Democrazia aperta, non virtuale
di Walter Veltroni
Se la democrazia così come l’abbiamo conosciuta e continuiamo a conoscerla qui da noi in Occidente, e cioè nella sua forma rappresentativa, finisse per astratta e malaugurata ipotesi domani, all’improvviso, non si sbaglierebbe a considerarla solo come una piccola parentesi, nella storia della vicenda umana. Imperatori e re, regimi autoritari, autocrazie e dittature hanno di gran lunga avuto il sopravvento per secoli e secoli, negando – non prendendo nemmeno in considerazione – tutto ciò che di un governo democratico rappresenta l’essenza e che oggi invece siamo abituati a dare per scontato, per acquisito una volta per tutte: la libertà, i diritti individuali, l’opportunità riconosciuta ai cittadini di eleggere con il voto i propri rappresentanti e di contribuire in tal modo a determinare l’andamento della cosa pubblica.
Ma è proprio così? È proprio vero che rispetto a questo traguardo – raggiunto in dimensione tanto ampia dopo essere precipitati, nel cuore del Novecento, nell’abisso più profondo che si potesse mai temere – è inimmaginabile tornare indietro? Non è possibile, invece, che la democrazia rappresentativa si ritrovi ad essere, o quanto meno di apparire, un sistema inadatto a governare processi critici e complessi come quelli che si sono manifestati con tanta irruenza nel quadro a tinte fosche di un’economia globale in crisi? O a causa delle paure e dell’instabilità moltiplicatesi a partire da quel giorno di settembre di sedici anni fa ed entrate a far parte della nostra quotidianità in un modo persino improvvisato ed imprevedibile? O ancora di fronte ad una rivoluzione tecnologica che sembra fondata sulla riduzione del lavoro e che pare destinata a sconvolgere fatalmente il tessuto produttivo e sociale?
Sono domande alle quali non ci si può sottrarre. Domande che conducono ad una risposta che potrà non essere rassicurante, ma che al tempo stesso costringe ad osservare e a cercare di comprendere la realtà, e a mettere in atto tutte le contromisure di cui si è capaci.
La verità è che la democrazia rappresentativa non è scontata. La sua capacità di continuare a regolare efficacemente distribuzione del potere e procedure decisionali non è assicurata.
Gli ultimi tempi si sono incaricati di fornire, in questo senso, più di un elemento di riflessione.
Da una parte prendono forza forme di “capitalismo autoritario” – si pensi a quanto accade nella Russia di Putin o nella Turchia di Erdogan – che si contrappongono al classico “capitalismo democratico” o “liberaldemocratico” e che fanno leva sul fatto che da sempre, nel corso della storia, è successo che la paura, l’insicurezza e la precarietà abbiano portato gli individui a cercare protezione e rassicurazioni in qualcosa che viene dall’alto. È quel meccanismo di “fuga dalla libertà” di cui parlava Erich Fromm spiegando la genesi del fascismo e dei totalitarismi: l’uomo che si sente solo, anonimo, impotente, che vive in modo spersonalizzante il lavoro, che ridotto al ruolo di consumatore avverte la propria limitatezza anche di fronte alle scelte politiche, può scegliere comportamenti di fuga dalla libertà che investono la società in tutti i suoi aspetti, anche quelli politici.
Dall’altra parte suonano sempre più forte le sirene populiste, che assumono forme nuove e molto diverse rispetto a un tempo, presentandosi persino con un volto apparentemente opposto, che si potrebbe chiamare “iper-democratico”. Forme che hanno a che fare con quella che viene definita “democrazia internettiana”, e ancora più in generale con quella “democrazia del pubblico” di cui ha parlato il politologo francese Bernard Manin: mentre nell’età classica della democrazia rappresentativa l’elettore era sacro, nell’età della democrazia mediatica ad essere sacro diventa “il pubblico”.
Il problema è che dietro questa patina democratica, non c’è una vera partecipazione. La semplificazione e la radicalizzazione la fanno da padroni. Ad avere la meglio è non solo il rifiuto della complessità, ma anche quello della delega. Not in my name: questa diventa la nuova formula magica. “Nessuno ha diritto di rappresentarci perché ci rappresentiamo da soli”. La democrazia rappresentativa diventa un ferrovecchio, da sostituire con quella diretta in ogni occasione e ad ogni livello. Avanza l’idea di coltivare una disintermediazione che riduce tutto ad una sorta di gioco a due, con un vertice lontano che fa appello ad una platea indistinta pronta ad accettare quello che le viene propinato dall’alto e convinta, nel far questo, di esercitare nel modo migliore la propria libertà. Quando invece si riduce a facile preda di richiami demagogici e pulsioni emotive. Magari sperando di superare le proprie paure affidandosi all’uomo forte, ricco e nemico del vecchio establishment, come l’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca ha dimostrato.
La realtà è che tutto questo, con una moderna democrazia dei cittadini, c’entra poco o nulla. Solo che non basta saperlo, non basta dirlo. La democrazia rappresentativa, se vuole restare in sella e avere il futuro dalla sua parte, deve saper correggere le sue imperfezioni. Già Tocqueville scriveva, sull’esperienza del suo viaggio americano, che se è vero che la democrazia non ci dà la certezza di ottime o anche buone decisioni – spesso anzi le sue decisioni sono pessime – è al tempo stesso vero che ci dà la possibilità di poterle emendare e cambiare senza il rischio o il bisogno di revocare l’ordine politico: in sostanza, la democrazia si corregge con la democrazia.
Ecco il punto: le nostre democrazie sono in grado di correggere se stesse? E se sì, come?
I piani sono diversi e complessi. Tanto da non poter certo essere esauriti in poche battute. Coinvolgono aspetti economici e sociali da una parte e assetti istituzionali dall’altra. È un vero e proprio intreccio, che deve condurre ad immaginare una democrazia capace di decidere in modo veloce come sono veloci i tempi in cui viviamo e al tempo stesso elementi di partecipazione dal basso, forme di sussidiarietà, tali da integrare l’azione delle istituzioni e in grado di favorire la responsabilizzazione dei cittadini nella gestione di parti fondamentali della propria esistenza: il lavoro, la vivibilità dei quartieri in cui risiedono, le scuole frequentate dai propri figli.
Una democrazia rappresentativa non vive se non riesce a garantire, specie oggi, nuove forme di partecipazione. Vere, effettive, non virtuali e apparenti. Il migliore antidoto contro ogni rischio di autoritarismo e di populismo.
La parola chiave, in tema di istituzioni – e peraltro anche pensando in modo più ampio alla politica, e ai partiti – deve essere allora “apertura”.
Rafforzamento della democrazia e crescita passano anche da qui, dalla liberazione della società e delle sue energie. Non sarà breve, non sarà facile. Ma scorciatoie non ce ne sono.