del 1944 daranno vita alle testate clandestine “La voce dei giovani” e “Democrazia” grazie a una frenetica attività tipografica e si produrranno in acrobatiche imprese di lancio dei volantini, nella diffusione di materiale proibito e di scritte murarie contro il regime. Il Fronte della Gioventù si unirà poi ai “vecchi antifascisti” e ai rappresentanti del PCI clandestino per dare origine alle SAP, istituite formalmente nel novembre del 1944 con l’obiettivo di garantire un maggior collegamento tra le azioni di sabotaggio dei ribelli in città e le imprese dei partigiani in montagna.
Tra le formazioni di giovani antifascisti spiccano anche i Gruppi di Difesa della Donna (GDD), operativi dall’inverno ’43-’44 e animati da Clelia Corradini (trucidata dai fascisti il 24 agosto 1944), la cui militanza è lucidamente testimoniata da Mariuccia Fava (la partigiana “Asta”).
Dicembre 1943. Tensioni sociali, agitazioni e scioperi
Fra l’ottobre e il novembre 1943 in città e nei centri urbani della provincia le condizioni di vita si fanno particolarmente difficili. Scarseggiano gli alimenti e il costo dei generi di prima necessità aumenta. Nelle botteghe e nei mercati le merci sono praticamente introvabili e i prodotti migliori sono accaparrati dagli occupanti. Si cerca di rimediare alla penuria con il “mercato nero” che, tuttavia, rendendo libera la vendita, contribuisce a rincarare ulteriormente i prezzi delle merci. Nelle industrie mancano le materie prime e scende il livello dell’occupazione. Ad aggravare un quadro socio-economico già critico, si aggiungono i frequenti bombardamenti aerei.[19] Di questi, il più drammatico avviene a mezzogiorno di sabato 30 ottobre, quando Savona è colpita da 156 aerei alleati. Il bombardamento distrugge parte del centro storico e dell’area portuale, provocando danni irreparabili a edifici storici pubblici e privati, 116 morti, centinaia di feriti e più di 3.000 senzatetto.[20]
Sul piano politico, le rinate strutture fasciste sono rafforzate dal pieno appoggio dell’organizzazione militare tedesca e dalla spietata efficienza delle SS e della Gestapo. Le autorità fasciste tentano di alleggerire le difficoltà della guerra mediante provvedimenti volti a propiziarsi la fiducia dei lavoratori. Tra questi, s’impone agli industriali di anticipare di un mese il salario e lo stipendio dei dipendenti, nei casi di sfollamento dei loro famigliari, e si aliena loro anche il diritto di licenziare i lavoratori, che viene avocato alla Prefettura. Ma il Prefetto ha anche la facoltà di garantire ai lavoratori che si arruoleranno nella TODT, l’azienda addetta a costruire fortificazioni militari per conto dei tedeschi, traferimenti soltanto in località italiane prossime alle loro residenze.
A Savona, nell’ottobre ’43, il Prefetto Defendente Meda, funzionario badogliano apprezzato per certa tolleranza nei confronti dei lavoratori, viene sostituito dal famigerato Filippo Mirabelli, corresponsabile con altri gerarchi e gli occupanti tedeschi di numerosi crimini e crudeli atti repressivi. Il mese successivo Mario D’Agostino, nominato Commissario prefettizio dell’Unione lavoratori dell’industria, riesce a riformare le Commissioni interne di fabbrica. In questo scorcio del 1943 Mirabelli, per ingraziarsi gli operai, offre loro opportunità inattese. La strategia che lo muove rientra perfettamente nelle politiche del lavoro promosse dalla Repubblica Sociale Italiana soprattutto nelle città industriali. Forzando i tratti “socialistici” del fascismo della prima ora, la RSI propaganda soluzioni anticapitalistiche che, sovente, generano disorientamento specie tra i lavoratori meno politicizzati.
Ma i comunisti non credono che il fascismo “cambi rotta”; per questo insistono sull’abolizione delle Commissioni interne, che soppiantano con Comitati d’agitazione segreti, e sulla necessità di non abbandonare la difesa della “dignità di classe”, anche quando gli industriali si rivestono dei panni dell’antifascismo.[21] La scelta propugnata, tuttavia, non convince del tutto quegli operai che, con l’abolizione delle Commissioni interne, temono la perdita di garanzie di tipo econonico. Tra i lavoratori vendono a galla divisioni, in particolare tra chi intende lottare per rivendicazioni di tipo politico e chi ha di mira richieste di natura esclusivamente economica.
