di Laura Repetto
Quando il presidente Ronzitti mi ha proposto un intervento da pubblicare su “Rete delle idee” in compagnia di firme storiche e personalità ho risposto di getto: no, Mino, scusa non ce la faccio. Non riesco ad astrarmi, a prendere la giusta distanza, a impostare una riflessione storica; non riesco ad acquisire la razionalità e la lontananza critica necessaria da ciò che vedo.
Sono circondata da volti che chiedono aiuto, voci incrinate dalla rabbia e dalla paura, dall’angoscia, sguardi increduli, come sospesi. Sono travolta dall’hic et nunc, fatico a trascenderlo, la mia testa si dibatte tra problemi (tanti) e soluzioni (poche e impervie), il cuore impazzisce e la mente scava e cerca vie di fuga impercorribili. Cerca letture che portino altrove, musica che porti altrove, paesaggi vuoti che non facciano sognare altri paesaggi… fa troppo male; boccioli di primavera su cui condensare tutta la propria quotidiana richiesta di bellezza, al di sopra di ogni bruttura. Mi scopro disperatamente dannunziana, io!
Oscillo tra l’urgenza di esserci per tutto e tutti e la voglia di scappare, isolarmi. Aspettare e basta.
Sono madre, insegnante, assessore. Troppo. Sono una donna, in un momento difficile: forse ogni giorno più colta ed esperta, di certo più fragile e sempre più determinata a non mostrare questa fragilità. Cerco la forza nei pochi momenti in cui mi posso isolare. Non voglio impegnarli in una descensio ad inferos che mi riporti al cuore di ciò che sta pulsando dentro e brucia: l’urgenza di esserci per tutti e non poter fare nulla, per nessuno.
Le giornate corrono veloci (!), mi travolge la quotidianità soffocante di una situazione che ci è crollata addosso che non sono pronta ad affrontare, ma incombe prepotente su ogni gesto, ogni pensiero.
Sono madre. Di due figli adolescenti. Confinati in casa. Distrutta la routine, il ritmo frenetico di una vita incasellata, negate le esigenze più elementari, gli amici, il movimento. Costretti a convivere, sull’orlo di una crisi di nervi, con adulti abituati a vivere sull’orlo di una crisi di nervi. Sono evasivi, invadenti. Non ammettono che tu possa non esserci, essendoci, quando ti vogliono. Non ti perdonano distrazioni, cedimenti. Ne hanno paura. Ogni espressione fugace del volto è scrutata con scrupolosa attenzione e relativa apprensione.
Due occhi azzurri taglienti di giovane donna cercano nei miei la sfida, la complicità, la distrazione fatale che consentirà lo sfottò, e insieme una guida, un sostegno che non verrà mai richiesto a parole. Devo stare attenta, lo so.
Due occhi verdi, dolci di cucciolo rauco cercano calore di coccola, quei giochi maneschi e maschi per provocare, scattare, mostrare la nuova forza che adesso scalpita contro gli stipiti delle porte, le molle dei materassi, sulla testa dei vicini… occhi abili a rintracciare le mie debolezze e a soffrirne maledettamente per la voglia di proteggermi. Devo stare attenta, lo so.
Cerco di nascondere tutto. Ma sono furbi loro. Sanno che, se sono in crisi, posso chiudermi a lungo in un mondo tutto mio, diventare un’ombra di assenza. Se lo aspettano. Lo temono. Soprattutto ora che mi sento furente, impotente. Una leonessa in gabbia. Una tigre sotto la neve. Sanno che se non parlo e non scrivo, se non mi decido ad urlare, esploderò. Ma non voglio uno sfogo, uno sterile urlo. Ne sento già troppi. Non se ne può più. E l’urlo nero della madre non concede ritorni. Va trattenuto quell’urlo, per trattenere tutti sull’orlo dell’abisso e mostrare un prato fiorito subito al di là.
Passati i primi giorni increduli e vuoti, quegli occhi si storcono, dilatano, iniziano a informarsi, disorientati, sulla scuola… perché, guarda, piuttosto andrei a scuola. Scoprono che sei un’insegnante, iniziano a chiedere aiuto per i compiti, per le lezioni mai spiegate. E ci devi essere. Anzi, è il tuo momento, devi impegnarti. Non puoi fallire.
Sono un’insegnante. Ci sono i miei alunni. In assenza di direttive, invio letture, chiedo compiti via mail. Mi tornano su WhatsApp, scopiazzati, scannerizzati. Mi viene da piangere, ma correggo, diligente, e propongo lezioni on-line. I colleghi di quinta sono stati i primi ad attivarsi. Dicono è dura, ma si fa. Scopro che è durissima, ma si fa… con la sensazione di essere dei meri idioti che si sforzano in un’impresa titanica e inutile, ma si fa. In fondo, Don Chisciotte è divenuto un mito…
Poi si scopre che si è fatto bene, anzi che è proprio ciò che va fatto. La ministro manda i complimenti. Ora tutto mi è chiaro: la situazione è preoccupante, non saranno pochi giorni, non si rientrerà in aula. Infatti partono immancabili gli anatemi per chi, in assenza di direttive, di strumentazione e di formazione, inspiegabilmente, non si è ancora attivato.
