di Giacomo Ronzitti
Pubblichiamo ampi stralci dell’orazione ufficiale tenuta il 18 aprile dal presidente dell’Istituto Raimondo Ricci–Ilsrec al Consiglio regionale della Liguria in occasione del 74° anniversario della Liberazione.
[…] Tenere aperta la riflessione culturale e storica non deve apparire un vezzo intellettualistico, un riandare a un passato da consegnare agli archivi, ma è un’esigenza imprescindibile per continuare a nutrire il senso di comunità e l’identità della nazione, perché, come ha richiamato il Capo dello Stato Sergio Mattarella, quei valori rappresentano i pilastri vitali del nostro sistema democratico, la trama e l’ordito del tessuto connettivo del Paese. Per questo […] credo giusto muovere da quel giorno unanimemente considerato il punto di svolta decisivo, il più drammatico, angosciante e caotico dell’intera storia italiana dall’Unità ad oggi. Mi riferisco, in tutta evidenza, all’8 settembre del 1943, quando il Maresciallo Badoglio annunciò per radio la firma dell’armistizio con gli anglo-americani, siglata alcuni giorni prima a Cassibile.
[…] Emblematico dello smarrimento di quel momento fu l’improvviso annuncio dell’armistizio, senza che il governo Badoglio avesse preparato una qualche strategia e senza aver impartito una minima e doverosa direttiva ai comandi dislocati nei vari teatri di guerra: e così circa due milioni di soldati italiani vennero lasciati nel totale abbandono. Lo storico Francesco Barbagallo scrisse che l’8 Settembre del ’43: “segna la disfatta dello Stato, della nazione, del Paese…”. Mentre Ernesto Galli Della Loggia ha scritto che, quel giorno, si consumò la “morte della Patria”. Giudizi taglienti che sintetizzano al meglio, come ho già detto, il crollo militare, politico e morale dell’Italia.
Eppure, a me pare, che il giudizio di Galli Della Loggia sia parziale e rischia di essere perciò fuorviante, poiché quel momento rappresenta in verità lo spartiacque tra una certa idea di Patria, quella che moriva, fondata sull’esaltazione della forza, sul mito della potenza coloniale e della razza italica, e una nuova idea di Patria, che in quell’immane catastrofe iniziava a farsi luce nella coscienza collettiva. Se, del resto, il 23 settembre nasceva la Repubblica Sociale, reincarnazione del fascismo mussoliniano, in quelle stesse settimane iniziava a prendere corpo una pluralità di Resistenze, che muovevano da una molteplicità di motivazioni. Motivazioni che spaziavano dal puro e semplice rifiuto morale dei militari italiani di assoggettarsi ai tedeschi, al diniego assoluto di molti giovani di arruolarsi tra le fila dell’esercito di Salò, dalla generosa solidarietà umana dei contadini alla organizzazione di forme di opposizione sociale degli operai, fino alla costituzione dei primi nuclei armati di montagna e di città.
Dunque era fondamentalmente il no alla guerra, la volontà di sottrarsi a nuove violenze e soprusi, assieme a un radicato sentimento di attaccamento al proprio Paese e alla propria dignità personale, che motivava e unificava quella che possiamo definire la Resistenza spontanea e individuale di molti, la quale si saldò successivamente con la Resistenza che veniva strutturandosi militarmente e politicamente attorno ai partiti antifascisti, i quali, usciti dalla clandestinità, avevano dato vita al Comitato di Liberazione nazionale.
[…] Vi è, dunque, una pluralità di motivazioni e di soggetti che hanno dato impulso al moto di riscatto, tra cui dobbiamo annoverare, senza alcun dubbio, la pagina scritta dai militari italiani, a lungo e ingiustamente confinati in una sorta di oblio, come accadde dolorosamente, in quegli stessi anni, ai sopravvissuti dei campi di sterminio. Fin dai giorni successivi all’8 Settembre, infatti, innumerevoli sono gli episodi che videro i soldati italiani combattere e pagare un alto tributo di sangue per il loro rifiuto di cedere le armi ai reparti della Wermacht, i quali, a differenza di quelli italiani, agirono su precisi piani predisposti dai loro comandi, da tempo informati delle trattative in corso tra gli emissari del Governo di Roma e gli alleati.
