di Franco Praussello
- Premessa
Dopo la comparsa del coronavirus in Italia e in Europa, i governi hanno reagito in ordine sparso, dapprima sottovalutando la crisi che era in procinto di abbattersi sui loro Paesi, e poi affrontando con preoccupazione i primi rimedi che le autorità sanitarie consigliavano, prima di far ricorso con un certo ritardo allo strumento che aveva adottato l’Italia, sulla base dell’esperienza della Cina, primo focolaio della malattia: il distanziamento sociale.
Successivamente, a mano a mano che prendevano coscienza della gravità della situazione, le autorità politiche hanno cominciato a riflettere sui metodi da utilizzare per contrastare, al di là dei costi immediati della pandemia, in termini di perdite di vita umane e di accresciute spese sanitarie, i danni economici diretti e indiretti provocati dal blocco della produzione e dalla necessità di rilanciare la crescita, una volta debellata o posta sotto controllo la pestilenza.
Ed è in questa fase, che gli economisti hanno avanzato, come di solito accade, previsioni e suggerimenti di politica economica alquanto disparati: per alcuni la recessione e i costi conseguenti sarebbero stati abbastanza contenuti, mentre per altri si sarebbero avvicinati a quelli della Grande Depressione del secolo scorso.
Tutto ciò sino a quando, verso la fine del mese di marzo del 2020 in un’intervista rilasciata al Financial Times, la bibbia degli economisti di tutto il mondo, Mario Draghi, l’ex presidente della Banca centrale europea (Bce), dall’alto della sua reputazione di salvatore dell’euro, faceva alcune dichiarazioni circa la portata e i rimedi necessari per affrontare la crisi sanitaria, le quali erano destinate a costituire un punto di svolta, divenendo elementi di confronto ineludibili.
L’importanza dell’intervento di Draghi potrebbe essere difficilmente sopravvalutata, dal momento che, come ci accingiamo a vedere, le sue implicazioni vanno ben al di là della contingenza che l’hanno provocato, sfiorando temi che vanno dallo stato attuale della scienza economica, alle difficoltà in cui si trova immerso il processo di integrazione dei Paesi europei, sino a toccare il vertice della nascita della democrazia piena nell’ambito dell’Unione europea (Ue), con la creazione dello Stato federale.
- Una strategia contro i costi economici della pandemia
Nell’atmosfera rarefatta ma concitata, che ha fatto seguito alle misure dei governi finalizzate a combattere la pandemia del corona virus, le dichiarazioni di Draghi sono calate come un fulmine a ciel sereno nel mondo dei politici. Le incertezze e i dubbi con cui le autorità a molteplici livelli stavano tentando di elaborare le strategie più appropriate per contenere i danni provocati da una sventura del tutto imprevista (unprecedented, nel linguaggio dei tecnici) sono stati spazzati via, salvo poi ripresentarsi al momento di definirne in dettaglio le misure di realizzazione.
Com’è noto, Draghi, dopo aver sottolineato l’eccezionalità della crisi scatenata dal Covid-19 definendola una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche, ha aggiunto due qualificazioni in grado di gettare nello sconforto le autorità cui era rivolto il suo messaggio: da un lato la previsione che essa provocherà una profonda recessione, e dall’altro che questo richiederà una pronta e robusta risposta da parte dello Stato mediante una massiccia spesa in disavanzo, la quale produrrà aumenti nei livelli di debito pubblico, con danni che sarebbero tuttavia inferiori a quelli che si verificherebbero in assenza di interventi, con la distruzione permanente di capacità produttiva.