Procedono le lezioni donchisciottesche, i ragazzi si negano alla webcam, non possono proprio rispondere alle domande perché hanno il microfono rotto… non resta che spiegare a se stessi, o al muro. Ma si va in scena, tutte le mattine. Bisogna reinventarsi, concentrarsi, sorridere, esserci per loro, nascosti da qualche parte là dietro; bisogna farsi trascinare ad occhi aperti dalla passione per il teatro, la letteratura, le pieghe della storia che ti disvelano il presente; attenti a riconoscere al volo le voci che sussultano storpiate dal web; forse ascoltano davvero.
Devo stare attenta, concentrata, lo so.
Loro hanno bisogno di quella normalità che passa anche attraverso di me, il mio sorriso, la mia voce, la mia finta sicurezza, la simulata severità, la rassegnata complicità. Sono adolescenti, sono fragilissimi. Una generazione di figli unici iperconnessi che non sa gestire questa virata “anomala” dei social, “scioccobasiti” per questa invasione adulta della propria smart-intimità che tanto serve ora per non restare soli.
Faccio lezione al muro, sotto i miei prestigiosi diplomi. Davanti ad una folla di libri accartocciati, sopra un tappeto di disordine, nello studiolo dei ragazzi, che fu mio. Avrebbe riso Pirandello.
Poi un’ambulanza con l’altoparlante passa per il paese. Il sindaco consiglia, ordina di stare a casa per l’incolumità di tutti. Lo so, se ne è parlato in giunta, io ero titubante su questa scelta, la testa era tornata a Ray Bradbury, la distopia (è il contrario dell’utopia ragazzi, un mondo che mai si vorrebbe che esistesse…). Alunne e alunni scappano alle finestre. Tornano alla scrivania, al tavolo, sul letto. Le webcam si accendono, occhi nasi e bocche dentro alla webcam, che ora funziona. Anche il microfono funziona: “Cosa succede, prof?” Ho i brividi. Sono qui per questo: devo tenere la calma per loro. Intanto mi maledico perché quell’altoparlante li ha terrorizzati e non dovevo lasciarlo partire. O forse sì. Forse sono disconnessa dal reale perché, per proteggere loro, figli e studenti, cerco di non vedere neppure io. Forse ha ragione il sindaco, li devo spaventare o usciranno a farsi due selfie, canticchiando abbracciati e registrando TikTok.
Non vedo l’ora di spegnere tutto e chiamare in Comune, un forte sapore di amaro sulle labbra nell’ultimo sorriso forzato alla webcam non più muta.
Sono assessore alle Politiche Sociali e all’Istruzione in un comune di 5.400 abitanti. Ebbene sì. Sempre avuto il lanternino per cacciarmi nei guai. Devo stare molto attenta, lo so.
È prima linea questa. Da che mi hanno eletta, lo scorso maggio, lo so. Tanti hanno riposto la fiducia in me, il sindaco mi ha nominata. Sono pronta a dover combattere con strumenti limitati, un bilancio sano, ma bloccato, leggi leggine e circolari schizoidi. So che dovrò occuparmi della fascia più fragile e difficile della popolazione, sempre in crescita. So che dovrò coordinare la mia azione con gli altri amministratori della Valle, non sarà sempre facile confrontarsi, troverò interlocutori collaborativi o impositivi o sfuggenti, combatterò al fianco di Istituzioni a volte solerti, ma non sempre raggiungibili o sollecitamente presenti. Devo imparare molto, studiare, mediare, sudare per riuscirci. Ogni giorno ci sarà un intoppo, un problema, un’emergenza. Ormai si lavora da anni sempre e solo in emergenza, tra difficoltà burocratiche avvilenti e crescenti, leggi mutanti, kafkiane. Sarà difficile. Specie nelle piccole realtà. Specie nell’ingrato entroterra. L’ho messo in conto, ma ho dalla mia un sindaco di grande esperienza, una giunta giovane, entusiasta, una maggioranza coesa, collaboratrici preparate, appassionatee intelligenti.
Ecco, ma una pandemia è più di un’emergenza. È un gigantesco vaso di Pandora che, aperto, ha travolto noi e coperto i nostri orizzonti, travolto ogni nostra certezza, punto di riferimento. Ha lasciato sfuggire, insieme a tutti i mali, tutte le fragilità: quelle profondamente umane, quelle di una burocrazia malata, di una società individualistica ed egoreferenziata, di un sistema Paese debole, acefalo ed etero-diretto, di un’economia in sofferenza, in una realtà geografica già duramente provata dalle ingiurie della Natura e degli uomini. Ha minato gli equilibri precari, psicologici economici e sociali, molti li ha già compromessi; ha svelato i drammatici errori commessi dalla classe dirigente ai tempi dei vitelloni, degli yuppies e della Spending-review.