Per la sua efferatezza e dimensione, non si può non ricordare tra i primi l’eccidio di Cefalonia dove caddero in combattimento o trucidati per rappresaglia circa 6500 ufficiali e soldati della Divisione Acqui. E così a Corfù, a Rodi, nei Balcani, a Porta San Paolo a Roma, nella cittadella di Alessandria, nella caserma di Cremeno a Genova dove persero la vita 9 soldati dell’89° fanteria, come in tante altre città e borghi della penisola. Episodi che a pieno titolo devono essere inscritti, quindi, nella lotta di liberazione, come deve esserlo la penosa via crucis dei nostri militari deportati nei lager nazisti, ai quali non venne riconosciuta nemmeno la tutela prevista dalla convenzione di Ginevra per i prigionieri di guerra. Per loro, infatti, con la complicità della Repubblica di Salò, venne coniata la denominazione di Internati militari italiani: uno status spurio, ambiguo, che li espose alle più crudeli umiliazioni e angherie. La commissione italo-tedesca istituita per compilare il dossier relativo agli IMI parla di circa 650 mila soldati e ufficiali, tra i quali 200 generali che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale, scegliendo di restare fedeli a se stessi e al loro giuramento e di affrontare le indicibili sofferenze del lager, da dove 50 mila di essi non fecero ritorno.
[…] Ma accanto a questa pagina della lotta di Liberazione, a lungo negletta, la più recente storiografia ha messo in evidenza quella altrettanto trascurata e nascosta delle donne. Un protagonismo rimosso a lungo dalle stesse componenti resistenziali, anche in ragione di una visione di tipo maschilista, che appare paradossale nel dopoguerra, quando proprio grazie alla lotta di Resistenza, le donne entrarono a pieno titolo nella vita pubblica e godettero formalmente di quei diritti sanciti nell’artico 3 della nostra Carta, a cominciare dal diritto di voto da esse esercitato, per la prima volta nella storia nazionale, nel referendum del 2 giugno del 1946.
[…] Una guerra senz’armi, una resistenza civile condotta da civili, che diede vita ad una fitta rete solidaristica che in vario modo vedeva partecipe un composito arcipelago di cittadini di ogni età e ogni ceto, gran parte dei quali non aveva alcuna appartenenza politica che, non meno di altri, però, erano esposti a brutali vessazioni e feroci rappresaglie. D’altra parte la guerra totale aveva cancellato ogni confine etico e geografico e i civili divennero essi stessi parte dell’ingranaggio bellico e delle sue leggi spietate, tanto più nella logica terroristica delle brigate nere e delle SS preposte alla repressione antipartigiana e alle rappresaglie contro la popolazione inerme, che in Italia manifestò la sua atrocità in molti eccidi tra i quali non si possono non ricordare quelli delle Fosse Ardeatine, di Sant’Anna di Stazzema, di Marzabotto.
In questo più generale contesto, la Liguria è stata una delle aree in cui il movimento resistenziale si espresse con più forza e combattività. […] Dopo i grandi scioperi del marzo ’43, che avevano però interessato soprattutto Torino e Milano, la mobilitazione dei lavoratori, sulla scia delle rivendicazioni salariali assunse sempre più connotati politici e crebbe in tutta la regione tra il dicembre del ’43 e l’inizio dell’estate del ’44, quando venne messo in atto il più grande rastrellamento di lavoratori italiani. L’operazione si concentrò sul complesso industriale del ponente genovese e si concluse con la deportazione di circa 1500 tra operai, impiegati e dirigenti, che andarono a rinfoltire l’esercito del lavoro coatto del III Reich. Un colpo durissimo per la città e la Resistenza, che però non piegò né l’una né l’altra, le quali seppero reagire con vigore e spirito unitario.
[…] nella nostra regione il partigianato risulta tra i più solidi, con profondi e diffusi legami col suo tessuto sociale e culturale. Su circa 235.000 patrioti e partigiani riconosciuti nel dopoguerra dalle commissioni Ricompart, i combattenti liguri sono stati oltre 35.000, dei quali 2.658 sono caduti in combattimento o a seguito di rappresaglie. Appartenevano ad ogni ambito lavorativo e professionale: dall’industria all’agricoltura, dall’Università alla pubblica amministrazione, dalle forze dell’ordine alle forze armate, con una significativa presenza di giovani provenienti dalle regioni meridionali.