Con il non detto che tutto ciò comporterebbe una serie di conseguenze che configgono con numerosi tabù imposti dalla vulgata neoliberista ai governi europei: in primis l’obbligo del bilancio in pareggio, il ruolo ancillare dello Stato nei confronti degli interessi privati, nonché, a livello dell’eurozona, il pieno rispetto dei vincoli ai bilanci nazionali e il divieto della condivisione dei rischi mediante la mutualizzazione dei debiti. Anzi, circa quest’ultimo punto, in parole coperte, Draghi accenna al fatto che l’Europa è bene attrezzata per affrontare la crisi con strumenti fiscali unitari, dato che questa è provocata da una causa comune: un modo obliquo per affermare, nel linguaggio degli economisti, che uno shock simmetrico (che colpisce tutti i paesi dell’euro) come quello del Covid-19, richiede risposte comuni, anche basate su manovre di tipo fiscale.
A commento ulteriore delle parole di Draghi, si potrebbero ancora aggiungere due altre osservazioni: in primo luogo che lo sconcerto provocato nei governi dalla prima delle sue qualificazioni, con la previsione che la recessione innescata dalla pandemia non sarà leggera, come prevedevano i loro esperti, ma risulterà piuttosto profonda, dipende dalla loro inveterata abitudine di indorare la pillola, come s’è visto anche con la sottovalutazione dei rischi nei primi giorni dell’allarme sanitario. E poi con l’altro sconcerto di dover riconoscere le loro responsabilità nell’aver accettato supinamente, a destra, al centro, e a sinistra, le politiche di austerità imposte dall’imperante ortodossia neoliberista.
In ogni caso, occorre sottolineare l’eco notevole che il suo intervento ha suscitato non solo in Europa, ma nel mondo tutto, e ciò in ambienti che vanno ben al di là di quelli dei tecnici e dei politici. Assiso sulla fama che il suo celeberrimo “whatever it takes” (tutto quanto è necessario) del 2012 gli ha universalmente procurata, salvando la moneta unica, egli gode ormai di una notorietà che ne fa uno dei leader d’opinione più ascoltati a livello internazionale.
A beneficio di coloro che l’avesse dimenticato, è opportuno ricordare che l’espressione appena citata era stata da lui utilizzata nel pieno della crisi dei debiti sovrani, che rischiava di provocare l’implosione dell’eurozona. Nello specifico, l’affermazione dell’allora presidente della Bce esprimeva il concetto cardine di un discorso più ampio, con cui Draghi intendeva affermare che l’istituzione da lui diretta, in obbedienza al suo mandato, avrebbe fatto tutto il necessario per salvare l’euro da una morte prematura.
Aggiungendo, con una minaccia conclusiva rivolta ai mercati: “E credetemi, sarà abbastanza”, intendendo garantire che se questi ultimi si fossero intestarditi a continuare la speculazione contro la moneta unica, gli interventi di contrasto da parte della Bce li avrebbero esposti a perdite catastrofiche.
Come è ormai scritto in tutti i libri di storia economica recente, la determinazione dimostrata da Draghi fu sufficiente a fare il miracolo: pur in assenza di manovre difensive sui mercati, le speculazioni contro l’euro cessarono come per incanto, e i costi enormi di una nuova recessione globale furono evitati.
- Il tramonto di un paradigma superato
In un contesto più vasto, l’ intervento di Draghi si può configurare come un contributo non piccolo al superamento della visione neoliberista del mondo. Nel corso dell’ultimo secolo, si sono avvicendate con diverse fortune due scuole alternative circa il funzionamento dei moderni sistemi economici: il keynesismo e la dottrina neoclassica, entrambe nei panni rivestiti dalle loro differenti successive interpretazioni.
Mentre negli anni Trenta del secolo scorso si assiste al passaggio dal predominio della scuola neoclassica a quello della scuola keynesiana, che sistematizza alcuni principi ispiratori del New deal rooseveltiano, consentendo di combattere la Grande Depressione del 1929 con la spesa pubblica in deficit, a partire dagli anni Settanta si produce il passaggio opposto.
