La morte di Aldo Gastaldi, il comandante Bisagno, per Giampaolo Pansa deve essere da tempo un’ossessione, che ritiene di avere esorcizzato, probabilmente, con questo suo nuovo libro, Uccidete il comandante bianco, edito da Rizzoli. Pansa, infatti, vi aveva dedicato alcune pagine già nel 2006, in uno dei suoi sequel del Sangue dei vinti, quello che aveva per titolo La grande bugia, che si riferiva a come la sinistra italiana avesse sempre coperto, ignorato, rimosso e falsificato la storia relativa alle vendette contro i fascisti manifestatisi negli ultimi giorni prima della liberazione e nei mesi immediatamente successivi in alcune zone, soprattutto, dell’Italia.
In questo nuovo libro, che cerca di romanzare a livello di feuilleton di terz’ordine la vita di Gastaldi, grazie all’escamotage di far parlare un partigiano che l’aveva conosciuto (ma ormai morto da tempo) e che avrebbe raccontato allo stesso Pansa a più riprese la «vera» storia della Resistenza come l’aveva vissuta, comprese le vicende relative a Gastaldi, Pansa rende definitivamente chiaro, per chi avesse ancora avuto dei dubbi, il modello di storico che ha in mente, la sua metodologia, la sua deontologia nei confronti sia della verità storica sia dei personaggi di cui parla.
In tutto il libro non c’è un documento, non c’è una citazione, non c’è una testimonianza, ma solo dei sentiti dire, delle voci, delle illazioni, che un po’ alla volta finiscono per comporsi in una spiegazione all’apparenza coerente, almeno con il pregiudizio che ha mosso tutta la ricostruzione e che non può, con questo modo di fare storia, che venire confermata e legittimata. Pansa si vanta di essere un «revisionista», accettando con orgoglio la critica puerile e semplicistica che purtroppo anche da parte della storiografia gli è stata rivolta: una critica che dimentica che ogni storia è revisionista per sua natura, ma solo perché cerca di andare avanti rispetto alle acquisizioni del passato, sulla base delle nuove fonti documentarie e testimoniali e sulla base di intuizioni e domande che provengono spesso dal presente e spingono, di conseguenza, a interessarsi di aspetti precedentemente negletti o a guardare con ottiche originali e diverse lo stesso materiale già oggetto di studi passati.
Pansa, in realtà, non è nemmeno un negazionista, come spesso sono stati alcuni di quelli che si sono voluti chiamare revisionisti rispetto, ad esempio, alla realtà negata della Shoah. Pansa non nega, inventa, ma ritiene che dare ai propri libri il carattere di saggio storico, partendo da alcuni dati di realtà attorno a cui ricostruisce a piacimento vicende, motivi, esperienze, interpretazioni, sia più utile che raccontare esplicitamente in forma romanzesca i fatti di vuole parlare. Qui, in Uccidete il comandante bianco, Pansa vuole dimostrare che i comunisti, nella fase finale della Resistenza, hanno volontariamente e consapevolmente – almeno in parte, e una parte non secondaria: quella che faceva riferimento a Secchia e, quindi, probabilmente alla maggioranza dei partigiani comunisti – pensato di progettare una rivoluzione socialista in Italia e successivamente, a Liberazione avvenuta, avrebbero pensato a organizzare un colpo di stato per prendere quel potere che democraticamente non sarebbero riusciti a ottenere.