Intanto, il Comitato Sindacale Segreto dal novembre ha predisposto una serie di agitazioni in Liguria e, ai primi di dicembre, distribuisce nelle fabbriche volantini con la richiesta di aumenti di salario adeguati al costo della vita, maggiorazioni nel razionamento dei generi alimentari e la sospensione di ogni licenziamento. Nel mese di dicembre le maggiori città del “triangolo industriale” sono percorse da agitazioni: prima è la volta di Torino, poi tocca a Genova e a Milano. Savona si muove più tardi ma lo sciopero generale, che raggiunge il suo culmine tra il 21 e il 23 dicembre, qui assume tratti peculiari.
Gli eventi che si danno nelle fabbriche savonesi nel dicembre ’43 sono preceduti dalla scelte del comando germanico di impedire, tramite il primo rastrellamento, che i nuclei di partigiani stabilizzino sulle alture i loro insediamenti. L’obiettivo è l’area di Gottasecca (in cui si sono stanziati i partigiani della “Stella Rossa”) e la zona di Roviasca con il gruppo di Gino De Marco. Del primo nucleo fa parte Francesco Calcagno che, catturato dai Carabinieri a Quiliano il 19 dicembre, è consegnato ai tedeschi. Interrogato e torturato, è poi detenuto dal 23 al 27 nel carcere di Sant’Agostino di Savona e verrà fucilato per rappresaglia, insieme ad altre 6 vittime, il 27 dicembre al Forte della Madonna degli Angeli.
Intanto, già dalla metà di dicembre, scendono in sciopero gli operai della Scarpa&Magnano mossi da rivendicazioni sindacali e politiche (la “cessazione delle ostilità”). Presto l’agitazione si allarga alle altre fabbriche della provincia. Il 21 dicembre ’43, giorno in cui lo sciopero assume il massimo rilievo, nelle fabbriche compaiono volantini che Zimmermann, Comandante delle SS incaricato speciale del Generale Toussant per le repressioni delle agitazioni operarie, ha fatto affiggere con la promessa che gli operai, se desisteranno dallo sciopero, potranno fruire delle concessioni già ottenute dai lavoratori genovesi. Gli occupanti, per i quali è fondamentale mantenere attiva la produzione industriale, decidono inoltre di non far suonare la sirena alle 10.[22] Ma, a quell’ora, consistenti colonne di operai di diversi stabilimenti bloccano ugualmente il lavoro e, a Savona, si riversano su piazza XXVIII Ottobre, manifestando sotto la Federazione del Fascio. Chiedono che le autorità accolgano le richieste del Comitato Sindacale Segreto. Anche in Val Bormida il lavoro è sospeso e a Vado Ligure si tengono comizi di piazza che coinvolgono i lavoratori e la cittadinanza.
Il 22 dicembre, il Prefetto Mirabelli interviene all’ILVA con promesse rivolte ai lavoratori “nell’alto interesse della patria” e sollecita gli operai a formare nuovamente una Commissione per poter trattare. Gli operai, istituita una delegazione di una dozzina circa di membri, si recano dal Direttore dell’Ilva per presentare una nota di rivendicazioni. Tuttavia, per discutere le richieste della Commissione, nel pomeriggio anziché Mirabelli si presenta Zimmermann, seguito dalla scorta armata. Egli invita la Commissione operaia a presentarsi ma “la commissione non si presenta”. Benché ordini la ripresa del lavoro, è ignorato dagli operai che gli dimostrano la loro avversione.[23]
Il 23 dicembre lo sciopero si conclude. Gli operai si disperdono tra le forze tedesche e fasciste. Gli industriali, su pressione dei tedeschi, concedono aumenti salariali del 30% ma negli animi la tensione è fortissima. Lo sciopero generale ha coinvolto contemporaneamente tutti i lavoratori permettendo loro di ottenere un provvisorio miglioramento salariale, ma la classe operaia non ha diretto l’agitazione fino in fondo. Ha mancato l’obiettivo politico: lo sciopero generale ha mantenuto il suo specifico carattere di lotta a difesa degli interessi e della vita dei lavoratori ma non si è data quell’azione congiunta con i partigiani di montagna che, tramite il Comitato Sindacale Segreto, i comunisti avevano auspicato. I distaccamenti partigiani, ancora ridotti nel numero e privi di collegamenti con la città, non sono stati in grado di sostenere, fiancheggiandole, le lotte operaie nelle fabbriche.