Si verificano infatti due sviluppi cruciali, che consentono agli economisti neoclassici di riacquistare la leadership. Da un lato, l’emergere della stagflazione a livello mondiale (la contemporanea presenza di inflazione e disoccupazione), fenomeno che confliggeva con alcuni capisaldi della dottrina di Keynes. E dall’altro, il succedersi di vittorie della destra politica in due Paesi centrali nel sistema mondiale degli Stati: dopo il golpe di Pinochet in Cile nel 1973, le vittorie elettorali della Thatcher in Gran Bretagna nel 1979 e di Reagan due anni dopo negli Usa.
Con l’avvertenza che il riferimento al Cile di Pinochet, un Paese non certo paragonabile per importanza agli Usa e alla Gran Bretagna, nel contesto in cui ci troviamo, risulta pienamente giustificato dal fatto che, sotto la dittatura dei generali, nel paese sudamericano trovarono per la prima volta applicazione su vasta scala le politiche macroeconomiche neoclassiche, nella loro versione più aggiornata: quelle del modello neoliberista. Fu infatti allora che entrarono nel governo e nelle altre strutture pubbliche i cosiddetti Chicago boys, gli economisti cileni formati dai professori della scuola di Chicago, questi ultimi capitanati dal loro esponente più illustre, il premio Nobel Milton Friedman.
Intrisi di una credenza quasi mistica nelle virtù del libero mercato e nell’inutilità o anche la dannosità degli interventi dei governi in economia, le misure da loro adottate furono semplici quanto brutali: soprattutto tagli nella spesa pubblica, nel welfare e nelle entrate fiscali, aliquote di favore per le classi di reddito più alte, creazione di nuove opportunità per l’iniziativa privata, abolizione dei controlli sui movimenti di capitale, apertura economica pressoché completa verso l’estero e contrasto o lotta aperta nei confronti dei sindacati; misure che furono in seguito imitate prontamente anche dalla signora Thatcher e da Reagan.
Sulla base di questo insieme di elementi, l’insegnamento di Keynes fu messo da parte e per quasi quarant’anni il modello neoliberista fu adottato dalla grande maggioranza dei paesi occidentali, da parte anche di governi di ispirazione progressista.
In realtà, al momento della crisi del 2008 alcuni governi, per combatterla, fanno ricorso a manovre keynesiane di spesa pubblica in disavanzo, però senza dirlo: con deficit negli Usa degli anni di Obama dall’8 al 10% del Pil e nella Gran Bretagna di Gordon Brown a livelli analoghi. Solo nei paesi dell’euro i governi furono trattenuti dal farlo in maniera così rilevante dai vincoli alla spesa pubblica imposti da una particolare versione del neoliberismo, l’ordoliberalismo di matrice tedesca, la cui unica cura di fronte a una recessione consisteva in manovre di austerità di carattere recessivo.
E in effetti, sviluppi relativamente recenti del pensiero neoliberista erano giunti al punto di sostenere la tesi dei cosiddetti effetti espansivi del consolidamento fiscale, in base alla quale per contrastare una recessione fosse necessario non aumentare ma ridurre la spesa pubblica, teoria poi dimostratasi empiricamente infondata, almeno nella maggior parte dei casi.
Con alle spalle questo quadro complesso, l’intervento di Draghi può essere considerato come un colpo di piccone inferto all’ortodossia finanziaria basata sulla concezione neoliberista imperante del funzionamento dell’economia, forse la sua pietra tombale.
Non per nulla, negli stessi giorni della dichiarazione di Draghi, di fronte alla previsione dei pesanti effetti economici provocati dalla crisi pandemica, due esponenti della scuola economica della Bocconi, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi, sono intervenuti pubblicamente difendendo tesi analoghe a quelle dell’ex presidente della Bce, riscoprendo Keynes e la funzione determinante dello Stato al fine del contrasto alle cadute del reddito e all’aumento della disoccupazione.
E a questo punto, è possibile raggiungere una prima conclusione, in base alla quale l’intervento di Draghi contribuisce in modo determinante a un nuovo cambio di paradigma all’interno della scienza economica: il pensiero neoliberista sta uscendo di scena, per essere sostituito da una ripresa della scuola keynesiana, pur nelle sue molteplici articolazioni. Ma non è tutto.