Questo, e solo questo, è il motivo per cui Bisagno sarebbe stato ucciso, con una modalità contorta e improbabile, difficile da attuare e facile da scoprire: avvelenandolo e così costringendolo a gesti da pazzo o esaltato (salire sul tetto dell’automezzo su cui è) e di conseguenza cadere (o essere buttato volontariamente) sotto le ruote del camion rimanendo ucciso quasi sul colpo. Bisagno era un partigiano cattolico, un comandante rispettato e amato, che non avrebbe mai accettato che i comunisti si impadronissero del potere, che avrebbe potuto, con la sua capacità e prestigio, impedirlo militarmente oltre che politicamente: e andava quindi eliminato. Se quest’azione fantasiosa avesse un minimo di fondamento – al di là delle voci che all’epoca vennero fatte, come sempre in epoche simili e di fronte alla morte inattesa e apparentemente inspiegabile di qualcuno – dovremmo trovare in diverse città e regioni d’Italia decine e decine di altri «casi Bisagno», di comandanti partigiani non comunisti uccisi subito dopo la fine della Resistenza per impedire che potessero impedire a loto volta il colpo di stato progettato da Secchia e dai comunisti.
Pansa, che è stato giornalista di vaglia e che in gioventù è stato anche uno storico attento e informato, autore di contributi significativi e importanti, non può non sapere che Stalin – come ci hanno definitivamente fatto sapere Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky nel loro libro su Stalin e Togliatti – non voleva assolutamente che i partigiani comunisti italiani seguissero l’esempio greco, che creassero problemi in un paese che faceva parte della zona d’influenza occidentale stabilita a Jalta dai Tre grandi, tanto è vero che aveva spinto perché Togliatti (che se ne assunse orgogliosamente l’autonoma paternità) facesse quella famosa «svolta di Salerno» che portò i comunisti a collaborare con uno dei grandi generali del regime fascisti. Né può ignorare che sarà proprio Togliatti l’autore di quel decreto di pacificazione (l’amnistia che porta il suo nome) che sembrò mettere una pietra tombale sulla punizione dei delitti fascisti e aprì anche la strada, pur se involontariamente, a quei processi che videro i partigiani costretti a difendersi per avere combattuto per la libertà dell’Italia.
Come si può spiegare, allora, la pervicacia nell’avvitarsi attorno a un’ipotesi interpretativa del tutto infondata, prendendo spunto da essa per giudicare una completa menzogna tutte le storie della Resistenza scritte da storici nel corso di settant’anni, che meriterebbe finalmente una nuova e «vera» storia, un racconto basato non si sa se sulle tante voci che si sono potute raccogliere nel tempo o sui documenti che si sono accumulati e sono sempre più a disposizione di chiunque voglia consultarli? Pansa è ancora convinto che il racconto «canonico» sulla Resistenza sia quello scritto da Longo in Un popolo alla macchia, dove all’idea del popolo italiano tutto pronto a scrollarsi di dosso il fascismo si accompagnava la convinzione che la Resistenza fosse stata sostanzialmente comunista, e che l’egemonia del Pci garantisse i risultati raggiunti nella lotta per la libertà (risultati che, tuttavia, non contemplavano alcun colpo di stato ma solo la «doppiezza» nell’essere, all’interno, coerentemente e tenacemente fedeli alla Costituzione e alla democrazia, e, nei confronti dell’Urss, fanatici difensori di un totalitarismo che non si voleva vedere e si dipingeva con palesi menzogne).
La storia della Resistenza, per fortuna, ha intrapreso nel corso dei decenni passi da gigante, e la vita, le pubblicazioni, l’attività della rete degli istituti che fanno capo all’Istituto Nazionale Ferruccio Parri di Milano (compreso l’Istituto ligure che ha tutto il materiale e la documentazione necessari a sapere come si sono svolte le vicende in cui è stato coinvolto Aldo Gastaldi), sono a dimostrarlo a chiunque, con contributi importanti, innovativi, originali, che hanno più volte, quando necessario, «revisionato» le precedenti acquisizioni. Che ancora molto si possa e debba fare per ampliare la visione globale e locale di cosa la resistenza è stata, per approfondire temi ancora controversi o dipanare querelle ambigue e irrisolte, è nella consapevolezza di noi tutti. Che continueremo il nostro lavoro malgrado il successo mediatico che opere, storicamente disoneste e metodologicamente indegne come questa di Pansa, possano conoscere, è un impegno altrettanto certo e serio che non possiamo che prendere ancora una volta.