Intervista a Giovanni Maria Flick a 80 anni dalle leggi razziali
di Marco Peschiera
Professor Flick, siamo a 80 anni dalle leggi razziali fasciste, a 75 dallo sterminio degli ebrei e a 70 dall’entrata in vigore della Costituzione. In generale lei, che tra l’altro ha presieduto la Corte Costituzionale, vede il rischio che il principio fondamentale dell’articolo 3 sull’uguaglianza sia oggi rimesso in discussione?
Non vedo un rischio conclamato di questo tipo, non penso che qualcuno si batta per la sua abrogazione; vedo però il moltiplicarsi di situazioni di “diversità” che tendono a vanificare la pari dignità sociale prevista dall’articolo 3 come obiettivo prioritario della nostra Repubblica. Vedo cioè la moltiplicazione e la crescita esponenziale delle “diversità” e della intolleranza nei loro confronti. Mi pare che siamo sulla strada di una vanificazione di quel principio. È lo stesso metodo seguito per cambiare il significato dell’articolo 1: esso afferma, giustamente, ”La sovranità appartiene al popolo…”. Molti però omettono di ricordare la seconda parte della frase: “…che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Così, con la tecnica del troncamento, si tenta di scrivere un manifesto del populismo, concetto che in Costituzione non esiste.
Vorremmo analizzare nel dettaglio l’articolo 3. La prima frase è: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge…”. Domanda: quando scrissero “cittadini” i Costituenti intendevano tutti gli esseri umani o, come qualcuno interpreta oggi, soltanto “gli italiani”?
Io credo che quando la Costituzione è stata scritta non ci si poneva il problema della distinzione tra italiani ed extracomunitari: sia per l’inesistenza di una dimensione comunitaria europea sia perché in quell’epoca l’attenzione si focalizzava soprattutto sulla emigrazione italiana più che sulla immigrazione. Cioè sul fatto che i nostri nonni con la valigia di cartone legata con lo spago non andavano più nelle Americhe ma nelle vicine e fredde Svizzera e Belgio a spalare il carbone: sappiamo come finì a Marcinelle.
L’articolo 3 riguarda senza ombra di dubbio italiani e stranieri allo stesso modo. Aggiungo anche che l’articolo 10 assicura a entrambi lo stesso trattamento in tema di diritti fondamentali: come è noto, o meglio come dovrebbe essere noto, dice che “la condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali”. Ma anche in questo caso c’è oggi la tendenza a dimenticare ciò che può essere scomodo rispetto a certe concezioni politiche.
Ci aiuti ancora nella lettura, parola per parola, dell’articolo 3 e ci dica se secondo lei è oggi rispettato o meno: “…senza distinzione di sesso…”
Fu soprattutto un riferimento alla questione femminile. Le donne si erano conquistate sul campo la parità a tutti gli effetti, lavorando al posto degli uomini che combattevano sui campi di battaglia e partecipando attivamente alla Resistenza non solo come “angeli del focolare” ma in modo operativo e concreto (penso alle loro medaglie d’oro al valore militare). Il primo atto concreto di parità fu l’accesso all’elettorato attivo e passivo, cioè il diritto di voto e il diritto di essere elette, in occasione del referendum istituzionale e dell’elezione dell’Assemblea Costituente nel 1946.
Non furono molte, numericamente, le donne che parteciparono ai lavori della Costituente ma il loro contributo fu determinante. Lo sviluppo della parità è proseguito sia sul piano dell’accesso alle cariche pubbliche sia sul piano della retribuzione e sul lavoro; non è lontano il tempo in cui le donne non potevano prestare servizio militare o svolgere le funzioni di magistrato.
Ma adesso il tema della diversità sessuale acquista anche un altro rilievo, quello dell’omofobia: di fronte a forme di manifestazione della sessualità diverse da quelle cosiddette normali (ma non per questo meno legittime) o a diverse espressioni di identità e di libertà, io credo che dovrebbe essere integrata la legge che dà attuazione alla direttiva fondamentale delle Nazioni Unite sulla parità e sul divieto di discriminazione. Oggi la discriminazione sessuale e il rifiuto troppo spesso anche violento della diversità credo che sia una nuova frontiera della parità senza distinzione di sesso. Anche se il clima culturale è molto lontano dalla realizzazione di questo traguardo.
