Immigrazione: menzogne e verità taciute
di Paolo Pagliaro
L’immigrazione è un fenomeno che ha molti aspetti. Ce n’è uno visibile: sui barconi, sui moli, nelle strade delle città e nelle piazze dei paesi (una minoranza) che accettano di ospitare i profughi. E ce n’è uno nascosto, che si mostra solo a chi è interessato a conoscerlo, e dunque legge e si informa. Lo riassumo in poche righe. Dicono i dati Eurostat che, nel rapporto tra profughi e residenti, quasi tutti i paesi europei affrontano un impegno più gravoso di quello dell’Italia. Noi ospitiamo 1.369 rifugiati per ogni milione di abitanti. Siamo dunque lontani dai 17.700 dell’Ungheria, i 16 mila della Svezia, i 10 mila dell’Austria e i 5.500 della Germania. Sono più accoglienti dell’Italia, sempre in relazione alle dimensioni demografiche, anche Finlandia, Lussemburgo, Malta, Danimarca, Belgio, Bulgaria, Olanda e Cipro. Nel 2015 le persone che hanno chiesto asilo politico per la prima volta in uno dei ventotto paesi dell’Unione europea sono state 1.255.000, più del doppio rispetto al 2014. La Germania è stata il paese che ha accolto il maggior numero di richiedenti asilo, 441.800, cioè il 35% di tutti quelli giunti in Europa. In termini assoluti, hanno fatto più di noi l’Ungheria con 174 mila lasciapassare, la Svezia con 156 mila e quindi l’Austria con 85 mila. L’Italia è al quinto posto, con 83 mila richieste accolte. Il dato forse più significativo è che diversi paesi hanno mostrato grande impegno nell’accoglienza dei richiedenti asilo, pur non essendo stati il punto d’accesso nell’Unione europea. Altro caso notevole è quello della Spagna, dove tra il 1991 e il 2010 il numero di stranieri è aumentato quasi di venti volte, passando da 350 mila a circa 6 milioni e mezzo. Ma, nonostante il tracollo dell’economia dopo la crisi, l’aumento della disoccupazione e gli attentati del 2004, in Spagna non esistono partiti xeno fobi, e nei sondaggi l’immigrazione non è mai citata come uno dei problemi principali, contrariamente a ciò che avviene in Italia.
Questo non significa certo ridimensionare la portata di un problema drammatico, che vede il nostro paese in prima linea per necessità e anche per una scelta umanitaria di cui andare fieri. Significa misurarlo alla luce e nel confronto con ciò che accade intorno a noi. Non siamo soli, non c’è alcuna Europa matrigna, non siamo invasi, come sostengono i grandi mistificatori. C’è un problema – e forse anche un’opportunità, secondo i demografi e i politici più avvertiti – da condividere con gli altri. È un punto di vista che nel dibattito pubblico trova scarsa accoglienza.
Viene in genere ignorato quell’altro importante fenomeno rappresentato dagli stranieri che maturano i requisiti per diventare cittadini italiani e dunque lo diventano. Nel 2015 i «nuovi italiani» – cioè gli immigrati che hanno acquisito la cittadinanza – sono stati quasi 180 mila, contro i 130 mila del 2014 e i 100 mila del 2013. Questo vuol dire che ci sono stati più approdi alla cittadinanza che sbarchi sulle coste. Gli immigrati ormai si dividono tra chi si è integrato e chi vaga alla ri cerca di un luogo in cui fermarsi a vivere. Ci occupiamo molto – e giustamente – del secondo fenomeno, ma è il primo che sta cambiando il profilo e la natura della nostra società.
In un anno sono diventati cittadini italiani 66 mila minorenni. Sono diventati italiani soprattutto molti di coloro che appartengono a comunità di antico insediamento, tra loro 36 mila albanesi, 21 mila marocchini, 5 mila tunisini. La legge prevede che debbano avere alle spalle almeno dieci anni di residenza legale. Ora smetteranno di essere conteggiati a parte anche nelle statistiche dell’Inps, nelle cui casse gli immigrati residenti in Italia hanno versato in un anno 10,9 miliardi di contributi previdenziali (incidendo sulle entrate contributive per il 5%) a fronte di una spesa pensionistica per stranieri che non ha superato i 700 milioni. Che molti immigrati siano ormai perfettamente integrati è dimostrato, paradossalmente, anche dal fatto che è di origine straniera circa un quarto dei 110 mila italiani che l’anno scorso hanno deciso di emigrare per cercare fortuna altrove. Che la società italiana stia lentamente cambiando pelle sembra interessare poco o nulla. Non induce a pensieri lunghi neppure la circostanza che tutto questo avviene mentre sullo sfondo si annuncia l’esplosione di una bomba demografica, con l’Africa che, secondo le previsioni dell’Onu, passerà dagli attuali 960 milioni di abitanti ai 2 miliardi e 120 milioni di metà secolo. Interessano molto, invece, le notizie di rifugiati che vivono in alberghi a 4 o 5 stelle, ci costano 35 euro al giorno (nel senso che li intascano) e spendono i nostri denari per acquistare sofisticati smartphone di ultima generazione, che poi utilizzano grazie al Wi-Fi che noi paghiamo. Tutto ciò mentre non si trova un tetto per i nostri poveri e i nostri terremotati. Si tratta – come dovrebbe essere noto – di una doppia, tripla, quadrupla menzogna. I migranti che sbarcano in Italia (181 mila, di cui 25 mila minorenni, nel 2016) vengono divisi tra centri di primo soccorso e accoglienza (Cpsa), centri di accoglienza (Cda), centri di accoglienza per richiedenti asilo (Cara) e centri di identificazione ed espulsione (Cie). Nessuna di queste sistemazioni ha le sembianze di un albergo. Chi resta fuori viene accolto dal Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati (Sprar), istituito grazie a un accordo tra ministero dell’Interno, Anci e Alto commissariato Onu per i rifugiati. Enti locali e associazioni mettono a disposizione un certo numero di posti letto, e lo Stato sceglie di quali usufruire attraverso un bando che tiene conto dei costi e di altri criteri. Secondo i dati del ministero dell’Interno i posti finanziati per il triennio 2014-2016 sono stati 20.744: tra questi rientrano anche, tra le varie strutture, alcuni alberghi. Sono pochi, quasi tutti senza clienti perché offrono un servizio stagionale o perché sono chiusi da tempo. C’è un acronimo anche per loro: Cas, Centri di accoglienza straordinaria. Con i circa 35 euro quotidiani a persona di rimborso previsto dalla prefettura (e che vanno dunque agli italiani che ospitano, non agli stranieri che vengono ospitati), gli albergatori fanno sopravvivere le loro imprese, evitano di licenziare il personale e pagano qualche debito. Tra gli obblighi previsti dal contratto con lo Stato c’è il bonus giornaliero da due euro e mezzo per i rifugiati e l’impegno a fornire il servizio Wi-Fi, usato dai richiedenti asilo per comunicare con le famiglie e gli amici. Nel settembre 2016 due inviati del Post – Gianni Barlassina e Giulia Siviero – hanno reso un grande servizio alla verità visitando una dozzina di questi «hotel», in provincia di Varese, Novara, Trapani, Palermo, Venezia, Vicenza, Verona, Padova, Livorno e Genova. Hanno parlato con i gestori e gli ospiti. Hanno descritto e fotografato le mense, i lavatoi, le camere quadruple con i letti di ferro a castello. Hanno concluso che nessun albergo può essere chiamato «di lusso»: e, anzi, nella maggior parte dei casi si tratta di strutture completamente riadattate che dell’hotel hanno conservato le insegne, ma sono di fatto degli ostelli.
C’è da scommettere che nei prossimi mesi, con le nuove campagne elettorali in arrivo, non ci sarà risparmiata la bufala dei migranti che bighellonano tra sala biliardo e piscina di rinomati alberghi. Rappresentazione che in genere viene proposta insieme a una nutrita serie di fakes riguardanti l’Unione europea, altro facile bersaglio per chi è alla ricerca di nemici esterni grazie ai quali costruire le proprie fortune politiche. L’Europa ottusa dei burocrati e quella avida dei banchieri, l’Europa dello zero virgola, l’Europa che impone la misura delle vongole, l’Europa che ci strozza, l’Europa che ci lascia soli. Toni e contenuti che stanno permeando partiti tradizionalmente europeisti e che ormai sono ricorrenti nel linguaggio di leader (statisti?) che per la loro storia dovrebbero esserne immuni, come Matteo Renzi. Voci sempre più flebili ricordano che l’Unione europea – che quando agisce come un’unica entità, è la più grande economia del mondo – garantisce la libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi, in un mercato unico in cui viene tutelata la concorrenza. Ma soprattutto presidia valori come la libertà, la democrazia, i diritti umani e la pace, una pace robusta non perché imposta ma perché nasce dalla volontà di cooperazione tra diversi. L’Europa è la bandiera che stringe tra le mani chi fugge dalle guerre, è la culla dello sviluppo sostenibile, è la metà della spesa sociale erogata al mondo. E, se davvero ce lo chiedesse l’Europa di avere ospedali efficienti, energie rinnovabili, processi veloci e debiti sopportabili, perché dovremmo lamentarcene? E infatti non ci lamentiamo, se non in tv. Ha rivelato Beda Romano, corrispondente del «Sole 24 Ore» da Bruxelles, che con la Lituania e la Lettonia l’Italia è l’unico paese europeo che negli ultimi due anni non ha mai votato contro una decisione del Consiglio dell’Unione. Secondo i dati riferiti da Romano, tra il 1o luglio 2014 e il 31 maggio 2016 nelle sedute del Consiglio l’Italia ha votato sì 148 volte su 148 scrutini. Non ha mai votato no, né mai si è astenuta. La Germania ha votato contro o si è astenuta 5 volte, l’Olanda 12, anche l’Austria ha votato contro 5 volte, e si è astenuta 4 volte. Quel «frenetico immobilismo» dell’Europa di cui il 12 ottobre 2016 in un discorso alla Camera ha parlato Matteo Renzi, citando Jürgen Habermas, ha potuto dunque giovarsi di un decisivo contributo italiano. E, tuttavia, mai come oggi è stato forte il sentimento antieuropeo, alimentato da un flusso inarrestabile di menzogne e di verità taciute.
Il brano è tratto da “Punto: fermiamo il declino dell’informazione”, Bologna, il Mulino, 2017