Il “Natale di sangue” al Forte della Madonna degli Angeli
La situazione in città è estremamente tesa. L’insofferenza per l’esito incompiuto degli scioperi, la fame, la paura dei bombardamenti e delle improvvise retate fasciste moltiplicano gli episodi di violenza. Prima dell’aprile 1944, quando il rientro in Italia di Togliatti formalizzerà la scelta decisiva del PCI di condurre la guerra al fascismo e al nazismo in accordo con tutte le forze democratiche, sul finire del ’43 nel Partito emerge la volontà di rivendicare la superiorità d’azione rispetto ad altre più tiepide componenti antifasciste, anche al prezzo di introdurre modalità di lotta più cruente. Si delineano due strategie complementari: da un lato, colpire al cuore i gerarchi fascisti e le truppe tedesche con uccisioni o attentati dinamitardi mirati; dall’altro, sostenere le agitazioni operaie ricorrendo alla lotta armata. Questi nuovi obiettivi “segnano anche per Savona l’avvio della guerriglia urbana”.[24] Ne sono protagonisti i GAP (Gruppi di Azione Patriottica), organizzazioni alle dipendenze del Partito comunista, con rarissime componenti azioniste e socialiste e, per lo più, invise ai democristiani e ai liberali.[25]
Il Partito comunista, originariamente contrario all’ideologia e alla pratica terroristica ma spinto ora dall’urgenza di fronteggiare l’occupazione e dalla necessità di spezzare il fronte nazifascista, cerca a fatica di convincere i militanti di base e i quadri delle fabbriche ad accettare il ricorso alla lotta armata e al terrore. Affida questa modalità d’azione ai gappisti, nuclei urbani composti da 4 o 5 individui selezionati e disposti a morire per la causa. Sono uomini che vivono in clandestinità, separati dalla classe operaia da cui solitamente provengono. Definiti “soldati senza uniforme” e senza volto, colpiscono a sangue freddo i loro bersagli, studiano minutamente le abitudini del nemico per coglierlo di sorpresa nella quotidianità, quando si trova nelle vicinanze di casa, al cinema o al ristorante.[26] Alla loro violenza selettiva corrispondono le feroci reazioni dei fascisti e dei nazisti che agiscono con violenza indifferenziata tanto su prigionieri politici e partigiani quanto sulla popolazione civile inerme, in un crescendo di ritorsioni.
E’ quanto avviene a Savona, la sera del 23 dicembre, quando una bomba di grande potenza viene lanciata contro la “Trattoria della Stazione”, in via XX Settembre, luogo abituale di ritrovo di tedeschi e fascisti. Nell’immediato, l’ordigno provoca 6 morti (di cui uno iscritto al Partito fascista repubblicano) e 13 feriti, tra i quali 3 iscritti al PFR, un militare tedesco e il famigerato picchiatore squadrista Pietro Bonetto, persecutore accanito degli antifascisti savonesi.[27]
Nella notte fra il 23 e il 24 dicembre le autorità fasciste, sopraffatte dai tedeschi nella gestione degli scioperi, colgono l’occasione offerta dall’attentato per scatenare la prima gravissima rappresaglia urbana in città, assumendone interamente la guida. Per questo, da subito, effettuano arresti di cittadini semplicemente sospettati di simpatie antifasciste. Ma, contro il progetto di una “notte di San Bartolomeo” avanzata dai fascisti, gli occupanti scelgono la strada della “punizione esemplare” consistente nell’eliminazione fisica di alcuni tra gli antifascisti più noti e di maggiore autorevolezza ritenuti, in assenza di reali colpevoli, i “mandanti morali” dell’attentato. Il mattino del giorno di Santo Stefano viene così redatta una lista di 7 antifascisti da deferire al tribunale Militare Straordinario. Tra i prigionieri c’è chi è stato tradotto dalle carceri genovesi di Marassi (l’azionista Cristoforo Astengo) o savonesi di Sant’Agostino (i comunisti Francesco Calcagno, Carlo Rebagliati e Arturo Giacosa e i partigiani della “Stella Rossa” Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi) e chi è stato prelevato direttamente dalla sua abitazione (il cattolico Renato Vuillermin).
