Ripubblichiamo l’articolo comparso su “Il Giorno” del 9 maggio 1962 nel quale Giorgio Bocca ricostruiva le vicende della vita e della morte di Aldo Gastaldi. Tra i più grandi giornalisti del Novecento italiano, Bocca fu anche autore di alcune fondamentali opere storiche come “Storia dell’Italia partigiana” o la biografia di Palmiro Togliatti. Pur senza mai nascondere le proprie opinioni e interpretazioni, Giorgio Bocca si è sempre attenuto al criterio fondamentale di ogni seria ricerca storica (e anche giornalistica): il rigoroso riferimento a documenti e a testimonianze attendibili
Bruciano le case di Cichero. Guardate il fumo dell’aria chiara della Liguria sconosciuta. Sempre montagna povera dai Giovi al Cento Croce, l’acqua verde in fondo alle gole, ogni valico che ripete il suo inganno, altra montagna povera. Nei villaggi di pietra manca il pane, da mesi. Il castagnaccio, quando si fredda, è viola e sudato sottola crosta. Ma ora che brucia Cichero, certo lo vedrete passare con i suoi garibaldini. E’ alto, barba bionda, cammina senza accorgersene, le donne non le guarda, dicono che è vergine. Eppure gli piacciono le donne delle canzoni. Suo fratello piccolo ha capito che è partigiano, la sera che la porta dei genitori era socchiusa e il babbo diceva: “Ho saputo che lo chiamano Bisagno”. Il nome gliel’ha dato il Bini, un comunista: si sono incontrati a metà settembre, sono saliti in montagna i primi d’ottobre. Sopra Cichero, nel casone di Stecca. Per dare l’allarme dal basso battono con un bastone sulla corda d’acciaio della “strafila”. Nella banda ci sono altri comunisti, tre reduci della guerra di Spagna e gli operai fuggiti dai cantieri. Il Bisagno ha poco dietro le spalle: un nome vero e qualsiasi, un titolo di perito industriale, due anni nel Genio, come ufficiale di complemento, un tedesco steso con un pugno nella caserma di Chiavari, undici fucili nascosti vicino al castello. Ma è diverso da tutti e deve comandare. Dentro ha un nocciolo , che nessuno riesce a spezzare; e qualcosa di riservato e puro. Molti lo ameranno, per molti sarà un amore deluso. Il Bisagno è alto e biondo, cammina sempre, parla poco.
La guerra partigiana rivela i caratteri antichi dell’italiano: ritornano i mistici, gli uomini di ventura e di parte. La guerra partigiana ha le sue vocazioni: il perito industriale che chiamano Bisagno è nato per comandare partigiani. “Lo scegliemmo come capo” dirà il Bini “perché rappresentava la ribellione spontanea e la salute morale del popolo”. Ma forse non ci fu scelta, Bisagno doveva comandare perché era diverso da tutti: sicuro di sé, un coraggio da stato di grazia, una resistenza fisica incredibile, uno e ottantasette di altezza, occhi chiari e la castità come un puro cristallo e come un tormento. Una notte che gli uomini dormono nella baita sui sacconi di foglie lui dice al Marzo che si è acceso una sigaretta: “Se uno vuole una moglie pura, deve essere puro, non è vero?”. “Certo” dice Marzo “ma adesso dormi, ne parliamo domani”. Marzo è un altro comunista che gli sta vicino.
I rapporti fra Bisagno e i comunisti sono strani, fin dal principio: la stessa guerra con prospettive che divergono, lo stesso rigore con imperativi dissimili, gli stessi simboli con significati diversi. Un inganno, se questo è un inganno, reciproco; una spiegazione e una rottura sempre eluse; tutti in qualche modo partecipi dell’apostasia del secolo: c’è un’ombra di rimpianto cristiano nel comunismo del Bini, c’è una simpatia rivoluzionaria nel cattolicesimo del Bisagno. “Allora portava anche lui il fazzoletto rosso e ascoltava le storie del partito, come i bambini una favola” ricorda il Marzo. “Lui credeva che il fazzoletto rosso e il nome Garibaldi significassero solo unione nella resistenza”, affermano Scrivia e gli altri.
