Democrazia nazionale, democrazia europea e globalizzazione
di Franco Praussello
Fra le determinanti che hanno messo in crisi gli assetti dei sistemi democratici tradizionali quelle di origine internazionale sono talvolta scarsamente dibattute in termini approfonditi, nonostante il ruolo crescente che hanno assunto negli ultimi decenni. La tendenza generale è infatti quella di dare per scontata la rilevanza dei processi di globalizzazione e di integrazione a livello internazionale, senza approfondire l’analisi in termini di impatto di tali fenomeni sulla fruizione dei diritti democratici nell’ambito delle singole giurisdizioni dello Stato nazionale.
Il punto di partenza di una riflessione di tale natura, nel caso dei nostri paesi del vecchio continente, riguarda necessariamente la collocazione dei nostri sistemi sociali alla confluenza fra l’apertura dei mercati a livello internazionale e il processo di integrazione europea. Per confermare questo assunto, fra le molte argomentazioni possibili, è sufficiente citare l’affermazione recente di Mario Draghi, in occasione dell’accettazione della medaglia d’oro conferitagli dalla Fondazione Jean Monnet per l’Europa a Losanna all’inizio di maggio. In contrasto con la tesi corrente, secondo la quale la Brexit costituirebbe un mezzo per “riacquistare il controllo” del proprio sistema economico, per il presidente della Banca Centrale Europea (Bce) “in un mondo in cui la dimensione relativa dell’Europa si sta restringendo e in cui la tecnologia, l’ambiente e il mercato stanno tracimando oltre i confini nazionali, la necessità di agire in comune come un mezzo per riacquisire capacità di intervento è più chiara che mai”.
In questo contesto, globalizzazione e integrazione a livello europeo presentano tutta una serie di opportunità, ma anche di vincoli, che si ripercuotono sugli assetti politici, economici e sociali, modificandoli in modo virtualmente strutturale. A titolo di esempio possiamo riferirci all’attuale dibattito circa la genesi dei movimenti populisti nel quadro mondiale, e anche specificamente europeo. E’ evidente che l’apertura senza limiti nei confronti dei flussi commerciali e finanziari provoca perdite di occupazione nei settori del vecchio modo di produrre basato sul fordismo e sul taylorismo, alimentando la richiesta di protezione da parte degli addetti alle produzioni tradizionali, che rivendicano politiche in grado di rendere ai nostri paesi la forza di un tempo, con lo slogan generalizzato del “Make America Great Again” di Trump. Ma è altrettanto evidente che se dovesse adottare la linea di politica commerciale suggerita da Macron con la proposta del “Buy European Act”, “Compriamo europeo”, l’Ue avrebbe un peso sufficiente per difendere alcune industrie giudicate di carattere strategico.
Con l’avvertenza che vincoli e opportunità associati alla globalizzazione e al processo di integrazione europea riducono o ampliano , a seconda dei casi, i margini di democrazia disponibili nel quadro nazionale. Così, sempre a titolo di esempio, la globalizzazione dei flussi finanziari si traduce in una limitazione della democrazia quando il potere di ricatto del capitalismo finanziario erode le basi dell’autonomia delle politiche nazionali e si esercita attraverso il progressivo smantellamento dello stato sociale. Con l’ulteriore specificazione che in questo caso è la democrazia tout court a entrare in crisi, indipendentemente dalle forme in cui essa si esprime, attraverso lo strumento della rappresentanza o in forma diretta.
Mentre sul versante opposto l’esistenza della Bce nell’ambito dell’eurozona si è tradotta per l’Italia, e non solo, in un ampliamento delle opportunità democratiche dato che le scelte di politica monetaria non sono più succubi del volere della Bundesbank, come accadeva di fatto prima della nascita dell’euro, ma vengono prese anche con l’apporto del presidente della Banca d’Italia, e spesso contro gli interessi della stessa Germania, come dimostrano gli interventi dell’allentamento quantitativo voluto dal presidente Mario Draghi.