Altrettanto variegato e ricco risulta il ventaglio degli orientamenti politici, religiosi e culturali, che può esemplificarsi nella biografia di alcune figure, tra le quali vorrei citare:
Aldo Gastaldi, “Bisagno”, medaglia d’oro al valor militare, sottotenente di complemento del Genio, cattolico fervente, mitico comandante della Divisione Cichero, morto in un tragico incidente nei giorni successivi la liberazione mentre riaccompagnava alle loro case, nella zona del lago di Garda, alcuni alpini della Monte Rosa che avevano disertato per combattere al suo fianco;
Felice Cascione, “U Mëgu”, medaglia d’oro al valor militare, medico, di profonda fede comunista, autore dell’inno “Fischia il vento”, il quale cadde in azione mentre tentava di salvare la vita ad un suo compagno: un carabiniere che aveva scelto la lotta partigiana;
Luciano Bolis, “Fabio”, intellettuale del Partito d’azione e convinto europeista, il quale sottoposto a brutali torture alla casa dello studente, pur di non rivelare il nome dei propri compagni si recise le corde vocali. Fu il primo Presidente dell’Istituto che mi onoro di presiedere;
Paola Garelli “Mirka” e Franca Lanzone “Tamara”, entrambe appartenenti ai gruppi di difesa della donna, seviziate dalle camicie nere, vennero poi fucilate al Forte del Priamar;
Le tre sorelle Fidolfi di Arcola, che già nel ’32 organizzarono uno sciopero nello jutificio di Spezia. Nel ’44 Dora ed Elvira vengono arrestate, percosse e poi deportate a Mauthausen dove Elvira morirà a poche settimane dalla liberazione del campo;
E poi, Enrico Martinengo, “Durante”, generale di Brigata, comandante militare regionale del Cln, succeduto al generale Cesare Rossi, arrestato dalle SS e caduto assieme ad altri partigiani, usati dai tedeschi come scudi umani mentre si ritiravano verso la pianura Padana;
Liana Millu, che, dopo aver subito le persecuzioni razziali perché ebrea, entra nell’Organizzazione Otto, viene arrestata in seguito ad una delazione e deportata ad Auschwitz. Dolce e struggente la sua poesia: “Fa’ o Signore”.
Non si possono, poi, non ricordare i ventuno sacerdoti che presero parte alla lotta di liberazione in Liguria in qualità di cappellani, fra i quali l’indimenticabile Don Berto Ferrari, il cappellano che non volle mai mancare alla cerimonia della Benedicta in ricordo dei suoi ragazzi trucidati nella Pasqua si sangue del 1944, e, con lui, Don Bobbio che vide incendiata la sua canonica, prima di essere fucilato a Chiavari. E Don Andrea Gaggero, deportato a Mauthausen sullo stesso convoglio con Raimondo Ricci, allora giovane guardiamarina di Imperia.
E ancora, Nicola Panevino, giudice del Tribunale di Savona, membro del CLN, trucidato a Cravasco e Dino Col, anche lui giovane magistrato, deportato a Flossenbürg, dove morì di stenti nel dicembre del 1944;
Il tenente dei carabinieri Giuseppe Avezzano Comes, che si rifiutò di fucilare un gruppo di 8 antifascisti al Forte di San Martino;
Vincenzo Lastrina e Francesco Zoppoli, dirigenti della Prefettura di Genova, arrestati dal famigerato capo della Gestapo genovese Siegfried Engel e deportati a Mauthausen dove il dottor Lastrina troverà la morte: uomini dello Stato che abbiamo ricordato in una commovente cerimonia nelle scorse settimane per iniziativa di sua eccellenza Fiamma Spena, Prefetto di Genova
Ma, proprio nella sua regione, non si può non ricordare l’uomo che condannato giovanissimo dal tribunale speciale rifiutò la grazia chiesta dalla mamma, perché come lui scrive: “Sento che macchierei la mia fede politica, che più d’ogni cosa, della mia stessa vita, mi preme”: Chi scrive era Sandro Pertini, futuro presidente della Repubblica.
[…] da questi pochi e scarni profili biografici si staglia, tuttavia, la più compiuta biografia della Resistenza in Liguria, le cui città di Genova e Savona, insieme alle Province di Imperia e La Spezia meritarono la medaglia d’oro al valor militare ed ebbero il vanto di essersi liberate prima dell’arrivo degli eserciti alleati.