- Oltre il trilemma di Rodrik
A completamento dell’analisi è opportuno infatti chiarire come l’intervento di Draghi possa contribuire anche a mettere in luce i collegamenti che esistono tra la Resistenza, la democrazia e l’unità europea, dando in partenza per scontato che il legame fra Resistenza e nascita della democrazia nell’Italia repubblicana dopo la dittatura fascista non abbia bisogno in questa sede di particolari dimostrazioni.
A tal fine è necessario rammentare preliminarmente che una volta assicurata la sopravvivenza dell’euro, dopo il messaggio deciso inviato ai mercati nel 2012, Draghi, rivolto ai governi, non si è stancato di metterli in guardia circa la necessita di completare l’integrazione monetaria mediante l’impiego di politiche europee di bilancio rivolte ad assicurarne la stabilità e la permanenza. Messaggio, tuttavia, che non ha trovato sinora riscontro: le politiche di bilancio (o fiscali, come si usa dire nel linguaggio tecnico dei paesi anglosassoni) rimangono riservate al dominio esclusivo degli Stati confederati dell’Unione, che lo difendono tenacemente esercitando il loro potere di veto.
La cosa si capisce: se dovessero rinunciarvi, verrebbe superato uno degli ultimi ostacoli che impediscono la nascita dello Stato europeo. La strada che porta dalla fiscalità a livello dell’Unione alla piena democrazia e statualità europea potrebbe essere più o meno velocemente percorsa. Con l’aggiunta che se si volesse comprendere le ragioni della renitenza dei Paesi membri dell’eurozona ad abbandonare la loro piena sovranità fiscale, il discorso ci porterebbe lontano dagli obiettivi limitati di questa nota.
Tutto ciò premesso, risulta chiaro che accettare la richiesta di Draghi di dare vita, seppur parzialmente, a una fiscalità europea permetterebbe alla democrazia nazionale nata dalla Resistenza di proiettarsi anche al livello europeo.
In modo più esplicito, se questo dovesse accadere, sarebbe possibile superare il trilemma di Dani Rodrik nel caso dell’integrazione europea. Il trilemma in questione rappresenta il corollario di un’indagine approfondita condotta dall’economista di origine turca attivo presso l’Università di Harvard su tre elementi costitutivi della globalizzazione: l’integrazione economica avanzata, lo Stato nazione e la democrazia.
Rodrik dimostra che di questi tre componenti ne sono compatibili solo due; in particolare che per partecipare a un processo di integrazione economica avanzata, uno Stato dovrebbe rinunciare alla democrazia interna. Esattamente ciò che è avvenuto durante la crisi del debito sovrano in Europa, quando il mantenimento della Grecia all’interno dell’eurozona è entrato in rotta di collisione con la volontà espressa con un referendum dai cittadini greci di non voler sottostare alle misure di austerità imposte dalla Troika, prevedendone gli altissimi costi in termini di caduta del reddito e di aumento della disoccupazione.
Rodrik prevede tuttavia che il contrasto fra l’integrazione e la democrazia possa essere superato ricorrendo a ciò che egli chiama una “Global federation” (Federazione globale) con riferimento alla globalizzazione economica nel quadro dell’economia mondo.
Ne discende che per quanto concerne l’Europa, l’integrazione avanzata, l’“unione sempre più stretta” dei Trattati europei, la nascita dello Stato federale europeo, che risulterebbe agevolata dall’accettazione della strategia di Draghi, potrebbe essere raggiunta aggiungendo alla democrazia nazionale il livello più alto della piena democrazia europea.
Con l’avvertenza che la democrazia europea si renderebbe anche necessaria per controllare l’impiego delle politiche di bilancio gestibili a livello europeo da parte del Parlamento di Strasburgo dotato di nuovi poteri, giusto il noto principio democratico del “No taxation without representation” (Nessuna tassazione senza il consenso dei rappresentanti dei cittadini riuniti in Parlamento).
