Ricordo di Raimondo Ricci a 100 anni dalla nascita

13 aprile 1921-2021

Oggi Raimondo Ricci avrebbe compiuto cento anni,  ma resta vivo, per tutti noi, il ricordo del giovane ufficiale di marina che non esitò a compiere la sua scelta di campo nelle ore immediatamente successive all’8 settembre del 1943; del partigiano deportato nei lager nazisti, che ne segnò per sempre l’animo e il suo agire di uomo.

La sua lunga esistenza si è intrecciata con i momenti cruciali della recente storia italiana, portandolo a ricoprire ruoli di rilievo in diverse sfere della vita pubblica genovese e nazionale.

Fu un protagonista di tante battaglie civili e democratiche, combattute con determinazione e passione per gli ideali di libertà, per i diritti e la dignità delle persone, come vuole il principio di uguaglianza scolpito nell’art. 3 della nostra Costituzione, in difesa della quale si spese fino agli ultimi anni della sua vita.

Fu insigne giurista e brillante avvocato, oratore affascinante dentro e fuori le aule giudiziarie, dove ancora si ricordano le sue arringhe coinvolgenti.

Fu uomo delle Istituzioni repubblicane, eletto alla Camera dei deputati prima e al Senato poi, adempiendo al suo impegno con dedizione, coerenza e competenza.

Nel 2006 il comune di Genova gli assegnò il Grifo d’Oro della città, mentre il Consiglio-Assemblea Legislativa della Liguria gli conferì il Sigillo d’argento, massima onorificenza della Regione, con la seguente motivazione:

“Per la coerenza e coraggio nell’ora ardua delle scelte. La montagna imperiese prima, il carcere e la deportazione nel lager di Mauthausen poi, ne segnarono il cammino di uomo retto e libero. Protagonista della lotta di liberazione nazionale ha fatto della testimonianza il fulcro del proprio impegno civile, in difesa dei valori della Resistenza sanciti nella Costituzione della Repubblica”.

Raimondo Ricci nacque a Roma, il 13 aprile del 1921, da una agiata famiglia della buona borghesia della riviera ligure di ponente, dove trascorse la sua infanzia spensierata con la sorellina Maura, al riparo dalle turbolenze di quegli anni densi di violenze e infausti presagi.

Il padre, un magistrato di stampo conservatore e di rigido conformismo, lo indirizzò verso gli studi di giurisprudenza che concluse a Pisa nel dopoguerra.

La mamma, donna coltissima e spirito libero, di origine argentina, scomparsa prematuramente all’età di soli 42 anni, al contrario, educò i suoi due giovanissimi figli alla curiosità intellettuale e all’amore per la libertà di pensiero: così Raimondo parlava di lei, con malcelata commozione, quando si apriva ai ricordi della sua fanciullezza.

Il giovane Ricci iniziò il liceo a Genova per completarlo in Etiopia, dove il padre era stato inviato a presiedere il Tribunale di Harar, dopo la morte della moglie.

In Africa orientale la guerra appariva ancora lontana e, racchiuso in quel mondo di leggende e sogni adolescenziali, egli non poteva percepire, se non in modo sfocato, l’arbitrio soffocante del regime fascista, né le iniquità e vessazioni delle autorità italiane verso le popolazioni indigene.

Da lì a pochi anni, però, tutto sarebbe cambiato e la vita di Raimondo avrebbe subito una svolta radicale, trascinato, insieme a decine di milioni di altri esseri umani, nel vortice della più grande tragedia che l’umanità avesse mai conosciuto.

Di quel che stava accadendo, infatti, ebbe chiara percezione solo dopo esser rientrato in Italia, nel 1939, per iscriversi alla prestigiosa Scuola Normale di Pisa.

Qui entrò a contatto con Guido Calogero e Aldo Capitini, i quali avevano già iniziato a tessere la tela di una forte resistenza morale e civile al fascismo e alla guerra imminente.

Incontrò lì importanti personalità che ritroverà nella stagione repubblicana, fra i quali Carlo Azeglio Ciampi e Alessandro Natta, già conosciuto nella sua cittadina di Oneglia.