Ma se è vero che ciò vale per molte altre realtà del paese, senza precedenti, fu la resa del Generale Günther Meinhold nelle mani dell’operaio Remo Scappini, presidente del Cln. […] Una resa che fu l’epilogo di una insurrezione modello, come la definì il Generale Edward Mallory Almond giunto in città il giorno successivo alla testa della Divisione Buffalo. Un atto che salvò Genova e il suo porto dalla distruzione certa, come prevedeva il famoso piano “Z”. Una sciagura di immani proporzioni, che venne scongiurata anche per l’impegno diplomatico, tenace e prezioso del cardinale Pietro Boetto, arcivescovo della città.
[…] dal quadro generale che ho cercato di sintetizzare non può non rilevarsi ciò che Claudio Pavone scrisse nel suo saggio storico sulla moralità della Resistenza, ovvero che la lotta di liberazione fu al tempo stesso una guerra patriottica, una guerra civile e una guerra di classe. Un giudizio che suscitò aspre polemiche soprattutto nel mondo resistenziale, che per molto tempo respinse tale approccio, ritenendo che ciò portasse ad una implicita legittimazione dei repubblichini di Salò e, dunque, ad una equiparazione che per primo, però, proprio Pavone considerava inaccettabile.
E, tuttavia, nessuno può onestamente disconoscere quel giudizio, poiché, come scrive lo storico genovese Antonio Gibelli: “Parlare di guerra civile non significa equiparare i protagonisti… è una semplice e inevitabile constatazione: infatti la società italiana fin nelle sue viscere, spesso dentro le famiglie, fu attraversata da uno scontro che opponeva italiani a italiani, senza tregua e non di rado senza pietà… Il tasso di violenza e di odio sprigionatosi nel cuore della nazione giustifica ampiamente l’uso di questo termine… E ciò spiega anche lo stillicidio di violenza dei vincitori sui vinti per mesi, in qualche caso anche per anni”.
Giustizia sommaria, rese dei conti che sono il portato di quegli odi, che, tuttavia, non possono trovare alcuna giustificazione né ieri né oggi, che hanno violato le disposizioni emanate dal Cln e la sua stessa legge morale, come nel caso mostruoso della povera Giuseppina Ghersi, una ragazzina di appena 13 anni assassinata il 30 aprile del ‘45 a Savona.
[…] Tutto ciò dimostra quanto fosse giusto il giudizio di Pavone, che avrebbe, forse, aiutato gli italiani a fare seriamente i conti col proprio passato, a costruire una memoria condivisa, che, purtroppo, ancora manca. Una memoria che va coltivata con spirito di verità, non piegata a puerili logiche politiche o a grottesche manifestazioni apologetiche neofasciste, fuori dalla storia e fuori dalla Costituzione.
[…] Consapevoli che in quella temperie, segnata dalla guerra fredda e dalla stessa divisione dell’alleanza antifascista, il referendum istituzionale sancì la nascita della Repubblica e i Padri Costituenti seppero compiere quel vero e proprio “miracolo laico”, come lo definì Piero Calamandrei, approvando una Costituzione tra le più avanzate sul piano civile, sociale e giuridico. Un risultato, non scontato, che, di certo, non sarebbe stato neppure immaginabile senza quel moto di riscatto morale e civile che animò la lotta Resistenza, che, non a caso, Carlo Azeglio Ciampi definì emblematicamente “il compimento del primo Risorgimento”. La lotta di liberazione, infatti, non vide protagonista solo una élite illuminata; non fu solo un atto di ribellione armata; essa fu allo stesso tempo lotta di affrancamento dalla tirannia, dal dominio straniero e “progetto di futuro”. E il merito di ciò va ascritto, senza alcun dubbio, alla funzione dirigente che seppero esercitare i partiti antifascisti, i quali riuscirono a guardare al di là delle loro divergenze, che pure erano profonde.
Così come nessuno può negare che vennero gettate allora le basi di una nuova idea di nazione fondata sul diritto e sui diritti, mentre al confino di Ventotene maturava l’ideale di una nuova Europa fondata sulla pace e sulla cooperazione tra i popoli.
Un patrimonio di principi e di valori che appartengono a tutti e che dobbiamo saper preservare integri per l’avvenire dei nostri figli e delle giovani generazioni.