La politica economica del governo minaccia di scatenare una nuova crisi globale, con conseguenze economiche, politiche e sociali devastanti. Nel decidere di non tener conto delle richieste della Commissione europea di modificare la politica di bilancio che la maggioranza intende perseguire nel corso del prossimo anno, sfidando apertamente l’esecutivo di Bruxelles, che chiede di tener fede agli impegni che all’Italia derivano dalla sua appartenenza alla zona euro, il governo si comporta come un giocatore spericolato, il quale non è pienamente cosciente dei rischi estremi che la sua scommessa potrebbe far correre in futuro al Paese.
Sino a qualche tempo fa, si pensava che nei prossimi mesi la crescita globale, che caratterizza da anni la congiuntura dei principali Paesi, dagli Stati Uniti, dove la politica mercantilista di Trump è all’origine di risultati economici invidiabili, all’Europa, che grazie agli acquisti di titoli decisi da Draghi ha portato i Paesi europei a sconfiggere la Grande Recessione e a cancellarne i danni, fosse destinata a rimanere sul campo, per quanto a ridursi lievemente per vari fattori. Di recente però sono emersi alcuni fatti, che hanno modificato in peggio il quadro congiunturale; ultimi in ordine di tempo le complicazioni delle controversie commerciali fra Usa e Cina, la caduta del prezzo del petrolio e la contrazione della produzione nel terzo trimestre nella zona euro: a zero in Italia e al -0,2% in Germania.
Tra i diversi fattori che hanno aumentato le incertezze del quadro, alcuni hanno un peso non trascurabile: da un lato la tendenza insita in ogni sistema capitalistico di alternare fasi di espansione e di contrazione della produzione, specie in un contesto di finanziarizzazione dell’economia con scarsi freni di carattere istituzionale (dopo dieci anni dalla crisi del 2008 i tempi sono forse maturi per un nuovo episodio di caduta del prodotto); dall’altro l’effetto di ostacolo alla crescita del protezionismo, e, nel caso dell’Italia e soprattutto della Germania, il peso svolto dalle esportazioni nel Pil di un Paese. Circa quest’ultimo punto, è evidente, per esempio, che se la congiuntura tedesca ristagna, ne soffre automaticamente anche quella dell’Italia.
È noto che le previsioni – almeno quelle puntuali – sono per loro natura incerte (Niels Bohr: “E’ difficile fare previsioni, soprattutto sul futuro”), ma alcune tendenze possono essere forse almeno anticipate. Nel nostro caso, è plausibile che il quadro appena descritto configuri una situazione economica alquanto fragile. Fragile, al punto di poter essere spinta in direzione di una nuova crisi, qualora le aspettative dei mercati utilizzino un elemento di rottura per volgere al pessimismo.
Se ora ci chiediamo quale potrebbe essere questo elemento di novità che possa costituire un punto di svolta delle aspettative nel contesto dell’attuale situazione dell’economia mondiale, la risposta – purtroppo – si presenta come immediata: gran parte delle previsioni formulate dai centri di ricerca, nazionali e internazionali, non hanno dubbi: accanto alle politiche commerciali protezionistiche inaugurate da Trump, l’altro elemento di primo piano che potrebbe fungere da detonatore di una nuova crisi globale viene identificato nell’atteggiamento di rottura del nostro governo nei confronti della gestione dell’Ue, il cui peso è suscettibile di mettere in discussione gli equilibri dell’intera economia mondo.
È questo il possibile cigno nero, che potrebbe far crollare l’edificio della costruzione comunitaria, che in questi anni non è riuscita ancora a garantire la sopravvivenza dell’eurozona, mettendo in discussione i risultati di settant’anni di sforzi per garantire la pace e il benessere in Europa; fattore che meglio meriterebbe la qualificazione di cigno bianco, se è vero che esso non è del tutto inatteso, dato che è figlio diretto del nazionalismo che è costato secoli di conflitti e di guerre fra i paesi europei. La novità, rispetto al recente passato, è che ora la crisi verrebbe scatenata dall’Europa e non dagli Stati Uniti, come è avvenuto per la Grande Recessione, che abbiamo in larga misura alle spalle, ma che ci ha lasciato la pesante eredità del populismo, nuovo avatar del nazionalismo che nella prima metà del secolo scorso ha generato il fascismo e il nazismo.
Questo giudizio, è bene sottolinearlo, non comporta affatto che l’Europa che esiste oggi sia esente da colpe e che le sue politiche siano state sempre corrette ed efficaci, ma questo avviene perché la costruzione comunitaria non è quella ideata da Spinelli e da Rossi nel Manifesto di Ventotene, ma quella costruita dai governi ancora gelosi della loro passata sovranità assoluta, sulla base della politica dei compromessi al ribasso. In particolare, i due errori fatali con cui l’Europa ha affrontato le crisi più recenti della Grande Recessione e dei rapporti con le masse di disperati che si ammassano alle sue frontiere, con i danni provocati dalle politiche di austerità e della gestione rovinosa dei flussi migratori, sono imputabili alla mancanza di poteri di cui dispone oggi l’Ue.
Se l’eurozona disponesse di poteri fiscali adeguati in grado di alimentare un bilancio comune capace di assorbire le cadute della congiuntura e di garantire una politica efficace di accoglienza delle migrazioni, oggi il populismo non assedierebbe i palazzi di Bruxelles. Ma progressi in queste direzioni, che sono possibili e sono già parzialmente in corso, non possono essere ottenuti con il metodo del muro contro muro seguito dal governo italiano, né con proclami che ricordano il passato fascista dell’Italia e che i nostri partner non hanno dimenticato: tanti nemici tanto onore, noi tireremo dritto, et similia.
E qui veniamo ai possibili risultati di quella che può essere definita la politica suicida del governo pentastellato. Se il governo, nella trattativa con Bruxelles, avesse modificato anche di poco il suo atteggiamento di sfida nei confronti della Commissione, ad esempio correggendo al ribasso di qualche decimale le previsioni di crescita su cui si basa la legge di economia a finanza, i margini per un possibile compromesso sarebbero stati salvaguardati, risparmiandoci i danni immediati dell’aumento dello spread e in prospettiva quelli ben più pesanti di una procedura per debito eccessivo, con il commissariamento delle nostre politiche di bilancio.
Ma, come appare sempre più evidente, Salvini e Di Maio non cercano compromessi con la Commissione e la sfidano apertamente per avere l’alibi di imputare all’Europa il fallimento delle loro promesse elettorali irrealizzabili. Nascondendo agli Italiani che al termine dello scontro frontale tra la corrazzata di Bruxelles a la navicella Italia, il nostro attuale totale isolamento all’interno dell’Ue ci porterà probabilmente all’Italexit, forse agevolati dagli stessi partner, e a decenni di austerità per assorbire i disastri di questa scelta sciagurata.