“…di razza…”
Quanto al problema della razza da un certo punto di vista l’articolo 3 è superato perché la genetica ha dimostrato che aveva ragione Einstein quando entrando negli Usa per sfuggire alle persecuzioni razziali in Germania scrisse sul modulo di ingresso di appartenere alla “razza umana”. Si discute se debba quindi eliminarsi dalla Costituzione come dalla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo questo riferimento. Ma al di là della questione semantica (che rischierebbe tra l’altro di creare confusione) vi è il rischio di cacciare dalla porta che ciò che può rientrare dalla finestra, cioè la discriminazione anche se non più in base a inesistenti differenze genetiche. Il concetto di razza si è guadagnata una triste legittimazione ad esistere per le atrocità che sono state commesse in suo nome.
“…di lingua…”
Mi sembra invece molto attuale il problema della differenza di lingua come coefficiente di discriminazione. La lingua è lo strumento che può unire ma può anche separare: penso all’uso del politichese e del burocratese per rendere difficili le cose facili attraverso quelle inutili. Cioè per parlare ma non farsi capire.
La Costituzione da questo punto di vista offre uno strumento notevole di insegnamento con il suo linguaggio semplice, piano e comprensibile: lontano mille miglia dal parlare per tweet a cui ci stiamo purtroppo abituando anche nella politica e nel diritto. Questo vale almeno per la Costituzione nella sua stesura originaria: ricordo che Meuccio Ruini, presidente della commissione dei 75 alla Costituente, chiese a un linguista del calibro di Concetto Marchesi di controllare la veste formale della Costituzione; e questo perché era una Costituzione che non pioveva dall’alto, dalla saggezza dei tecnici e dalle loro acrobazie, ma germogliava dal basso, dal sangue e dalla volontà popolare.
“…di religione…”
Qui credo che vadano ricordate le parole di Togliatti che acconsentì a votare con il suo partito, il Pci, l’articolo 7 sul rapporto tra Stato e Chiesa per la necessità di assicurare al paese la “pace religiosa” in un momento di particolare difficoltà. Mi sembra che sul tema dei rapporti tra Stato e Chiesa, delle differenze di trattamento delle diverse confessioni religiose e della loro libertà abbiamo raggiunto un livello ragionevole o quantomeno tollerabile, anche attraverso le intese con le altre confessioni.
“…di opinioni politiche…”
Non mi pare che oggi le opinioni politiche rappresentino ragioni di discriminazione; vedo però con preoccupazione che il dialogo politico si sta trasformando in uno scontro non soltanto politico ma anche istituzionale. Un fatto che mi preoccupa: in momenti più difficili di quelli attuali si riuscì a mantenere un equilibrio tra il dialogo istituzionale e il confronto politico anche acceso; penso ai Costituenti che per mezza giornata si scontravano sulla collocazione dell’Italia nell’area occidentale e il pomeriggio discutevano invece costruttivamente sui contenuti della Costituzione. Voglio invece sottolineare che oggi siamo ben lontani da allora: non sappiamo distinguere tra momento politico e momento istituzionale.
Sul piano politico gli interessi di parte possono anche portare a uno scontro anche aspro, che non dovrebbe comunque superare certi limiti (e comunque rispettare i limiti della grammatica: l’uso improprio del congiuntivo può portarci dalla dimensione reale a quella virtuale). Nel momento istituzionale invece si deve mantenere la convergenza più larga possibile.
“…di condizioni personali e sociali.”
Qui l’articolo 3 ci proietta direttamente alla questione più attuale, quella del nostro comportamento, come Stato e come nazione, nei confronti dei migranti.
Sì, siamo all’oggi. Il ministro Salvini non esita a definire “clandestino” chiunque tenti o chieda di entrare nel nostro Paese da altri continenti, indipendentemente dalla provenienza e dalle motivazioni. Questo atteggiamento si può definire razzista?
Parole come “extracomunitario” o “clandestino” esprimono un concetto di esclusione nella grande alternativa tra una società dell’appartenenza e una società della partecipazione. Mi sembra che la nostra Costituzione delinei e voglia perseguire una società della partecipazione, non della appartenenza, quindi non dell’esclusione degli altri. L’etichetta dell’extracomunitario o del clandestino può diventare appunto una forma di esclusione, sottolineare la diversità di queste persone. Più che un atteggiamento in senso stretto razzista lo definirei un rifiuto della diversità che si esprime anche nell’insistere su slogan come “prima gli italiani”.
Ma di fronte ai diritti fondamentali non ci sono priorità o liste di attesa. D’altra parte unire in un unico contenitore i problemi della sicurezza con quelli dell’immigrazione vuol dire più o meno esplicitamente sottolineare le condizioni aprioristiche di diversità di una categoria, di un gruppo di persone, e presentarli all’opinione pubblica come fonte di pericolosità e insicurezza. Il che non mi pare corrisponda alla realtà.