- Draghi e Hamilton economisti e uomini di Stato
Il percorso pubblico sinora compiuto da Draghi, ne fa un personaggio la cui figura assomiglia sempre più a quella di Alexander Hamilton, uno dei padri fondatori della Federazione statunitense, dopo la fine della guerra di liberazione dalla corona britannica.
Nella sua breve vita, Hamilton svolse funzioni decisive sia sul piano politico, sia sul piano economico all’interno della nascente federazione americana: partecipò attivamente alla trasformazione della debole confederazione iniziale fra le 13 ex colonie inglesi in una compiuta federazione, che sarebbe stata destinare a esercitare una crescente egemonia nei due secoli successivi (il famoso manifest destiny, destino manifesto, degli Usa); e come economista contribuì al rafforzamento dello Stato appena creato con alcune importanti riforme di carattere economico.
Sotto il primo profilo, fu a capo del Partito federalista che si batteva per la nascita e il rafforzamento dello Stato federale, scrivendo, fra le altre cose, più della metà dei Federalist papers finalizzati a facilitare l’approvazione della nuova Costituzione. Sotto il secondo, nella sua qualità di Segretario al Tesoro, fondò la Bank of the United States, la prima versione della Banca centrale Usa, inaugurò una politica commerciale moderatamente protezionista, e introdusse, fra la altre misure, una riforma che investiva una questione di stretta attualità oggi in Europa: sostituì i debiti delle 13 ex colonie con il debito pubblico consolidato dell’intera Federazione, una variante ante litteram della mutualizzazione dei debiti fra i Paesi membri dell’eurozona.
Rispetto a quanto realizzato da Hamilton, Draghi ha effettuato un percorso rovesciato: dapprima, come economista, ha salvato l’euro dalla catastrofe dell’implosione dell’eurozona, e oggi, come politico che si propone di attribuire competenze fiscali all’Unione, contribuendo alla nascita della democrazia e dello Stato federale in Europa, è in procinto di rafforzare ulteriormente la sua statura di uomo di Stato.
Se la sua strategia di contrasto ai costi enormi della pandemia dovesse avere successo, la sua fama iniziale di Hamilton europeo, dopo il salvataggio della moneta unica, ne uscirebbe definitivamente giustificata.
- Considerazioni conclusive
In questa nota abbiamo indagato sulle molteplici implicazioni dell’intervento di Draghi, con il quale si fissano alcuni punti fermi nell’analisi della portata epocale della crisi pandemica che ha colpito il mondo, oltre che l’Europa intera. Nel corso dell’analisi si è scoperto che le sue proposte di contrastare la pesante recessione che risulta necessariamente associata a tale crisi con massicci aumenti della spesa in disavanzo da parte dei governi, e con un conseguente aumento dei debiti pubblici, rappresenta una scelta obbligata.
Ma al di là di ciò, l’intervento, con le sue proposte, partecipa anche al superamento in atto del paradigma neoliberista del funzionamento dell’economia a vantaggio del riemergere del paradigma keynesiano, opportunamente aggiornato.
Inoltre, se gli accenni a una possibile attribuzione di poteri fiscali alla Ue fossero accolti dai governi, potrebbero verificarsi sviluppi di carattere politico in direzione, in un futuro più o meno lontano, della nascita dello Stato europeo. Un elemento che sarebbe necessario anche per superare il possibile contrasto fra regole europee e assetti democratici mediante la piena applicazione di questi ultimi anche al livello dell’Europa.
L’analisi viene conclusa con un confronto fra le azioni condotte o suggerite da Draghi, dal salvataggio dell’euro nel 2012 alla strategia di contrasto alla pandemia oggetto di questa nota, e le azioni in parte analoghe svolte, in una successione rovesciata, da Hamilton durante le fasi della nascita e del consolidamento della Federazione americana. Confronto che autorizza la conclusione che Mario Draghi può a giusto titolo essere considerato come l’Alexander Hamilton d’Europa.
L’ articolo è stato redatto il 13 aprile 2020