di Alberto de Sanctis
Da più parti è stata richiamata l’analogia tra la guerra e la tragedia del Covid-19. Recentemente il Commissario all’emergenza, Arcuri, ha voluto sottolineare la gravità del prezzo pagato in termini di vite umane dalla Lombardia a causa del Covid-19, paragonandolo a quello pagato dalla città di Milano durante l’intero arco della Seconda guerra mondiale. Il piatto della bilancia pende decisamente dalla parte del Covid-19, i numeri sono impietosi e ci raccontano di una realtà che, benché non conosca crolli o distruzioni di edifici, colpisce per l’immensità del dolore provocato.
Come però noi ben sappiamo, riferendoci ancora una volta proprio alle esperienze belliche e, soprattutto agli anni immediatamente successivi alle stesse, il dolore offre l’opportunità di percorrere due strade diametralmente opposte tra loro: o si genera solidarietà, consentendo alle vite di chi ha sofferto di intrecciarsi sino a ritrovarsi in un unico grande e sentito abbraccio, oppure si finisce conl’innescare rivalità sempre più accese, spesso inasprite dalla consapevolezza o dal sospetto che l’altro, il vicino, abbia in quel momento badato soprattutto a difendere se stesso, piuttosto che a chinarsi su di noi, o che abbia addirittura pensato di proteggersi meglio calpestando le nostre mani quando già arrancavamo sull’orlo della fossa.
In Italia in primis, ma poi anche in Francia, in Germania e in Spagna si registra un incremento costante dei morti per Covid-19, tenuto sotto controllo solo grazie ad un lockdown senza precedenti, che ha tuttavia la conseguenza di compromettere la crescita economica e il benessere di molti. Italia, Francia, Germania e Spagna sono tutti Paesi senza i quali l’Europa non sarebbe concepibile, né geograficamente, né politicamente. Ecco perché oggi ci troviamo di fronte ad un bivio: o si creano nuovi e più solidi legami di solidarietà, oppure si pongono le premesse per mettere fine ad ogni sogno di unificazione, non c’è più spazio per mezze misure.
Se a prevalere saranno la disperazione e la sensazione di essere stati abbandonati, ognuno al proprio destino, si affermeranno le spinte disgregatrici e con esse tutti quelli che da tempo le vanno alimentando. In quest’ottica, esattamente come per molte guerre del passato, il Covid-19lancia una sfida all’Europa, assume il carattere ultimativo e drammatico di una chiamata alle armi per coloro che avvertono la necessità di una maggiore responsabilità, di un maggiore impegno, che mai come in questo caso non può che essere ad un tempo etico e politico e, potremmo dire, etico prima ancora che politico.
Per tale ragione nel titolo di questo articolo ho scelto di inserire un “deve” virgolettato, quasi ad insistere su di un moto della volontà che nondimeno non prescinde da un imperativo morale. Imperativo che non può non scaturire dal riconoscersi parte della medesima umanità. Giuseppe Mazzini è tra i primi a parlare di Stati Uniti d’Europa e, in vista di una loro costruzione che non si arresti al livello degli egoismi individuali o nazionali, non tarda ad emendare il noto motto della Rivoluzione francese “Liberté, égalité, fraternité”, tramutandolo in “Libertà, uguaglianza, umanità”. Sono queste tre parole d’ordine a campeggiare al centro della bandiera della Giovine Italia. Mazzini si propone così sviare ogni tentazione di considerare la “fraternité” come ristretta ad un qualsiasi gruppo, pago di sé stesso e del conseguimento dei suoi obiettivi, sia pure il gruppo dei rivoluzionari. “Libertà, uguaglianza, umanità” è anche il motto scelto da Mazzini per introdurre il manifesto con il quale si dà vita alla Giovine Europa.
In esso si ribadisce “Che ad ogni uomo, e ad ogni Popolo spetta una missione particolare, la quale, mentre costituisce la individualità di quell’uomo, o di quel Popolo, concorre necessariamente al compimento della missione generale dell’Umanità”. E’ chiaro l’intento di Mazzini di istituire la presenza di un’incontenibile tensione tra il termine di individualità (sia questa da concepirsi come individuo o come popolo) e l’espressione di umanità, una tensione da non considerarsi mai sopita, mai incline a chiudersi, a trincerarsi dietro una soddisfazione che ne annulli la dinamicità e le potenzialità.
E’ per questo motivo che Mazzini preferisce parlare di doveri, piuttosto che di diritti. Come scrive nel primo capitolo dei Doveri dell’Uomo indirizzato Agli operai italiani, “colla teoria dei diritti possiamo insorgere e rovesciare gli ostacoli; ma non fondare forte e durevole l’armonia di tutti gli elementi che compongono la Nazione. Colla teoria della felicità, del ben essere dato per oggetto primo della vita, noi formeremo uomini egoisti, adoratori della materia”. Per questo è indispensabile il principio del dovere. In base ad esso si vive, “non per sé, ma per gli altri”, si comprende che il combattere le ingiustizie di cui sono vittime altri esseri umani ben difficilmente può trovarsi ad essere incoraggiato, muovendo da diritti individualmente pensati ed individualmente concepiti.
Si tratta più compiutamente di un dovere, un “dovere – come ribadisce Mazzini – da non negligersi senza colpa”. Limitandosi alla rivendicazione dei diritti v’è il rischio di scivolare presto nell’autosufficienza, nel bastare a sé stessi. Il dovere crea invece continuamente uno sbilanciamento che induce ad andare oltre, uno iato, che il proprio impegno può ambire a colmare solo provvisoriamente. Pur facendo moltissimo, si ha l’impressione di non avere mai fatto abbastanza. E’ della stoffa del senso del dovere mazziniano che è intessuto il “deve” di Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi al loro tempo ed è, riscoprendo il valore etico prima ancora che politico della loro ispirazione quando stilano il Manifesto di Ventotene nel 1941, che è possibile per noi oggi attribuire un significato al nostro “deve”.