Un pezzo di miccia corto così
Bisagno cammina sulle montagne povere della Liguria sconosciuta e arriva sempre dove si combatte. Forse per istinto, forse per cercare, a suo modo, una chiarificazione. E’a Ferriere di Lumarzo nella primavera del 1944 per l’attacco alla caserma fascista. Sono le sei del pomeriggio, i militi asserragliati al primo piano. Un’ora di sparatoria inutile poi si muove il Bisagno: con una bomba a mano frantuma una finestra, si fa sotto e lancia un tubo di tritolo. I compagni lo coprono con il fumo ma passa troppo tempo, la miccia deve essersi spenta, Bisagno riattraversa di corsa la strada, si issa sul davanzale, scompare. Ecco la sua ombra, il suo corpo che volteggia, l’esplosione, l’ edificio squarciato nella polvere che sale dalle macerie. “Era rimasto un pezzo di miccia corto così” dice il Bisagno “ma non ne avevo altra”. Lasciano i feriti e i morti, portano in montagna i prigionieri.
In montagna è di nuovo la vita di banda, l’organizzazione, le discussioni serali, la pratica di una austerità che sembra conciliare le dottrine opposte: il moralismo razionale del Bini sovrapposto a quello religioso di Bisagno, la “scuola di Cichero” con un legame comune. Così il marxista e il cattolico creano un esercito stracciato e puritano. Chi è sorpreso a corteggiare una donna viene cacciato; chi ruba una sigaretta, “Odoragli la bocca ai tuoi uomini”, legato al palo per due ore al giorno, tutta la settimana.
Cammina e combatte sulle montagne povere
La terra è povera, i contadini anche. Bisagno divide il territorio in sei zone. Ogni giorno il Battista ne batte una per la questua. Passa con la gerla nelle case dei contadini, gli danno quel che possono, lui cammina dieci ore senza toccare cibo, non importa se è da solo nel bosco, “l’è mi che me vedu”. Mangiano prima gli uomini e poi il comandante e il commissario. Il piacere della povertà sfiora il francescanesimo; qualcuno può scambiare il francescanesimo del Bisagno per azione politica. La castità del Bini è “una reazione al gallismo fascista”, quella del Bisagno, invece, una ricerca dell’assoluto, non vedono la differenza, per loro sono un po’ fanatici, tutti e due. Le carte del gioco sono ancora confuse, i contrasti mascherati. Di certo vi è solo una cosa: quando si combatte è Bisagno che comanda.
Bisagno cammina e combatte. Nella Liguria sconosciuta –le strade consolari passano lontane- fra i contadini che vivono di castagne e di patate si crea il mito del nazzareno guerriero, occhi chiari,barba bionda, buono con gli umili. Se vedi attorno i fascisti di Spiotta, o i mongoli o quelli della Monterosa stai tranquillo che lo vedi arrivare con i suoi garibaldini. Hanno messo sulla sua testa la taglia di un milione. Si raccontano le sue imprese nelle veglie.
Vi ricordate quando tornò dal rastrellamento di gennaio? Dunque lascia il Virgola e il Saetta e, per strada, si ferma a Lorsica, con una ventina dei suoi. Appena fuori il paese un mulo si mette a scalciare sul sentiero ghiacciato, così scivola, urta il Bisagno, finiscono in fondo a un dirupo. Bisagno ha una gamba tagliata all’ osso, il medico lo cuce nella notte,tentano di riportarlo in barella verso Torriglia ma si riapre la ferita. Bisogna fermarsi e intanto i fascisti di Spiotta salgono in rastrellamento. Allora gli uomini del Bisagno scavano una cella nella neve: dentro lui in barella, poco prima dell’ alba; un buco per respirare, blocchi di neve per turare l’ entrata. Verso sera quando i fascisti se ne vanno lo tirano fuori. Così per dieci giorni.
