di Carlo Rognoni
Avevo 19 anni. Avevo appena finito il liceo scientifico e dovevo assolutamente lavorare. Un vecchio amico di mio padre che lavorava alla Sipra mi venne in soccorso: vuoi fare il pubblicitario? O preferisci diventare giornalista? A me sarebbe piaciuto continuare a studiare, laurearmi in filosofia… Non potevo. E così scelsi di accettare un lavoro da precario a “24 Ore”, un quotidiano economico allora di proprietà della Edison, e di cui raccoglieva le inserzioni pubblicitarie proprio la Sipra (diventerà “Il Sole-24 ore” quando – dopo la nazionalizzazione dell’industria elettrica – si arrivò alla fusione con “Il Sole”, giornale della Confindustria). La speranza a quel punto era di diventare presto praticante e poi dopo 18 mesi giornalista professionista.
Passano alcuni anni e finisco per diventare direttore di “Panorama”, settimanale della Mondadori. Il mestiere di giornalista a questo punto credo di averlo imparato. E quando un giorno mi viene data la possibilità di essere eletto senatore penso sia arrivato il momento di cambiare. Ma per quanto uno possa pensare di cambiare, se ha fatto il giornalista per trent’anni, giornalista lo resta a vita.
Ieri, cercando di mettere ordine nelle mie carte, visto che il coronavirus ci ha tutti segregati, e anch’io come tanti sono agli “arresti domiciliari”, ho trovato una copia de “Il Giorno” del novembre 1995 in cui il quotidiano di Milano mi dedicava un’intervista di una pagina intera. “Parla il vicepresidente del Senato, il pidiessino Carlo Rognoni”: l’occhiello. Questo il titolo a caratteri cubitali: “I Poteri forti soffocano la stampa”. E poi il sommario: “L’editoria è stretta tra Palazzo e alta finanza. E l’informazione ha fallito la sua missione”.
Chiunque sa che l’intervistato non ha nessuna responsabilità sulla qualità e sul senso di un titolo di giornale (compete al redattore che impagina, neppure all’autore del testo) e rileggendo l’intervista ho trovato la sola domanda che lo giustifica. “I mass media sono stati all’altezza dei tempi in questi anni?”
È un po’ la stessa domanda che mi ha fatto Mino Ronzitti, presidente dell’ILSREC. Perché non scrivi qualcosa su come l’informazione sta affrontando la crisi che viviamo?
La mia risposta di allora – ripeto, nel 1995 – vale ancora. “Il sistema dell’informazione nel suo complesso ha fallito la sua missione”. Perché? “Il giornalismo è molto legato alle vicende della politica. Pensare che la crisi della politica non si ripercuotesse sulle redazioni è assurdo. Quando c’è il caos nella politica, c’è la confusione nel giornalismo. Nel 1992 con Mani pulite, noi, come giornalisti, abbiamo avuto una grande occasione: rompere il legame, che in Italia è più forte che altrove, tra poteri forti dell’economia, poteri forti della politica, e giornali. Il giornalismo è sempre stato il vaso di coccio tra questi due grandi poteri, che se lo sono giocati in termini strumentali. Essendo con Mani pulite finito sotto schiaffo, oltre al potere politico, anche quello economico, che aveva in mano i giornali, i giornalisti erano liberi, non avevano più padroni che li costringessero a censure di tipo politico o economico. Ma purtroppo hanno perso questa grande occasione: anziché sfruttare questi spazi per costruire la loro autonomia, hanno cominciato a fare riferimento sui magistrati. Nel senso che hanno vissuto la magistratura come l’unico potere rimasto in campo su cui far riferimento, quasi che fossero loro i nuovi dispensatori di veline su cui fare affidamento. … Se nel 1994 le elezioni fossero andate diversamente… ci sarebbero state le premesse per una svolta. Ha vinto, invece, uno dei monopolisti dell’informazione e uno di quei poteri fortissimi dell’informazione è diventato protagonista politico. Si è scatenata così una guerra dell’informazione, carta stampata contro televisione. Con il risultato che siamo tornati indietro rispetto a Mani pulite e agli spazi che si erano aperti. Ci siamo rinchiusi tutti in un fortino a difesa del singolo padrone e del singolo interesse. E i sogni di autonomia sono andati a farsi benedire”.
