Chissà se Di Maio e Di Battista – Bibì e Bibò dei Cinquestelle – hanno mai letto “Comprati e venduti” un bel libro di qualche anno fa di Giampaolo Pansa (scritto quando era uno dei cronisti di punta de La Stampa). Parla del rapporto di potere fra politica, economia e giornali. Parla dei difetti, dei limiti, delle contraddizioni del giornalismo italiano. Forse leggendolo avrebbero trovato ispirazione per criticare con più forza e con migliori argomenti “i pennivendoli”, quei giornalisti che loro si sono limitati a insultare in puro stile “social media” con gli appellativi di “sciacalli” e “puttane”.
Ora non è tanto la volgarità dell’insulto che colpisce. In fondo Facebook e Twitter stanno purtroppo insegnando a tanti, a troppi, a ragionare poco e a insultare molto. È piuttosto la superficialità, la stupidità, e soprattutto l’incoerenza e la totale mancanza di gratitudine verso quel mondo che – non dimentichiamolo – li ha portati a diventare il primo partito – pardon movimento – italiano. Eh si, perché diversi di quei giornalisti che a loro non piacciono sono proprio gli stessi che prima del 4 marzo hanno usato parole dure sul governo a guida Pd, sono insomma “i gufi e i rosiconi” di cui parlava Renzi.
Prima per i Cinquestelle probabilmente erano solo degli “utili idioti”. E adesso? Si permettono di mettere in discussione “il reddito di cittadinanza” – che notoriamente non sta in piedi? “La riforma delle pensioni” – che è una iattura per il bilancio dell’Italia? Denunciano i rischi di uno spread che già oggi a quota 300 ci costa 1,5 miliardi di euro in più di prima? Allora sono “puttane” o “sciacalli”, scegliete l’epiteto che vi piace di più.
C’è un altro libro di qualche anno fa che suggerirei a Bibì e Bibò. “Modelli di giornalismo”, di Hallin e Mancini, la cui tesi è che “la stampa prende sempre la forma e il colore dalle strutture politiche e sociali all’interno delle quali opera”.
“Non si possono comprendere i mezzi di informazione – scrivono i due – senza comprendere la forma dello Stato, il sistema dei partiti politici, il modello dei rapporti fra interessi politici ed economici e lo sviluppo della società civile tra gli altri elementi della struttura sociale”.
Dei diversi modelli citati da questi due autori a noi interessa quello “mediterraneo o pluralista–polarizzato”, il nostro insomma. La libertà di stampa e lo sviluppo dell’industria commerciale dei media arrivano generalmente tardi; i giornali sono spesso economicamente marginali e hanno bisogno di sussidi economici. La stampa è caratterizzata da un forte interesse per la vita politica, da una condizione di pluralismo esterno e da una consolidata tradizione di giornalismo schierato e orientato al commento. La strumentalizzazione dei media da parte del governo, dei partiti politici e di industriali con legami politici è fenomeno piuttosto comune. La professionalizzazione del giornalismo non è sviluppata come in altri modelli.
La dizione “modello pluralista–polarizzato” sta per sintetizzare l’alto grado di caratterizzazione ideologica e di conflitto tipico dei paesi dell’Europa meridionale, fattore che chiama in causa a sua volta il ritardato sviluppo delle istituzioni liberali. In questo modello i due autori includono Francia, Grecia, Italia, Portogallo e Spagna.
Questo sistema si distingue per un alto livello di politicizzazione, con lo Stato e i partiti politici che intervengono energicamente su molti aspetti della vita sociale, con gran parte dei cittadini che rimane legata a ideologie politiche spesso molto distanti l’una dall’altra. La lealtà verso queste ideologie politiche va di pari passo con un esteso scetticismo su una qualsiasi idea di “bene comune” che le possa trascendere, e con una relativa assenza di regole e norme condivise. Questi sistemi, infine, si distinguono per un consumo ineguale d’informazione, con una divisione piuttosto netta tra la popolazione politicamente attiva, che divora intensamente il commento politico della stampa, e una cittadinanza politicamente inattiva che consuma poca informazione politica e si rivolge soprattutto a quella televisiva.
Ora se chiedete a un bravo giornalista se questo è il sistema che condivide e davanti al quale si inchina, vi dirà di no, che lui oggi vuole più autonomia, indipendenza dai partiti, dal governo, dai poteri costituiti. Che il suo ruolo è cercare di interpretare la realtà con mente sgombra da pregiudizi, con un solo obiettivo: aiutare il lettore, il cittadino a capire e a votare di conseguenza.
Quel modello mediterraneo di cui parlano con competenza sia Hallin che Mancini – due professori universitari – probabilmente oggi serve meno che in passato. Il mondo della globalizzazione sta cambiando tutti i vecchi e tradizionali punti fermi e il mondo dell’informazione non è più quello di una volta.
Non sembrano rendersene conto Di Maio e Di Battista che parlano come quei bianchi che secondo gli indiani hanno la lingua biforcuta, magari in certi casi predicano bene (ci vogliono giornalisti più liberi) ma sicuramente razzolano male, molto male (giornalisti liberi sono quelli che parlano bene di loro?).
Quello che stanno facendo per la televisione pubblica è un esempio di quanto siano molto meno moderni e attenti al cambiamento di quanto non dicano. Forse che i Cinquestelle non stanno facendo né più ne meno quello che hanno sempre fatto tutti i partiti tradizionali? Si spartiscono i posti, lottizzano le nomine dei direttori, dei dirigenti apicali. E di riforma non parla più nessuno. Certo la Lega, per la storica amicizia con Berlusconi, non è proprio interessata a modernizzare alcunché, tanto meno il servizio pubblico radiotelevisivo. E Beppe Grillo? E i grillini? Non dovevano cambiare il mondo? Riformarlo? Non dovevano cancellare il conflitto di interessi? La tv come la tav, come la tap? Alla fine si fa come vuole la Lega. Come piace a Salvini, come piace a Berlusconi. Ora chi sono “i comprati e i venduti”? Chi sono le puttane? Chi sono gli sciacalli?