E la volta di Gorreto? Bisagno scende alla villa Centurione, comando della Monterosa. Sapete come è la villa: un muro alto tre metri attorno al giardino, una porticina, la sentinella che di giorno sta fuori e cammina lungo il muro, di notte si chiude. Quando bisogna scivola dentro, mentre la sentinella volta le spalle, sono le sei di sera e fa scuro. Esce fuori dalla villa il maggiore Paroldo e grida qualcosa, la sentinella rientra e chiude la porta, il Bisagno fa in tempo a salire su un albero e a nascondersi. Ci passa la notte. Appena fa luce tira fuori carta e matita e fa una piantina dell’accampamento nemico, le tende nascoste fra gli alberi, dove è sistemato il cannone da 47, il magazzino. Alle cinque la sentinella riapre la porta e si mette a camminare lungo il muro; quando Bisagno le punta il mitra nella schiena si arrende senza fiatare. Così Bisagno torna in montagna –Marzo lo aspetta sulla mulattiera da sei ore – con la sua piantina e il suo prigioniero. E su in montagna riprende il gioco sotterraneo delle rivalità, degli equilibri, della diffidenza reciproca. Fare il comandante partigiano è anche questo: muoversi da uomo politico fra difficoltà politiche che i raggi del futuro deformano e conducono all’ assillo.
La mia chiesa è questa:il cielo
I comunisti sono gente esperta. Bisagno è un ragazzo. I comunisti sono pazienti. Per far piacere al comandante, il giorno dell’Epifania, un commissario gli chiede se può accompagnarlo in chiesa. “La mia chiesa è questa”, dice il Bisagno stizzito, e indica il cielo. I comunisti hanno idee chiare, elementari, tutto che quadra nelle loro teste: Bisagno li sorprende con la sua ingenuità, i suoi salti di umore, le luci e le ombre di un animo introverso e sensibile. E’ stato lui a fermare con la mitraglia gli alpini della Monterosa a Casa del Romano; poi è sceso a precipizio nel vallone della Rondanina, li ha colti di sorpresa nella ritirata, un sacco di morti e di feriti. Ma un altro giorno a Fontanabuona, con tutte le armi puntate sulla strada, e i camion nemici carichi di alpini che scendono lentamente abbassa il mitra e dice: “Lasciamo stare ragazzi, ne ammazzeremmo troppi”.
Se non è facile comandare in mezzo ai comunisti, non è neppure facile fare il commissario politico vicino a Bisagno. Marzo che deve stargli alle costole ci perde la testa, ciò che era buono in Spagna qui non funziona, sto tipo è incomprensibile, credi di averlo ammansito e lui si toglie il fazzoletto rosso e lo butta in terra. Ma bisogna incassare, essere pazienti, è lui il comandante. Se ne discute con Bini, con Miro. La guerra partigiana può essere una storia maledettamente complicata: non basta combattere, dormire, mangiare, tenersi buoni i parroci e i contadini. Bisogna anche risolvere le grane politiche perche la politica non aspetta la fine della guerra.
Bisagno lo capisce e non lo capisce, si occupa di politica, ma detestandola, la avversa con rimorsi e esitazioni. Ha ventidue anni. Così manda agli uomini circolari inquiete: li esorta a rifiutare gli adescamenti di ogni partito, ma non a fare “la politica dell’antipartito”. Tiene a bada i comunisti, rintuzza le loro mosse, ma non si risolve a una rottura. Un giorno una delegazione democristiana lo invita a un colloquio e lui ci va. Quando torna Marzo, lo osserva in silenzio. Sul tavolo ci sono delle lettere. “Naturalmente” dice Bisagno aggressivo, “sai già cosa c’è scritto”. “lo so già”, dice Marzo. Il Bisagno va a una finestra. “Domani scendiamo in val Trebbia” dice. “Speriamo faccia bel tempo” dice Marzo. La spiegazione e la rottura ancora rimandate.
Gli uomini stimano il Marzo e il Bini, ma adorano il Bisagno. Marzo ha combattuto in Spagna, è un brav’uomo. Bini ha l’ottimismo dinamico dei rivoluzionari, il mondo nelle mani del partito, niente che si possa risolvere con una scazzottata, gli operai possono capirlo. Ma nelle bande sono più i contadini e capiscono meglio Bisagno e il suo pessimismo cattolico: la certezza che c’è del buono nella natura umana e insieme la constatazione di una miseria umana che ci trascina in basso. Bisagno cammina molto e parla poco. Per ore lo vedono chiuso e melanconico. Poi salta su di colpo, chiama i suoi, “su figgieu, cantemo”. Un osservatore distaccato potrebbe anche notare in certi suoi atteggiamenti, dei toni decadentistici, quasi un compiacimento recitativo. Però è una recita con rischi mortali, lui è sempre in testa ai suoi, alcuni distaccamenti cantano già: “ Bisagno, Bisagno, cosa importa se si muore”.
