di Franco Praussello
Che il risultato in apparenza strabiliante di Salvini alle elezioni europee assomigli in realtà a una vittoria di Pirro lo dimostra l’inizio della procedura di infrazione per debito da parte della Commissione. Le elezioni si sono concluse non soltanto con un rafforzamento dello schieramento pro-Europa a livello continentale e il fallimento di un’Opa populista sugli assetti dell’Unione, ma anche con una totale emarginazione del governo giallo-verde nei rapporti con le istituzioni europee e i Paesi partner, non ultimo sul piano delle politiche di bilancio. La speranza che una Commissione in scadenza fosse così debole da rinunciare a censurare le inadempienze dell’Italia rispetto al patto fondativo dell’eurozona si è rivelata infondata: segno che nei destini degli Stati ciò che conta sono le istituzioni, e non i singoli responsabili pro tempore che le rappresentano.
Che questa fosse una tappa obbligata nella turbolenta vicenda delle relazioni fra l’Unione e l’unico governo pienamente populista al potere nell’Ue che pretende di sfidarla apertamente era peraltro inevitabile. Da un lato, la Commissione era tenuta a difendere l’eurozona dagli effetti di contagio che possono derivare da comportamenti di bilancio in contrasto con le regole della moneta unica da parte di un Paese, che se dovesse fare bancarotta, sarebbe troppo grande per essere salvato, trascinando con sé l’intera costruzione dell’area euro. Dall’altro, le scelte di bilancio del governo erano scorrette dal punto di vista macroeconomico.
Come avevano previsto da tempo economisti del calibro di Olivier Blanchard, ex capo economista del Fondo monetario internazionale, le due misure bandiera del reddito di cittadinanza e della quota 100, nel loro insieme erano destinate ad avere un impatto modesto, se non negativo sul reddito: erano un esempio di ciò che i tecnici definiscono un’espansione fiscale con effetti recessivi. Nello specifico, gli effetti di espansione della produzione, che pure erano presenti in lieve misura, erano destinati a essere ridotti (o più che compensati) dall’aumento dei tassi d’interesse (anche per gli spread in ascesa), com’è apparso chiaro in queste settimane, con conseguente peggioramento progressivo del rapporto fra debito e Pil. Con l’avvertenza che attualmente il peso degli interessi sul debito supera il tasso di crescita del Pil nominale, suscitando dubbi circa la sostenibilità dell’indebitamento pubblico.
Ora il governo ha intavolato una trattativa con le istituzioni europee, nella speranza di ripetere la sceneggiata dello scorso anno: chiedere più flessibilità nei conti protestando ad alta voce che le spese per il reddito di cittadinanza e quota 100 non possono essere tagliate; pronto però – alla fine – ad accettare gran parte delle condizioni della Commissione, che verrebbe additata come affamatrice dei figli di 60 milioni di italiani. A meno che, nel segreto delle conventicole dei gialloverdi guidati da Borghi, si stia tramando per riempire le casse delle banche e dei bancomat di miliardi di minibot, per abbandonare l’euro dall’oggi al domani.