Dalla Resistenza alla Cittadinanza europea
Negli ultimi anni l’Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea “Raimondo Ricci” e la rivista “Storia e Memoria” hanno dedicato una grande attenzione all’Europa, nella consapevolezza che il processo d’integrazione continentale ha rappresentato uno dei grandi eventi internazionali del secondo Novecento, una vera e propria cesura nella nostra storia. Si è trattato infatti di un processo che nel suo complesso – sia detto senza alcun intento celebrativo – ha contribuito ad affermare la pace nel vecchio continente dopo la tragedia delle guerre mondiali, ha favorito lo sviluppo economico e la modernizzazione della nostra società, ha concorso a consolidare le istituzioni democratiche degli Stati membri della Comunità, alcuni dei quali appena usciti dagli anni bui della dittatura. Nell’arco di settant’anni di storia comunitaria i Paesi europei hanno goduto di un periodo di benessere mai conosciuto in precedenza e i loro cittadini hanno conquistato nuovi diritti civili e sociali, ivi inclusa, a partire dal Trattato di Maastricht, la cittadinanza europea. Come sappiamo si tratta di un processo ancora in fieri, tutt’altro che lineare e non privo di contraddizioni, ma la cui importanza – forse, perfino, la cui necessità – è stata ulteriormente evidenziata dalla crisi economica suscitata dalla pandemia e dalle drammatiche vicende internazionali che hanno portato la guerra ai confini dell’Unione Europea – dall’Ucraina al Nagorno Karabakh, sino al recentissimo conflitto in Israele. La gravità di tali crisi ha infatti reso irrealistica, da parte degli Stati nazionali, la ricerca di una risposta a livello statale, sia sul piano economico sia sul piano della sicurezza, nonostante vi siano ancora forze politiche sostenitrici di questa posizione. Di qui il Next Generation EU e la faticosa convergenza dei Paesi membri in politica estera, perché risulta evidente che, in uno scenario internazionale che vede come protagonisti la Cina, la Russia e gli Stati Uniti, gli Stati europei possono giocare un ruolo solo se integrati nella UE. Si aprono perciò oggi nuove opportunità per rilanciare quel discorso dell’integrazione politica, da tempo trascurato almeno dalle istituzioni europee, che era stato previsto da Schuman sin dalla celebre Dichiarazione del 9 maggio 1950. Nel presentare alla stampa internazionale il progetto della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio il ministro degli Esteri francese aveva infatti affermato che “con la messa in comune di produzioni di base e l’istituzione di una nuova Alta Autorità, le cui decisioni vincoleranno la Francia, la Germania e i paesi che vi aderiranno, questa proposta realizzerà le prime basi concrete di una federazione europea indispensabile al mantenimento della pace”. Ma è comunque necessaria una volontà politica da parte degli Stati membri per procedere in questa direzione, non vi è alcun automatismo. Si tratta, pertanto, di un percorso irto di ostacoli, non solo per il riemergere di nazionalismi populisti ed euroscettici, ma perché non è oggettivamente facile raggiungere accordi significativi tra i 27 governi degli stati che compongono oggi la Ue, perché esistono posizioni diverse tra le forze politiche e all’interno degli stessi gruppi parlamentari europei, perché mancano leader carismatici in grado di favorire questa evoluzione “federalista”, perché il consenso dei cittadini nei confronti dell’Europa risulta altalenante, e comunque non particolarmente ampio, come mostrano periodicamente i sondaggi dell’eurobarometro.
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