Quella mia osservazione di venticinque anni fa vale ancora? Vale anche per il giornalismo di oggi? L’unica grande differenza è che oggi si parla di “fake news”, allora si parlava – e forse faremmo bene a continuare a parlarne – di cattivo giornalismo. In più – e questo è senza dubbio il cambiamento storico più grande – ci sono i social media che hanno contribuito a trasformare chiunque, a cominciare dal più piccolo e modesto internauta, in un potenziale giornalista senza regole.
L’informazione e la disinformazione ai tempi del coronavirus sono un banco di prova per tutto il sistema, dalla carta stampata, alle tv, ai social media. L’Agcom, l’autorità garante delle comunicazioni, “ha misurato il tasso di disinformazione medica ed epidemiologica del virus, evidenziandone l’esplosione nei mesi di febbraio e marzo”. Scrive Antonio Nicita, uno dei commissari Agcom: “Se da un lato la percentuale della disinformazione può apparire bassa (5%) rispetto all’informazione totale, dall’altro va osservato che la singola notizia falsa nelle sue brevi giornate di vita diventa ‘la notizia del giorno’. Non a caso molti propongono il termine infodemia al riguardo. E non è un caso che i siti specializzati in disinformazione dedichino quasi il 50 percento delle loro “notizie” al virus: abbuffate di vitamine, farmaci giapponesi, ingegnerizzazione del virus in qualche laboratorio, sono tutte notizie ‘che non ci dicono’, ‘che vogliono nasconderci’”. Una rilevazione recente Agcom-Swg mostra che 6 italiani su 10 non sono in grado di riconoscere una notizia falsa… C’è in ballo, come molti osservano, “il tema dell’istruzione, dell’educazione, della capacità di elaborazione dei fatti. Ma c’è evidentemente anche il tema dell’informazione di qualità e dell’ assenza di meccanismi di confronto volti a smussare la polarizzazione e i pregiudizi”.
Andrea Martella, sottosegretario all’Editoria, ha nominato un gruppo di esperti per monitorare e identificare le fake news relative all’emergenza corid-19. Bene ha fatto. Peccato che la politica – in questo caso parlerei di cattiva politica – ha subito trovato il modo di osteggiare l’iniziativa del governo, gridando allo scandalo, gridando al fatto che così si limita la libertà di pensiero. La prima a puntare il dito è stata la presidente di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni. E anche la signora della destra italiana non ha perso l’occasione per diffondere una fake news. Eh si! Dicendo che fra gli esperti non c’è neppure un medico o un virologo, ha detto il falso. Forse che per la “reginetta dell’opposizione” “il diritto alle fake news è fantastico”? ha commentato la dem Alessia Morani. “Invece in Ungheria il suo amico Orbán fa a pezzi la democrazia, ma va tutto bene?”. Forse c’è una citazione che merita una riflessione. Hannah Arendt ha scritto: “La libertà di opinione diventa una farsa se l’informazione fattuale non è garantita e i fatti stessi sono messi in discussione”. La Arendt chiama tutto ciò la “modesta verità dei fatti”. Ed è una modestia di cui abbiamo bisogno e che potrebbe servire ai Salvini e alle Meloni (ma non solo) che pur di continuare una eterna e insensata campagna elettorale non sembrano capaci di distinguere il vero dal falso, il fatto dalla propaganda. Con il risultato di portare un numero crescente di giornalisti – che non si documentano, che pensano così di servire il politico di turno – sulla cattiva strada.
L’ articolo è stato redatto il 10 aprile 2020