Dall’Europa al Terzo Mondo: quanto costa uscire dall’euro – di Franco Praussello

La crisi finanziaria che ha accompagnato lo scontro istituzionale fra il Movimento 5 Stelle e Lega, da un lato, e la Presidenza della Repubblica, dall’altro, nella fase intermedia della trattativa in vista della formazione di un governo non tecnico ha messo in luce la fragilità della nostra economia, oberata da un debito pubblico abnorme, che ha superato di un terzo la ricchezza prodotta annualmente dal nostro paese.

Di tutta evidenza, l’elemento scatenante della crisi è stata la reazione dei mercati, vale a dire non di un coacervo di congiurati complottisti che tengono sotto scacco i nostri destini economici ma semplicemente di coloro che mettono a disposizione i loro fondi per finanziare il fabbisogno di cassa del sistema pubblico italiano, di fronte ai programmi del governo giallo-nero in via di costituzione (non giallo-verde, perché ormai la Lega è diventata un partito neofascista). Si calcola che fra l’aumento del differenziale dei tassi rispetto ai titoli tedeschi e la caduta dei corsi di Borsa, sia stata distrutta una capitalizzazione dell’ordine dei 200 miliardi, secondo stime del Corriere della sera.

Dalla prima versione del contratto di coalizione pubblicato dai quotidiani e dalla scelta di Savona come ministro dell’economia risultava infatti che il governo chiedeva alla Banca centrale europea (Bce) di cancellare 250 miliardi debito, ossia si preparava a effettuare un ripudio del debito, spingendosi al punto di minacciare di mettere in pratica il “piano B” del nuovo ministro dichiarando la secessione dall’ area dell’euro. Argomenti di cui non si era affatto discusso nella campagna elettorale, e che hanno messo immediatamente in fibrillazione i mercati.

Successivamente, come si sa, il progetto di uscita dall’euro è stato a parole rinnegato da gran parte dei diretti interessati, ma ormai il bene fondamentale che alimenta le Borse, la fiducia degli investitori, era andato perduto.

Le ipotesi su cui si basava l’attivazione del “piano B” erano in sostanza due: che i mali dell’Italia dipendessero soprattutto dalla sua adesione all’area dell’euro, dimenticando il ruolo della scarsa produttività, della corruzione , dei ritardi della governance pubblica, della struttura arretrata del tessuto delle nostre imprese e del dualismo fra il nord e il sud del paese, da un lato, e dall’altro quella di un diniego (quasi certo) dei partner dell’eurozona a ridiscutere su richiesta dall’Italia i trattati europei (cosa che richiede l’unanimità dei paesi membri). Non tenendo però conto che anche in mancanza di questa seconda precondizione era molto probabile che i progetti di spesa in disavanzo del nuovo governo (dalla flat tax, all’abolizione della riforma Fornero, al reddito di cittadinanza), con l’aumento del disavanzo e del debito al di là dei limiti di Maastricht, avrebbero provocato reazioni da parte di Bruxelles e dei mercati, tali da spingere l’Italia sulla strada del default, vale a dire della dichiarazione di insolvenza. Ed è questa la vera spada di Damocle sotto cui si sarebbe trovato e si troverà il nuovo governo giallo-nero.

In questo quadro, potrebbe essere utile indicare, in modo del tutto generale, quali potrebbero essere i costi economici, politici e sociali di un distacco del nostro paese dall’area dell’euro, al di là di alcune indicazioni già contenute nella versione resa pubblica del “piano B”.

Va detto, infatti, che quest’ultimo contiene alcuni particolari di carattere tecnico circa l’introduzione della nuova lira, la quale dovrebbe avvenire in gran segreto durante un week-end lungo a mercati chiusi, e prevederebbe la chiusura immediata di tutte le operazioni bancarie e finanziarie, un default parziale del debito e si concluderebbe con la ridenominazione di tutti i prezzi, i salari e le pensioni a partire dal lunedì mattina successivo in base  al cambio 1 euro= 1 nuova lira e l’effettuazione di tutte le transazioni in moneta elettronica o assegni, in attesa che nelle settimane successive vengano stampati 8 miliardi della nuova moneta. Mancano però, in larga misura, valutazioni circa i costi complessivi dell’operazione, al di là di una generica indicazione circa il deprezzamento del nuovo conio, che viene stimato intorno al 15-25%.