Per quanto riguarda poi i rapporti in termini generali fra l’Europa, la democrazia e la globalizzazione, si possono aggiungere ulteriori riflessioni. L’Ue in quanto tale può essere considerata sia uno strumento, sia una difesa dagli effetti negativi dell’apertura dei mercati a livello globale. E’ un veicolo di essa quando propugna l’adesione a trattati internazionali che non difendono a sufficienza i suoi cittadini, mentre funge da scudo quando li protegge dal predominio dei mercati finanziari globali, grazie alle politiche favorevoli alla crescita svolte dalla Bce. Quanto alla sua democrazia interna, è noto che essa soffre del cosiddetto deficit democratico: il fatto che le sue istituzioni sono solo in parte dotate dei poteri tipici delle democrazie nazionali; non dispone di un governo eletto e il parlamento non gode di piena sovranità. Tutto ciò, anche se le sue istituzioni sono rette da rappresentanti di governi nazionali legittimamente scelti dai cittadini dei paesi membri. Anzi, va detto che ciò che di norma è imputato ad esse (“ce lo chiede l’Europa”) è deciso in realtà dagli stati nazionali, che detengono il potere di ultima istanza: l’Ue non è una federazione, ma una confederazione di stati, dotati di potere di veto.
In questo contesto, il trasferimento di poteri dai paesi membri all’Unione, che si verifica in modo accentuato negli ultimi anni allo scopo di far fronte ai pericoli di implosione dell’integrazione monetaria, viene da molti vissuto come un vulnus inferto alla democrazia: i titolari democraticamente eletti dei paesi membri, governi e parlamenti, sarebbero espropriati di poteri che vengono trasferiti a un’Unione che non è pienamente democratica. Il caso paradigmatico più recente di questo stato di cose si è verificato in occasione dei diktat imposti alla Grecia durante le trattative per il terzo piano di salvataggio nel corso del 2015, quando di fronte alla minaccia del ministro delle finanze tedesco Schäuble di espellere il paese dall’eurozona il governo Tsipras fu costretto a capitolare, accettando il prolungamento delle politiche di austerità, nonostante la volontà contraria espressa dal popolo greco con un referendum.
Per superare questa situazione può essere utile fare riferimento al cosiddetto trilemma di Rodrik, un modello presentato nel 2000 per chiarire i legami che intercorrono fra la democrazia, la globalizzazione e lo stato nazionale. In base a tale modello lo stato nazionale, l’integrazione economica avanzata (deep economic integration), vale a dire una forma distinta di globalizzazione, e il sistema politico democratico costituiscono una triade incompatibile, in quanto non è possibile avere due delle componenti senza rinunciare alla terza: di esse è al massimo possibile ottenerne due. In particolare, l’integrazione costituisce una camicia di forza dorata (golden straitjacket) che vincola lo stato nazionale in assenza di democrazia, mentre l’integrazione avanzata può essere compatibile con quest’ultima solo nell’ambito di una scelta a favore di un global federalism: di un federalismo globale. Nella prima ipotesi, la giurisdizione dello stato nazionale rimane formalmente indipendente, ma i margini di autonomia democratica al suo interno si comprimono fortemente. Allo scopo di presentarsi attrattiva per i mercati internazionali e conquistare la loro fiducia, tutto ciò che può contribuire a respingere i flussi di investimento internazionali deve essere bandito: la società nazionale è costretta a rinunciare alla protezione dell’economia locale e del sistema di welfare, mentre le scelte politiche si limitano a proporre delle alternative inconsistenti. Per partiti divenuti sempre più omologati e per i quali la divisione politica fra destra e sinistra diventa evanescente, affermano gli studiosi del fenomeno, la gamma delle opzioni fornite al mercato politico locale si riduce all’alternativa fra Pepsi e Coca Cola. Di qui la disaffezione dei cittadini e la nascita dei movimenti e dei partiti populisti. Di fronte all’impossibilità della classe politica di fornire i beni pubblici indispensabili della protezione nei confronti dei mercati internazionali, gli elettori si astengono o diventano preda di populisti che vendono una merce sempre più illusoria: la riconquista di un potere nazionale che ormai risulta evaporato.
Nella seconda ipotesi, tuttavia, quella del federalismo globale, le giurisdizioni nazionali si coalizzano a un livello superiore e la gamma delle scelte democratiche si ampliano, sino a rendere possibile la fornitura ai cittadini dei beni pubblici essenziali per difenderne gli interessi in un mondo globalizzato. Nel nostro caso, tutto ciò comporta che allo scopo di rendere compatibile l’integrazione avanzata con la democrazia nel quadro dell’Ue è necessario che al livello della democrazia nazionale si aggiunga anche quello della piena democrazia europea.