Una sfida mai come oggi globale, ci ha confinati e costretti nel nostro particolare.
Nel momento della prova più dura, brancoliamo soli nel buio del presente, incapaci di aiutarci a vicenda, soffocati dall’ombra minacciosa del futuro, sempre più incerto. Sballottati in mezzo alla confusione ingovernabile della cattiva informazione e delle fake news.
Tutto questo ci sovrasta. Nessuno era preparato, nessuno è all’altezza.
Intanto i numeri della tragedia crescono, si trasformano in volti, quello del vicino di casa, del collega, dell’amico. Le famiglie ne escono stremate, o distrutte. È strazio. Senso di impotenza. Tutto ciò che serve latita, viene meno: la comunità, la solidarietà, la scuola, il lavoro, il pasto, il posto all’ospedale. Il confronto, il buon senso, la capacità di reagire. I bisogni crescono, l’aggressività cresce; la paura genera diffidenza, astio. I toni si alzano… o ci si ammutolisce.
Ogni azione sembra inutile, vana, ma bisogna agire e in fretta.
Come sempre, quando non si sa come fare, si delega, a tutti i livelli, e gli amministratori locali, improvvisamente liberi da pastoie e cavilli, ora sono tenuti a stabilire autonomamente, urgentemente, inderogabilmente criteri e contributi, a circoscrivere “platee” non meglio quantificate e identificate di beneficiari (“platee”? In fondo sì, siamo finiti in una pièce di Beckett, Ionesco. Ci sta anche la giurisprudenza creativa, meta-teatrale).
Intanto mancano l’assistenza sul territorio, i tamponi per chi sta male, le mascherine, i guanti per i volontari.
È troppo.
La mente scappa di pensiero in pensiero, cerca possibilità di monte in monte, rifiutando di registrare dinamiche ben note e immortalate per sempre dalla penna di Boccaccio e di Manzoni, della lucidissima Nemirowsky, che tratteggia una peste ancora più nera, quella dell’anima, pur senza farsene contagiare. Ma so, con Orazio, che il mio cuore non muterà guardando altrove; cambierà il cielo, non l’animo.
Ecco, devo stare attenta alle sconcertanti e prismatiche sfaccettature del presente, alle necessità di chi chiede aiuto da vicino; devo continuare a coltivare caparbia il mio piccolo orto senza tormentarmi perché questo non è il migliore dei mondi possibili, come il vecchio saggio del Candide, con buona pace anche dei leibniziani. Non ho energie per altro oggi.
Non è tempo di piangere, né di urlare né di polemizzare. Ho il dovere di cercare un mio nuovo equilibrio, anche espressivo, tra le macerie delle mie convinzioni… e non so seguire i miei miti.
Ho amato alla follia quei grandi uomini capaci di costringere il ruggito del loro “spirto guerrier” dentro endecasillabi in rima alternata; in grado di vedere la forza sovrumana della ribellione concentrata in una fragile ginestra e cantarne; di pronunciare il loro Ja-sagen, nonostante le impietose sofferenze della sorte e della vita; di suicidarsi, conversando amabilmente di filosofia. Menti capaci di regolare la propria vita sulle lancette dell’orologio, di vedere chiara la legge morale dentro di sé.
Io non ci riesco. Sento gli echi delle loro voci e la lontananza da cui provengono.
Non riesco a trovare quell’equilibrio, quella misura: sono travolta da una vicinanza emotiva da cui ho sempre cercato ascetico riparo.
Non so calarmi né astrarmi dal concreto e non so neppure contenere il mio sfogo in una sintassi adeguata. Io che aborro i punti di sospensione ed i punti esclamativi; io che trovo svilente l’andamento paratattico della frase; volgare l’uso scontato di termini quotidiani se non sei Gozzano; presuntuoso e inefficace il flusso di coscienza se non sei Joyce, non trovo altro modo di comporre queste storte sillabe…
…Perciò non chiedermi di scrivere di fenomeni e tendenze, costruire paralleli col passato, prospettive per il futuro, di prefigurare ipotesi, scenari. Ora, Mino, mi mancano le energie, non so se riesco, se voglio.
Devo trovare la forza di restare con la testa inchiodata qui; esserci per tutti, accettare di fallire ogni giorno nel tentativo di essere soddisfatta di me, almeno un poco, ogni tanto.
“Parla di questo allora… resterà la memoria, aiuterà a costruire la storia” mi ha risposto Ronzitti, che ho travolto col mio lungo inarrestabile inusitato monologo … e allora ci ho provato. Ho guardato dentro al vaso di Pandora, sfrontatamente, per “Rete delle idee”.
L’ articolo è stato redatto il 6 aprile 2020