Senza doveri non esistono diritti
di Gianni Marongiu
È naturale, è comprensibile che, nelle conversazioni quotidiane, molto si parli di diritti perché tutte le Costituzioni emanate tra il Settecento e l’Ottocento li rivendicavano, li postulavano, li volevano difendere contro un potere che era stato, per secoli, assoluto.
Essi erano addirittura il fondamento primo delle stesse Costituzioni che, nella dottrina settecentesca, non erano e non volevano essere semplici mezzi tecnici di organizzazione dei poteri dello Stato (come per decenni hanno affermato le dottrine stataliste) ma strumenti di difesa delle libertà individuali.
Nei secoli decimonono e ventesimo sono state combattute battaglie memorabili e solitarie da parte di coloro che hanno rigettato l’idea secondo la quale lo Stato sarebbe il dispensatore ultimo dei diritti individuali e hanno, invece, opposto la concezione originaria delle Costituzioni come argini a difesa delle libertà individuali: in altre parole, richiamando, contro il c.d. Stato di diritto, il valore della “rule of law”, un insieme di principi nati in terra inglese e poi trapiantati in terra americana.
Ma, fatta questa ineludibile precisazione (per evitare confusioni) non si può neppure dimenticare che la dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (sintesi del Bill of Rights del 1689, nonché della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789) all’art. 1 statuisce che “tutti gli esseri umani nascono liberi e uguali in dignità e diritti” ma soggiunge anche che “essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Invito che non ha una mera valenza morale, ma è frutto della consapevolezza, già piena nel 1789, che proprio la dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino dovesse “essere costantemente presente a tutti i membri del corpo sociale per rammentare loro incessantemente i loro diritti e i loro doveri”.
Una ovvietà, si potrebbe dire, ripresa nell’articolo 2 della nostra Costituzione ove la si intenda solo nel senso che la tutela dei diritti dipende dalle istituzioni pubbliche: “I governi, diceva la Dichiarazione di indipendenza nordamericana, vengono istituiti dagli uomini per assicurare la tutela dei loro diritti”.
Ma non si tratta più di una ovvietà ove si aggiunga un corollario logico, ricco di implicazioni e cioè che proprio perché sono i governi a dover assicurare la tutela dei diritti, essa (la tutela) comporta costi elevati.
I diritti, in altre parole, non possono essere protetti o riconosciuti senza sostegno e finanziamento pubblico e non è vero che solo i poveri costano. Non è vero, in altre parole, che soltanto i diritti sociali –il c.d. “welfare” volto a promuovere la condizione umana delle fasce più deboli, a garantire la dignità di ogni uomo (è il programma del 2° comma dell’art. 3 della Costituzione italiana) – richiedano sforzi finanziari imposti alla comunità.
Anche i cosiddetti “diritti negativi” non sono una sorta di dono di natura, che l’individuo si limita a godere senza onere alcuno per la società.
Diritti quali il diritto di proprietà, la libertà contrattuale, la libertà di parola e di espressione, di religione, la libertà personale non si realizzano ad opera esclusiva del loro titolare. Sembra, ma non è così perché non potremmo farne valere nessuno senza l’intervento pubblico, senza lo “spirito di fratellanza” che innerva e sostiene una comunità organizzata e garante. È facile ricordare, ma spesso lo si dimentica, che senza questa protezione (il poliziotto che difende dalle aggressioni, il pompiere che difende dagli incendi, il magistrato che ripara i torti subiti) i diritti, anche quelli non sociali, resterebbero diritti di carta.
Ma proprio per non rimanere sulla carta essi abbisognano di risorse e queste altro non sono che il denaro pubblico frutto dei tributi di tutti.
Ecco, quindi, perché nella letteratura finanziaria moderna si parla e si discute del “costo dei diritti”: i diritti, tutti, intesi come interessi di ciascuno giuridicamente protetti non solo esistono nella misura in cui l’ordinamento giuridico li riconosce e li tutela ma, per immediata e diretta conseguenza, dipendono altrettanto strettamente dalle risorse che l’ordinamento (e cioè il Parlamento con le sue leggi) devolve a tale scopo. Essi, dunque, dipendono dalle quote di denaro raccolte a carico dei cittadini contribuenti e perciò la libertà, tutte le nostre libertà, dipendono dalle tasse e anche questa, se si vuole, è una verità di lampante evidenza: i diritti dipendono dai doveri e viceversa.
E questo vale su un doppio versante.
Infatti, è compito delicatissimo quello affidato ai rappresentanti del popolo perché, essendo il bilancio di uno Stato (o di un Comune) composto da risorse limitate, governare significa anche scegliere, tra diverse priorità e diversi diritti, quelli ritenuti più importanti da proteggere e poiché ogni diritto giuridicamente riconosciuto è una autorizzazione data ai singoli di perseguire scopi individuali valendosi di risorse comuni, un ordinamento responsabile deve spendere in modo responsabile risorse prelevate da cittadini responsabili.
Ma non meno rigoroso deve essere il comportamento dei cittadini perché coloro che violano gli art, 53 e 54 della Costituzione (e quindi gli evasori, i corrotti, i corruttori, i pigri nell’adempimento delle loro funzioni pubbliche) non soltanto danneggiano la collettività organizzata, ma attentano alle libertà, ai diritti dei loro concittadini anche quella che sembra la meno costosa ma non lo è…quella di parola