Solo in questo modo si può oggi sperare di rilanciare in modo credibile lo spirito di Ventotene. E’ questa la prima conditio sine qua non per evitare che noi, e insieme a noi l’Europa, si precipiti per l’ennesima volta nel baratro. Come per Mazzini, anche l’appello di Rossi e Spinelli è intriso della consapevolezza che ci si trovi di fronte ad un aut-aut. Ad essere in gioco è la sopravvivenza della civiltà moderna e il cuore di tale civiltà è per i due confinati di Ventotene rappresentato da un principio che risale a Mazzini e verosimilmente ancor prima a Kant: “il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita”.
Esso si integra con l’affermazione dell’eguale diritto dei cittadini “alla formazione della volontà dello Stato”, mentre ad assicurare che il primo e il secondo principio non si cristallizzino generando nuovi privilegi, è il terzo principio, per il quale è necessario riconoscere “il valore permanente dello spirito critico”. Si può dire che così si ricrei, nel Manifesto di Ventotene, quell’incolmabile tensione tra individualità ed umanità, che costituisce il motore della visione mazziniana.
Tuttavia se Mazzini, da uomo del Risorgimento, identifica nella nazione il primo termine di un processo, comunque capace in un secondo momento di proiettarsi in direzione della costruzione di un mosaico di nazioni che vivono pacificamente ed operano armonicamente (gli Stati Uniti d’Europa), Rossi e Spinelli, che hanno assistito a due guerre mondiali, alla nascita degli imperialismi e dei totalitarismi quali prodotti proprio dell’insufficienza degli stati-nazione, vedono in una federazione europea il primo indispensabile passaggio “in attesa – come scrivono – di un più lontano avvenire, in cui diventi possibile l’unità politica dell’intero globo”. L’inscindibilità del legame tra etica e politica induce Mazzini, così come gli estensori del Manifesto di Ventotene, a privilegiare una politica che, orientata ad assicurare la conciliazione tra i principi di libertà ed eguaglianza e guidata da uno spirito critico nemico di ogni dogmatismo, avrebbe dovuto tenere a freno le “tante baronie economiche”, responsabili della delegittimazione degli ordinamenti democratico liberali.
Riprendendo le frasi utilizzate da Rossi e Spinelli le baronie economiche coincidono con i “redditieri che contribuiscono alla produzione sociale solo col tagliare le cedole dei loro titoli”, con i “ceti monopolistici e delle società a catena che sfruttano i consumatori e fanno volatilizzare i denari dei piccoli risparmiatori”, con i “plutocrati, che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici”. E’ la necessità dicontrollare le “baronie economiche” a spingerli ad anteporre il momento politico a quello economico, il federalismo a un indefinito e vago sentimento europeista. Come nota Norberto Bobbio in un suo noto saggio (Il federalismo nel dibattito politico e culturale della Resistenza), a prevalere nel Manifesto di Ventotene è il motivo federalistico a scapito di quello europeistico.
Nell’immediato secondo dopoguerra, tra il 1945 e il 1947, i partiti politici italiani danno tuttavia la netta impressione di volere archiviare la tematica federalistica nei termini in cui la pongono Rossi e Spinelli. I due sono esclusi dall’Assemblea Costituente e non sono chiamati a far parte del governo guidato da De Gasperi. Anche la delusione provocata dal venir meno delle speranze suscitate dal rilancio dell’europeismo sulla scorta del piano Marshall, speranze che inducono Ernesto Rossi a convocare a Roma, nell’ottobre del ’47, la conferenza del Movimento Federalista, contribuisce a decretare il fallimento di quello che abbiamo definito essere lo spirito di Ventotene.
Ad avere la meglio sarà il cosiddetto funzionalismo, che sin dagli esordi taccia di idealismo i federalisti. L’idea centrale del funzionalismo, che diviene l’ideologia dominante dell’europeismo dal secondo dopoguerra in poi, consiste – come rileva ancora Bobbio – “nella fine del primato della politica” (v. ibid.), esattamente agli antipodi rispetto a quanto auspicato nel Manifesto di Ventotene. Il funzionalismo crede nella possibilità che l’unificazione delle principali attività economiche possa fare da traino al federalismo, condannando però quest’ultimo a restare indefinitamente sullo sfondo.
Come in una sorta di eterno controcanto, lo spirito di Ventotene è però destinato costantemente a ritornare, a ripresentarsi in altre forme. Come osserva Eugenio Colorni, vicino a Rossi e Spinelli all’epoca della stesura del Manifesto, è la tragedia della seconda guerra mondiale a rendere il federalismo “una meta raggiungibile e quasi a portata di mano”. Oggi sta a noi fare rivivere quello spirito, impedendo che la possibilità di costruire un’Europa federale sia una volta per tutte travolta dalla tragedia del Covid-19. Come afferma Spinelli in un’intervista del 1984, “la forza di un’idea nuova sta sempre nel risorgere dalle sconfitte” purché, si potrebbe aggiungere, animata da quella fede nel dovere che, come sottolinea Mazzini, impone di vivere “non per sé, ma per gli altri”. E’ questa fede ad alimentare lo spirito di Ventotene.
L’ articolo è stato redatto il 20 aprile 2020