Questo primo numero del 2024 della rivista dell’Istituto “Storia e Memoria” è un numero monografico interamente dedicato all’importante ricerca condotta da Irene Guerrini e Marco Pluviano. Trattasi di un’analisi documentata e puntuale, di ampio respiro volta a ricostruire dinamiche, contesto storico e vicissitudini delle vittime genovesi della razzia tedesca del giugno ’44, che
completa i numerosi e pregevolissimi studi da loro condotti, su questo tema, nel corso degli anni. Questa pubblicazione, opportunamente, verrà presentata in occasione
dell’80° della deportazione 16 giugno 1944, in cui circa 1.500 lavoratori delle fabbriche genovesi furono catturati dai tedeschi, coadiuvati in questa operazione dai fascisti della Rsi, caricati su vagoni merci e avviati al lavoro coatto in Germania. Retata di uomini che, come gli storici ricordano, rappresentò la più massiccia deportazione operaia effettuata in un solo giorno dai nazisti in Italia nel corso della Seconda guerra mondiale. Nel rastrellamento dei lavoratori di Siac, San Giorgio, Piaggio e Cantiere navale Ansaldo, come altri che vi furono in altre provincie liguri e del triangolo industriale, venne a saldarsi il movente repressivo, teso a stroncare la conflittualità operaia e a porre fine, attraverso lo strumento del terrore, agli scioperi messi precedentemente in atto dalle maestranze genovesi, a quello economico, consistente nella impellente necessità per il Reich di reperire manodopera che andasse a rimpiazzare i vuoti apertisi nel sistema produttivo tedesco soprattutto a seguito del fabbisogno di crescenti contingenti di uomini da inviare sul fronte orientale. L’operazione del 16 giugno 1944 si inseriva quindi in un gigantesco piano europeo, finalizzato a mandare in Germania milioni di persone da impiegarsi per le esigenze belliche ed economiche del Reich.
Se le loro condizioni di vita risultarono certamente meno dure rispetto ai deportati politici o razziali internati nei lager, gestiti dalle SS, questi lavoratori furono comunque oggetto di un sistematico e brutale sfruttamento e dovettero subire l’odio e il disprezzo anche da parte delle popolazioni residenti, che, dopo l’armistizio dell’8 settembre, considerava gli italiani alla stregua di spregevoli traditori. Il prezzo da essi pagato fu duro anche perché, come ha scritto Brunello Mantelli nel 2004 sulla rivista dell’Istituto “Storia e memoria”: “nell’immediato non mancarono contrasti tra la logica sterministica delle SS e le imprese, interessate alla produttività e perciò coscienti della necessità di mantenere i deportati almeno un filo al di sopra dell’inedia, ma sul medio periodo si dimostrarono anch’esse tutt’altro che aliene dal considerare la manodopera schiava un mero fattore della produzione ad alto logoramento, facilmente sostituibile e perciò oggettivamente sacrificabile”.