Anch’egli, divertito, parlava spesso del paradosso della “Normale”, la quale nei piani dell’allora ministro dell’educazione Giuseppe Bottai, avrebbe dovuto essere il centro di formazione della futura classe dirigente del corporativismo fascista, mentre divenne, viceversa, una vera e propria fucina del pensiero antifascista.

Un periodo che fu decisivo nel suo percorso di maturazione politico-culturale, che, come lui ricordava, lo avvicinò ai valori liberal-socialisti, spingendolo verso una rottura netta e irreversibile con gli orientamenti paterni.

La dichiarazione di guerra di Mussolini alla Francia, non lo trovò dunque impreparato: un atto che considerava vile e avventuristico, ben consapevole dell’impreparazione della nazione ad affrontare un conflitto che aveva già rivelato la potenza e la ferocia della macchina bellica del Reich hitleriano.

In quel contesto, dopo aver frequentato l’Accademia Navale di Livorno, Raimondo Ricci fu nominato ufficiale di complemento della Marina Militare.

Ma, dopo pochi mesi, la situazione precipitò l’8 settembre del 1943.

Come tanti altri soldati dislocati sui diversi fronti di guerra, anche lui all’improvviso si ritrovò solo e senza alcuna direttiva da seguire: fu in quel momento che il giovane guardiamarina intuì quel che stava accadendo e decise di scegliere da che parte stare, facilitato anche dai rapporti già avviati con alcuni esponenti della rete clandestina antifascista dell’imperiese.

“Dida”, come egli chiamò sempre la sua amatissima sorellina, scrisse in seguito:

“Quando il comandante della Capitaneria di Imperia scappò, questo giovane ufficialetto non ebbe esitazioni e, con alcuni marinai, affondò nottetempo due motovedette tedesche ormeggiate nel porto di Oneglia”.

Di questo episodio, Maura parlò sempre con l’orgoglio e l’ironia affettuosa che la legarono profondamente al fratello maggiore.

Si aprì così la stagione della lotta partigiana che, per Ricci, durò però pochi mesi, poiché, già a metà dicembre, fu arrestato dalla GNR, mentre faceva ritorno da una missione presso il CLN nel capoluogo ligure.

Ebbe allora inizio il suo calvario, che lo vide in un primo tempo detenuto nelle carceri circondariali di Imperia, dove apprese dell’uccisione di Felice Cascione “U Megu” – mitico comandante partigiano, autore dell’inno della Resistenza “Fischia il Vento” – per essere poi tradotto nelle carceri di Savona, dove fu consegnato alla Gestapo.

Conoscendo la terribile fama della polizia politica tedesca, non fu per lui difficile immaginare quale avrebbe potuto essere la sua sorte, che, come raccontò negli anni successivi, da quel momento, gli apparve definitivamente segnata.

Di ciò ebbe la quasi certezza poche settimane dopo, quando fu trasferito nella famigerata IV Sezione delle carceri di Marassi, a Genova: il braccio gestito direttamente dalle SS del tristemente noto Siegfried Engel.

Di quelle ore notturne e gelide, scrisse nel suo “libro-memoria”: fu allora che “la morte mi chiamò a sé e, a quella chiamata, non avrei potuto che rassegnarmi”.

Nelle stesse memorie annotò i particolari di quel tragico momento, specificando che: “dopo l’attentato gappista al cinema Odeon, nella notte tra il 18 e il 19 maggio 1944, fui svegliato dalle grida delle SS insieme ad altri 59 detenuti. La chiamata non fu fatta per nome, ma per il numero di matricola che identificava ciascun detenuto. Poi ci dissero del trasferimento in altre sedi, ma, quando gli interpreti precisarono che non avremmo potuto portare gli effetti personali, comprendemmo tutti quale sarebbe stata la sorte che ci attendeva. E come gli altri mi misi in fila. Al contrappello successivo, a notte fonda, il mio numero di matricola, però, non fu più urlato”.