Il lungo elenco di questi costi si apre in primo luogo con i danni molto consistenti legati all’uscita dalla Ue e alla necessità di liquidare in tempi brevi il debito dell’Italia nei confronti della Bce. I primi sono dovuti al fatto che com’è ormai noto da tempo non è prevista alcuna procedura per l’uscita dall’eurozona (l’euro è irreversibile, come non si stanca di ripetere Draghi), se non con la secessione dall’intera unione. Forse questo è un elemento che non viene considerato da molti, ma le cose stanno proprio in questi termini. Se si esce dall’euro si deve necessariamente effettuare anche l’Italexit, con tutte le conseguenze ultra-complicate che questo comporta: vedere cosa sta capitando alla Gran Bretagna, che attualmente, oltre a dover pagare a Bruxelles un pesante rimborso di decine di miliardi, sta tentando di spostare alle calende greche (intorno al 2023) l’uscita effettiva.

A differenza dei costi dell’Italexit, di difficile valutazione ma certamente molto elevati (perdita degli aiuti europei, rinuncia all’acquisto di titoli italiani da parte della Bce, perdita del libero accesso al mercato unico, con possibili dazi elevati dall’Ue sui prodotti Italiani, perdita di peso politico nei confronti dei grandi del mondo, e così via), quelli legati al debito che abbiamo nei confronti del sistema dei pagamenti Target 2 gestito dalla Bce sono perfettamente quantificabili: 447 miliardi al marzo 2018.

A tutto questo occorre aggiungere il costo in termini di perdita di reputazione in seguito al ripudio- sia pur parziale- del debito, come accade per paesi del Terzo Mondo, quali l’Argentina o il Venezuela. Con l’avvertenza, peraltro, che l’80% del rischio dei titoli pubblici italiani acquistati dalla Bce nel quadro del Quantitative easing è in ogni caso posto a carico della Banca d’Italia.

A questo punto, vanno anche considerati i costi e i vantaggi del deprezzamento della nuova lira. Mi limito a rimandare a un qualsiasi testo di economia per identificarli.

In estrema sintesi il deprezzamento della nuova lira (probabilmente ben superiore al 25%) consentirà all’Italia di aumentare le proprie esportazioni, in misura peraltro non elevata e dipendente, tra l’altro,  dal contenuto di importazione dei prodotti acquistati all’estero (che rincarano) nell’ambito delle catene globali del valore,  e al riparo dal pungolo della concorrenza internazionale che opera come stimolo della produttività,  mentre – come s’è detto – le importazioni aumentano di prezzo e contribuiscono ad alimentare l’inflazione interna e quindi i tassi di interesse, anche sui mutui. E qui emerge il costo sociale dell’operazione: mentre oggi con l’euro l’inflazione è molto bassa, l’aumento dei prezzi a livelli elevati si ripercuoterà negativamente su salari e pensioni. Il potere di acquisto di questi ultimi, come il valore dei risparmi, verrà duramente falcidiato. Vale la vecchia verità che l’inflazione è una tassa sui poveri, mentre arricchisce chi già ricco lo è (e diminuisce il peso reale dei debiti, anche dello Stato).

In conclusione, l’Italia rischia di ritrovarsi nuovamente prigioniera del vecchio ciclo storico del periodo pre-euro con l’alternarsi di fasi di alta inflazione (spesso a due cifre: in certi anni dell’ordine del 20%) e di successive manovre di svalutazione. Il tutto, isolata dal processo di integrazione europea che ci ha regalato settant’anni di pace e di benessere, almeno sino alla grande recessione iniziata nel 2007, anche se i difetti di costruzione dell’unione monetaria e le politiche di austerità con cui i governi hanno affrontato la crisi richiedono oggi urgenti riforme per migliorarne il funzionamento.

Che questo scenario, tutto sommato da Terzo Mondo, sia preferibile alla situazione attuale in cui la recessione è alle spalle, grazie soprattutto all’azione di Draghi e della Bce (nonostante l’opposizione della Bundesbank), l’occupazione e il reddito sono in ripresa, il peso del debito in termini relativi è in lieve discesa e, sotto la spinta di Macron, l’Ue si avvia a essere “une Europe qui protège”, sperabilmente anche con l’apporto dell’Italia, con riforme in direzione di un superamento dei difetti dell’impianto e delle politiche anticrisi dell’eurozona, è del tutto escluso.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.