Di ciò è particolarmente significativa tra le tante testimonianze – scritte e orali conservate presso il nostro Istituto – quella di Francesco Rossi, il quale rammenta che: “Lavoravo nello stabilimento Stejer di Linz ed ero detenuto nel lager di Haid. La sveglia ogni mattina era alle tre. Nel tempo di quindici minuti occorreva essere pronti e veniva distribuita una gamella con un po’ di acqua calda ed una fettina di pane nero, circa 15 grammi per tutta la giornata. Quindi venivamo incolonnati e condotti sotto scorta ad attendere l’arrivo del treno che ci trasportava a Linz. A
volte l’attesa del treno durava ore in un freddo glaciale, perché quello adibito per i deportati doveva dare la precedenza al trasporto delle truppe o dei civili. Alla stazione di Linz sempre incolonnati raggiungevamo la fabbrica, riorganizzata e sistemata in un gran numero di gallerie sotterranee. Nei vari reparti si lavorava dodici ore con un intervallo di mezz’ora in cui veniva consumata una brodaglia di rape. A sera tra le 18 e le 19 veniva ripetuto il tragitto contrario. Per lo più accadeva che il treno dei deportati non venisse neppure formato, per cui il ritorno al lager doveva essere fatto a piedi lungo il terrapieno della ferrovia. Ci si trascinava per oltre due ore e talvolta per le nevicate si giungeva alle baracche oltre la mezzanotte”. Ricordare la tragica vicenda di questi lavoratori offre anche l’occasione per riflettere sul fondamentale ruolo della classe operaia genovese e italiana nella lotta di Liberazione, concretizzatasi in una molteplicità di forme che spaziarono dagli scioperi, alle azioni di sabotaggio della produzione; dai piani di salvaguardia degli impianti e macchinari, atti a impedire il loro trasferimento nei territori della Germania nazista, all’organizzazione clandestina della rete antifascista a supporto delle formazioni partigiane. Un rilevante impegno che nel costruire un saldo collegamento tra mondo del lavoro e la società ha contribuito allo sviluppo del carattere popolare della Resistenza, sia nel suo profilo “sociale” che in quello “armato”, sia in ambito urbano che in montagna. Di questo complesso e articolato scenario, gli autori di questo accurato lavoro storiografico ci offrono una ricostruzione dettagliata insieme ad una visione più generale senza la quale non si coglierebbe appieno il “carattere politico della deportazione operaia e della conflittualità sociale” quale componente fondamentale della Resistenza italiana. Essi ne sottolineano, inoltre, quella specificità che fa assumere alla classe operaia una autentica “funzione dirigente” del movimento resistenziale nazionale. Scrivono infatti: “Nei nove mesi che precedettero la retata del 16 giugno in tutta la RSI, e a Genova in particolare, accadde ciò che in qualunque Paese in guerra sarebbe stato difficilmente immaginabile, anche senza la presenza della spietata macchina repressiva nazista e salodiana: gli scioperi si susseguirono, accompagnando lo sviluppo della Resistenza armata alla quale i lavoratori fornirono sostegno politico, economico e materiale, oltre a garantire una riserva di uomini e donne per il reclutamento”. Analogo il giudizio espresso da Adolfo Pepe, il quale scrisse: “La classe operaia italiana che giunge agli scioperi del 1943 e ancor più a quelli del 1944 è una classe che riacquista una piena fiducia nelle proprie forze proprio mentre le condizioni di vita vanno sensibilmente peggiorando a causa delle conseguenze dell’8 settembre e si assiste al passaggio da una fase difensiva e di lotta maggiormente di tipo economico, ad una offensiva in cui la caratterizzazione è essenzialmente di natura politica: non si sciopera solo contro gli industriali e i padroni, ma contro il fascismo, contro la guerra, per l’insurrezione partigiana per la conquista della libertà e per la democrazia.” … “La particolarità dell’esperienza italiana, la sua durata, la sua continuità, la sua stessa estensione geografica, ne fanno un caso unico nell’Europa occupata.” Su questa prospettiva, nell’ottantesimo anniversario della drammatica vicenda del 16 giugno ‘44, che ha profondamente segnato la collettività genovese e di cui permane viva la memoria, l’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età Contemporanea ha organizzato un convegno di studi, dal titolo “Conflitto sociale nella guerra-Deportazione dei lavoratori e sfruttamento della manodopera nel Terzo Reich” i cui atti saranno in seguito pubblicati sulla rivista dell’ILSREC. In questo quadro il lavoro di Irene Guerrini e Marco Pluviano rappresenta un contributo prezioso di conoscenza e di riflessione su quella dolorosa pagina della storia di Genova e della sua classe operaia, offrendoci al contempo l’opportunità di comprendere meglio le ragioni della peculiare natura della lotta di Liberazione italiana.
Il Presidente
Giacomo Ronzitti