Egli si sofferma molto su questo episodio che definisce “il suo bivio tra la vita e la morte”.

La sua ora, tuttavia, non era ancora giunta. O forse, come egli ricorda, era solo rimandata.

Un episodio scolpito nella sua mente, che alimentò in lui quasi un senso di colpa verso i compagni caduti, vissuta da lui come un sorta di ingiustizia morale che continuò a tormentarlo fino agli ultimi giorni.

Continuò ad interrogarsi spesso sul perché riuscì a salvarsi.

Fu semplicemente per ciò che chiamiamo fato? Un errore nel primo appello? O ci fu l’intervento di qualcuno?

Raimondo non seppe mai con certezza chi e perché gli salvò la vita.

Ma, in cuor suo, come disse in un convegno tenutosi alla Scuola Normale nel 2007, ritenne che la sua salvezza si dovesse attribuire all’intervento decisivo del magistrato Giuseppe Angelo Cugurra, amico di suo padre e papà di Paolo, suo compagno di poco più giovane di lui, anch’egli antifascista, entrato poi nella Brigata Matteotti di “Giustizia e Libertà”.

Un episodio “oscuro” che “Paolino”, Paolo Cugurra mi confermò personalmente, dopo la morte di Raimondo.

Gli altri 59 detenuti furono fucilati sulle alture a nord-ovest di Genova, al Turchino, uno dei quattro sanguinosi eccidi per i quali Siegfried Engel sarà condannato, nel 1999, ad Amburgo.

Anche per questo, Raimondo volle andare ad ogni costo, in età già molto avanzata, per “testimoniare contro il carnefice dei suoi compagni guardandolo negli occhi”.

Mentre a lui, scrisse ancora, in quella notte del maggio 1944, la vita fu restituita per la seconda volta, dopo esser stato “graziato per puro caso” nel carcere di Savona.

Ma, “sfuggito” anche alla fucilazione del Turchino, per lui non si aprirono i cancelli del carcere, se non per avviarlo sui binari di un nuovo calvario: quello dei lager nazisti.

Su uno dei carri bestiame incontrò e fece amicizia con Franco Antolini, Eros Lanfranco, Don Andrea Gaggero, coi quali giunse a Fossoli di Carpi per essere poi avviato a Mauthausen, insieme a migliaia di altri sventurati.

Lettera scritta dal campo di Fossoli e inviata da Raimondo alla sorella

Entrò così nello spaventoso sistema concentrazionario nazista, in quello che definì l’“universo capovolto”, che aveva “l’odore acre dei forni crematori, in cui l’ordine delle cose era rovesciato e iniziava con la spoliazione fisica e psichica, dopo la quale non si è più capaci di gestire i propri istinti, in cui si perde il confine tra la vita e la morte”.

Qui conobbe e subì la crudeltà dei Kapò e delle SS, la violenza delle umiliazioni e delle torture, il tormento della fame che divora e domina tutto. Ma ancora una volta riuscì a salvare la propria vita, la sua dignità e umanità.

Era il 5 maggio 1945 quando il campo fu liberato dalle truppe americane.

“Raimundo, no te engaño, Està àcabato!”.

Fu un internato politico spagnolo a dirgli: “Raimondo, non ti inganno, è finita!”.

E così si concluse l’esperienza più crudele di tutta la sua vita, che mai cessò di testimoniare affinché la memoria di quella tragedia, di cui egli stesso era stato vittima, non potesse essere cancellata dalla storia e dalla coscienza del genere umano.

Da allora ebbe inizio un secondo capitolo della sua vita, o come disse lui, una “seconda vita”, perché la prima gli era stata miracolosamente più volte restituita.

Per questo mantenne sempre fede al giuramento fatto a Mauthausen.

Un giuramento solenne che lo guidò, fin dall’immediato dopoguerra, a partecipare attivamente al movimento democratico genovese e ligure.

Sempre presente nelle grandi battaglie in difesa della democrazia, si batté costantemente per l’unità delle forze antifasciste, anche nei momenti difficili della guerra fredda e della divisione del mondo in blocchi contrapposti.