A me Bisagno non mi pigliano mai
Avvicinandosi la fine della guerra il suo coraggio è come una ricerca ansiosa. Certe sere si veste da alpino e scende,da solo, nei villaggi occupati dalla Monterosa. Una, due ore di silenzio,la sparatoria e gli uni che salgono nel buio, più tardi quel suo strano sorriso quando dice: “ A me non mi pigliano mai”. Eppure non è che si guardi: un giorno, per soccorrere l’ Angelita, una ragazza che è stata colta da una scheggia di mortaio, va quasi in bocca ai tedeschi che risalgono la valle Trebbia.
Marzo e Bini vanno a dormire se non è tornato. Qualche volta torna all’ alba, li vede e dice ridendo, come ai vecchi tempi: “Su durmimu due ue a spedia.” Si buttano vestiti sui sacconi di foglie,come nella casa del grande fratello, sopra Cichèro. Ma l’indomani tutto ciò che li divide si ripresenta, riprende il gioco dell’amore e della repulsione, della fedeltà e dell’ inganno, sterili manovre, sospetti reciproci verso una rottura definitiva che non avverrà mai.
Bisagno non si decide. Forse i rapporti di forza sono tali che uno non può lasciare gli altri. Forse è troppo tardi e c’è troppo da fare contro il nemico vero. Bisagno non estromette i comunisti ma tenta di renderli innocui. Un suo ordine del 30 dicembre ’44 a tutti i reparti dice:” Io Bisagno tengo a far nota ai partigiani che prima di entrare nel partito bisogna essere fermamente convinti del passo che si sta per fare. Secondo il mio punto di vista occorrono almeno quattro anni di osservazione prima di una scelta ragionata. Intanto proibisco nelle formazioni ogni simbolo o canzone di partito”. I comunisti sono pazienti, l’ordine è controfirmato da Miro, il loro commissario di zona. Il Bini quando legge gli ordini duri del Bisagno con il “Salute!” prima della firma resta meditabondo: tutte quelle parole nelle veglie, tutti quei ragionamenti e ora il dubbio di aver sbagliato metodo con quel ligure duro e riservato.
L’ aprile del 1945 porta la liberazione: si ritrovano le misure giuste, anche le ambizioni e la lotta politica trovano nuove dimensioni, appare evidente la sterilità di certi dissidi. Si è anche stanchi e si ha voglia di vivere, di mangiare, di tornare a casa. Ma il Bisagno non molla, lui e la sua ricerca dell’assoluto. A casa lo vedono di sfuggita il 2 maggio. “Fermati a mangiare”, dice sua madre. Ma non può, dice che “ha tante cose da fare”. Deve per esempio congedare i suoi uomini, mandarli a casa. Il 21 maggio sale su un unicorno con gli alpini del Vestone che sono passati ai partigiani: ha promesso di riaccompagnarli a casa nei villaggi del Garda.
Nei villaggi liguri lo piangono come un figlio
Va casa per casa a riportare i ragazzi, piove il pomeriggio che si mette sulla strada del ritorno. Ma c’è una schiarita improvvisa, Bisagno fa fermare, sale sul tetto della cabina per prendere un po’ d’aria, un partigiano gli tiene compagnia, i due cantano nella sera di primavera. A una curva c’è un camion di prigioniere tedeschi. Dorino, tenta il sorpasso, frena bruscamente, vede gente che grida di fermare. Si sporge dalla cabina e vede Bisagno schiacciato dietro l’ultima ruota del camion dei prigionieri. Muore quattro ore dopo. Nei villaggi della Liguria sconosciuta lo piangono come un figlio. Ai parenti sarà consegnata la medaglia d’oro alla memoria. Ci vuole una guerra partigiana per capire che nel nostro paese esistono anche gli uomini fatti così.