Il 27 dicembre, alle ore 4.00, i sette prigionieri vengono tratti dal carcere di Sant’Agostino e, in catene, trasportati nella caserma della Milizia in Corso Ricci, dov’è allestito “in seduta straordinaria” il Tribunale Militare. La sentenza è pronunciata frettolosamente nella Sala del comando della Milizia. I prigionieri non sono né interrogati né imputati di alcun reato. Viene loro comminata la “condanna a morte mediante fucilazione” con “esecuzione immediata”, in quanto, appunto, “mandanti morali” dell’attentato.
Alle 6.00 il furgone che ha prelevato i 7 antifascisti dal carcere riparte ora dalla Caserma della Milizia e si dirige verso il Forte della Madonna degli Angeli. Qui, i condannati sono attesi da un plotone di esecuzione di 40 militi, tra cui figurano 5 allievi ufficiali sotto il comando di Bruno Messa, Capo manipolo della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale. Il Seniore della milizia, Rosario Previdera, ingiuria i condannati e, in segno di disprezzo, li obbliga a voltare la schiena. Ordina quindi il fuoco con la mitragliatrice. Tre militi sparano sui sette condannati. Astengo, Calcagno e Rebagliati sono soltanto feriti. Allora il Brigadiere di P. S. Cardunati li finisce a revolverate e scarica poi l’arma anche sugli altri quattro, già privi di vita.
Nel “Natale di sangue”, a Savona, muoiono: due avvocati, Cristoforo Astengo e Renato Vuillermin, di 56 e 47 anni; Francesco Calcagno, contadino, di 26 anni; Carlo Rebagliati, falegname, 47 anni; Arturo Giacosa, operaio, 38 anni. Con loro vengono fucilati due soldati: Aurelio Bolognesi e Aniello Savaresi, di 31 e 21 anni.
La sciagurata scelta di individuare tra i presunti colpevoli della bomba alla “Trattoria della stazione” una nutrita rappresentanza delle categorie socio-economiche presenti nel territorio, dai professionisti agli ex-soldati attraverso artigiani, operai e contadini, conferma una precisa realtà: la consistenza dell’antifascimo savonese, ben radicato, alla fine del ’43, presso tutti gli strati sociali. Un fenomeno di cui le autorità naziste e fasciste hanno piena consapevolezza.
[1]Cfr. Giuseppe MILAZZO, La nascita del fascio di combattimento a Savona, “Quaderni Savonesi”, n. 30, ottobre 2012, pp. 21-76 (https://www.isrecsavona.it/pubblicazioni/quaderni/quaderni-savonesi-30.pdf).
[2] Cfr. R. BADARELLO, E. De VINCENZI, Savona insorge, Tipo-Lito “Ars Graphica”, Savona 1978, pp. 17-27.
[3]Il Processo di Savona. Dagli atti processuali del 1927, a cura di Vico Faggi, edizioni del Teatro stabile di Genova, Genova 1965, p. 7 (ristampa a cura dell’Isrec, Sabatelli editore, Savona 2007).
[4]Mario Lorenzo PAGGI, Resistenza e lunga Liberazione, in Aa.Vv., “Savona in guerra”, a cura dell’Isrec, Sabatelli editore, Savona 2016, p 107.
[5]Cfr. Andrea CORSIGLIA, Come si costruisce una dittatura. La politica giudiziaria del Tribunale speciale e il caso savonese del marzo 1934, a cura dell’Isrec, il melangolo, Genova 2020.
[6]Cfr. Antonio MARTINO, Antifascisti savonesi e Guerra di Spagna, a cura dell’Isrec, Sabatelli editore, Savona 2009, pp. 37-40 e p. 197 e sgg.