Mantenne fede alla sua adesione al Partito comunista italiano, che consegnò idealmente nelle mani di Giuliano Pajetta nel campo di concentramento di Mauthausen: una scelta politica, che, come più volte ebbe a ricordare, maturò non per convinzioni ideologiche, ma perché la ritenne la più decisamente antifascista.

Per queste stesse ragioni, coerente con i suoi ideali di gioventù, non ebbe dubbi sulla necessità di andare oltre quella straordinaria esperienza storica e umana, che aveva profondamente segnato la vita democratica del paese, promuovendo il riscatto di milioni di donne e uomini esclusi dai più elementari diritti politici e sociali.

Il suo impegno politico si sviluppò così, nel corso degli anni, accanto a quello professionale di prestigioso avvocato penalista, chiamato a seguire casi importanti in tutta la penisola. Si prodigò in difesa dei partigiani discriminati nel dopoguerra e degli operai delle fabbriche emarginati per motivi sindacali negli anni ’50.

Un vero principe del foro, di cui ancora oggi si ricordano l’acutezza giuridica e la finezza dell’eloquio che gli guadagnarono stima e grande popolarità, come accadde in occasione della difesa legale che fece a favore dei “giovani con le magliette a strisce” processati per i moti del 30 giugno 1960, quando la città di Genova si ribellò alla provocatoria convocazione del congresso del MSI.

Fu un uomo delle Istituzioni: per il suo senso dello Stato e di quello che definiva, come il suo vecchio amico Carlo Azeglio Ciampi, “patriottismo repubblicano”.

Eletto per tre legislature nelle liste del PCI, prima alla Camera dei Deputati e poi al Senato, sviluppò una notevole elaborazione legislativa su molteplici temi: dalle riforme nel campo della giustizia a quella del sistema penitenziario, la cosiddetta legge “Gozzini” che, forse, più appropriatamente, avrebbe dovuto chiamarsi legge “Gozzini-Ricci”.

Diede poi un contributo notevole per il rinnovamento e la democratizzazione degli apparati statali, tra i quali il progetto di riforma della polizia.

Fermissimo e lucido fu il suo impegno nella lotta al terrorismo, contro quello stragista nero e contro quello del brigatismo rosso: una lotta condotta sempre con il rigore giuridico garantista proprio delle sua cultura democratica, senza mai cedere alle pulsioni emergenziali che potevano ledere i principi dello stato di diritto. Rivendicò per questo il merito di chi, in tal modo, seppe isolare e sconfiggere il terrorismo, senza debordare dalla via maestra delle norme costituzionali, saldando la mobilitazione delle masse popolari con l’azione degli organi dello Stato.

Fu tenace nella ricerca della verità sulle trame eversive nel periodo della sua attività nella Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia massonica P2, che contribuì a gestire, con assoluta intransigenza, in qualità di Vice Presidente al fianco di Tina Anselmi.

A conclusione della sua “carriera” pubblica venne eletto alla Presidenza della Corte dei Conti.

Tornò infine tra i suoi vecchi compagni dell’ANPI, ai quali era legato da un vincolo indissolubile, per assumere la Presidenza Nazionale dell’Associazione nel 2009.

Ne promosse un forte rinnovamento organizzativo e culturale, favorendone l’apertura alle giovani generazioni al fine di rendere più saldi e vitali i valori democratici in una società profondamente mutata, respingendo sempre visoni antiunitarie e agiografiche della Resistenza.

Con lo stesso spirito diresse, negli ultimi due decenni della sua vita, l’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea, che a lui abbiamo voluto intitolare.

Un ruolo che assolse con passione giovanile e con l’animo di chi, sempre più, avvertiva la necessità di tenere viva la memoria storica quale presupposto per poter affrontare consapevolmente le sfide del tempo presente.

Lo fece dedicando a questo fine tutto se stesso, combattendo impostazioni semplificate e ideologiche, perché, ripeteva, la complessità della storia non può essere letta con lente deformante delle ideologie.