La decisione di “chiudere i porti” e di boicottare le operazioni di salvataggio in mare delle Ong è una scelta politica discussa e discutibile ma non presenta in sé risvolti anticostituzionali. Espone invece l’Italia a sanzioni e condanne dal punto di vista dei trattati e delle convenzioni internazionali?
Non voglio entrare nei tecnicismi del diritto internazionale o nel groviglio delle convenzioni, quella dell’Onu sul diritto del mare del 1982, quella sulla sicurezza della vita in mare del 1974 e la convenzione Sar sulla ricerca e il soccorso in mare del 1979. Al di là delle ripartizioni di competenze, mirano tutte a obblighi fondamentali: l’obbligo di salvare la vita in mare che è il frutto di una consuetudine e che spetta al capitano della nave, l’obbligo per gli Stati di apprestare strutture sicure per il ricovero della persona salvata in un “luogo sicuro” nel quale siano garantite l’incolumità e la soddisfazione delle esigenze primarie (vitto, alloggio e cure), fino al trasporto alla destinazione finale dopo che si è conclusa l’operazione di salvataggio.
Ricordo inoltre l’obbligo di dare asilo a chi sia privato nel proprio Paese delle libertà fondamentali. Lo dice ancora l’articolo 10, al terzo comma: “Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge”. Anche questo articolo è tra quelli che a qualcuno fa comodo dimenticare.
Certo tutta questa serie di obblighi è stata sottoposta allo tsunami delle migrazioni bibliche, fenomeni di massa: accanto ai richiedenti asilo per motivi politici o bellici e a quelli che vengono definiti “migranti economici” ora abbiamo anche l’ondata dei “migranti ecologici” in fuga da terre che non danno più da bere e da mangiare. Tutto questo provoca i conflitti politici attuali ma i principi restano quelli: obbligo di salvare le vite umane e di ripartirsi tra gli Stati l’assistenza successiva, soprattutto in un’Europa in cui la crisi demografica rende evidente che è necessario avere certi flussi e trasformarli da fattori di crisi in fattori di positività ed evoluzione.
Uomini, donne e bambini costretti a pericolose odissee o sequestrati per settimane sulle navi. Lei cosa ha provato di fronte ai casi Aquarius e Diciotti?
Non entro nel merito giuridico: ci penseranno i magistrati. La prima reazione che ho provato, come tanti, è l’incredulità nel vedere private della libertà persone che si trovavano in territorio italiano dal momento in cui sono salite su una nave italiana. Siamo arrivati al paradosso di una nave militare che fa una “sosta tecnica” per trattenere le persone in condizioni di sovraffollamento e di rischio sanitario. Ricordo che, sempre in base alla Costituzione, la libertà personale può essere limitata solo in seguito a decisioni della magistratura.
Il paradosso del caso Diciotti è che coloro che sono stati trattenuti illegittimamente, poi sono stati fatti scendere dalla nave e lasciati liberi di muoversi. Va chiarita per legge la possibilità di collegare tra di loro la richiesta di asilo e il rispetto di certe condizioni quali il permanere nei centri di identificazione.
Sta suscitando vaste reazioni il decreto definito “sicurezza e immigrazione” approvato dal governo. Lei stesso ha sostenuto che contiene elementi di incostituzionalità. Può riassumerci i punti più discutibili a suo parere?
Premetto che vi è una grande differenza tra il potere-dovere del presidente della Repubblica di controllare e valutare i contenuti dei decreti prima di controfirmarli e promulgarli, e il giudizio di legittimità che in futuro la Corte costituzionale potrebbe essere chiamata ad esprimere dalla magistratura. Personalmente vedo in questo decreto elementi incostituzionali innanzitutto sul tema della cittadinanza: la Costituzione all’articolo 22 dice che nessuno può esserne privato. Nel decreto è invece prevista la revoca della cittadinanza quale pena accessoria per un reato. Questo lascia tanta perplessità sulla legittimità costituzionale. La cittadinanza non è un premio o un castigo: è il riconoscimento che una persona entra a pieno titolo nella nostra comunità con diritti e doveri. Si ritorna al concetto di società fondata sulla partecipazione e non sull’appartenenza.
L’altra idea che mi lascia perplesso, aldilà della confusione comunicativa che c’è stata, è che la condanna per un reato possa costituire motivo per bloccare la procedura del diritto di asilo anche quando la condanna non è definitiva. Resta il problema storico di questo Paese che non riesce ad abbreviare la durata dei processi. Anche per questo occorrerebbe la revisione della prescrizione.
Vorrei infine far notare, al di là di questo caso specifico, l’anomalia politica degli ultimi mesi: l’onnipresenza del vicepresidente e ministro dell’Interno Matteo Salvini, anche su materie e vicende che sembrano estranee al suo incarico e che investono invece le competenze di altri ministeri.