[7]Cfr. Rodolfo BADARELLO, Dal 25 luglio all’8 settembre del ’43 a Savona, “Quaderni Savonesi”, n. 14, luglio 2009, pp. 9-15 (https://www.isrecsavona.it/wp-content/uploads/2018/07/N.-14_Q_ISREC_lug2009.pdf), e BADARELLO, De VINCENZI, op.cit., pp. 46-50.
[8]Marco BELLONOTTO, I compagni di Stefano. Storie di partigiani di città (Savona 1943 – 1945), Elio Ferraris Editore, Savona 2005, p. 31 e sgg.
[9]Cfr. Claudio PAVONE, Una guerra civile, Bollati Boringhieri, Torino 1991.
[10]Giorgio AMICO, Operai e comunisti. La resistenza a Savona (1943-1945), GiovaneTalpa, Gorgonzola (MI), 2004, pp. 6-11.
[11]L’espressione è del partigiano Armando Siri ed è riportata in BELLONOTTO, op. cit., p. 37.
[12]Cfr. L’8 settembre 1943, “Quaderni Savonesi”, n. 13, giugno 2009, pp. 6-9 (https://www.isrecsavona.it/wp-content/uploads/2018/07/N.-13_Q_ISREC_giu2009.pdf).
[13]Guido MALANDRA, I volontari della libertà della II Zona partigiana ligure (Savona), Prima soc. coop. a r.l., Genova 2005, p. 6.
[14]Cfr. AMICO, op. cit, p. 17 e sgg. Per una narrazione complessiva della Resistenza a Savona cfr. Maurizio CALVO, Eventi di libertà, Arti Grafiche D.R., Cairo Montenotte (SV) 1995.
[15]Guido MALANDRA, Il distaccamento partigiano della Stella Rossa a Santa Giulia e a Gottasecca, Prima soc.coop. a r.l., Genova 2006, p. 17 e sgg.
[16]Cfr. BADARELLO, DE VINCENZi, op.cit., p. 64 e MALANDRA, Il distaccamento partigiano della Stella Rossa a Santa Giulia e a Gottasecca, cit., pp. 90-91.
[17]Cfr. MALANDRA, I volontari della libertà della II Zona partigiana ligure (Savona), cit., pp. 6-10.
[18]Cfr. BELLONOTTO, op. cit., pp. 46-47.
[19]Anna CREMIEUX, Gli scioperi del 21 dicembre e del 1º marzo 1944, “Quaderni Savonesi, n. 12, maggio 2009, pp. 101-107 (https://www.isrecsavona.it/wp-content/uploads/2018/07/N.-12_Q_ISREC_maggio2009.pdf).
[20]Giuseppe MILAZZO, Il bombardamento del 30 ottobre 1943 su Savona, “Quaderni Savonesi”, n. 35, marzo 201, p. 33 e sgg.
[21]Cfr. AMICO, op.cit., pp. 29-36.
[22]Paolo SECCHIA, I comunisti e l’insurrezione, Editori Riuniti, Roma 1973, pp. 104-105 in AMICO, op.cit., p.32.
[23]Cfr. BADARELLO, De VINCENZI, op. cit., pp. 69-70 .
[24]Cfr. AMICO, op. cit., p. 34.
[25]Marcello FLORES, Mimmo FRANZINELLI, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2019, p. 315-317.
[26]Santo PELI, Storie di Gap, Einaudi, Torino 2017, pp. 6-7. Sulla complessa e delicata questione dei Gap, a titolo indicativo, cfr. il Comando generale del CVL che le definisce “formazioni di pochi uomini aventi per compito l’azione terroristica contro i nemici e i traditori, azioni di sabotaggio contro le vie di comunicazione, i depositi del nemico, ecc.” Sulla storiografia dei Gap, che per decenni ha alternato alla mitizzazione lunghi silenzi, cfr. Santo PELI, I Gap nella Resistenza, https://storieinmovimento.org/wp-content/uploads/2015/08/Zap32-12_In-cantiere-1.pdf
[27]Cfr. il massacro del “Natale di sangue” nell’Atlante delle stragi naziste e fasciste in Italia all’url http://www.straginazifasciste.it/?page_id=38&id_strage=1359