Allo stesso tempo, soprattutto negli ultimi anni, viveva con angoscia e indignazione il crescere di revisionismi storici strumentali e rigurgiti negazionisti, dietro i quali scorgeva il miserabile tentativo di delegittimare la lotta di Liberazione. Ricordo, a tal proposito, le sue furibonde invettive verso Gianpaolo Pansa per le sue evidenti falsificazioni storiografiche.

Con lo stesso spirito combattivo e intransigente aveva polemizzato aspramente anche con Claudio Pavone, sulla interpretazione che l’eminente storico diede della guerra di liberazione nel suo fondamentale libro “Guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza”. Un libro di grandissimo spessore storiografico, pienamente condivisibile, che nulla toglieva al valore inestimabile della lotta partigiana e che, tuttavia, a Raimondo appariva gravemente erroneo sul giudizio che la definiva oltre che “guerra patriottica e di classe”, anche “guerra civile”. Segno evidente della sua preoccupazione per lo strisciante e ambiguo tentativo portato avanti dalla destra di “equiparazione” tra repubblichini di Salò e movimento resistenziale.

Anche per questo soffrì e si accalorò nel percepire l’affievolirsi della tensione ideale anche tra le forze politiche a lui più vicine.

Non negò la necessità di riforme di natura anche costituzionale, ma mise costantemente in guardia dal procedere senza le necessarie cautele, prima fra tutte la salvaguardia del rapporto di armonica coerenza tra “i principi e l’ordinamento”, ovvero tra la prima e la seconda parte della nostra Carta fondamentale.

Parlava sempre più spesso dell’esigenza di ricreare una tensione ideale ciellenistica, poiché la sua preoccupazione per derive plebiscitarie e anticostituzionali era divenuta il suo assillo.

In particolare nel referendum del 2006, il cui esito avrebbe potuto avallare le riforme istituzionali promosse dal Governo Berlusconi tese a modificare l’ordinamento della Repubblica in senso presidenzialista.

In quella battaglia si gettò a capofitto insieme al Presidente Emerito della Repubblica e suo grande amico, Oscar Luigi Scalfaro, al quale propose successivamente la Presidenza dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri.

Quella fu l’ultima grande battaglia ideale e politica che lo vide protagonista.

Egli rivendicava e condensava, in quel suo ultimo sforzo, l’impegno di una vita dedicata alla causa della democrazia: il suo testamento morale.

L’ultima sua grande fatica fu, però, la pubblicazione del suo libro, che, non a caso, volle intitolare: “Io, Raimondo Ricci. Memorie da un altro pianeta”. Lo ha fatto quando ormai la cecità gli impediva da tempo di scrivere e leggere. Si avvaleva per questo della sua straordinaria memoria. Dettò così, lucidamente, la sua autobiografia che si conclude con il suo ritorno dal lager, quando aveva poco più di 24 anni, con la quale scelse di lasciare scritto ciò che le sue parole non avrebbero più potuto dire.

Ha voluto ancora parlarci della sua vita restituita, quella che solo lui poteva continuare a testimoniare.

Ma, il ricordo di Raimondo non posso disgiungerlo a quello di Nadia, Nadia Ughes figlia del Presidente del CLN di Imperia, la sua compagna, che gli è stata accanto per tutta la vita: la mamma dei suoi figli Emilio e Marina, la nonna dei suoi adorati nipoti, la moglie che lo ha curato nei momenti difficili della malattia, che lo ha consolato e consigliato come solo una donna forte, indipendente e amorevole può fare.

A noi, dunque, che lo abbiamo avuto maestro, compagno e amico, spetta oggi il compito di continuare a far vivere i suoi ideali di libertà, di giustizia e di pace.

Spetta a noi, ancora, il dovere di tenere viva la coscienza storica per illuminare le difficili vie del futuro.

 

Giacomo Ronzitti

Presidente Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea “Raimondo Ricci”

 

 

Condividi questo articolo se lo hai trovato interessante

Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

Lascia un commento