Gli strumenti giuridici di contrasto al neofascismo – Carlo Brusco

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Fonte: Adnkronos

I) Esistono in Italia più fonti normative astrattamente e specificamente applicabili ai fenomeni neofascisti che sempre più stanno prendendo piede in Europa e nel nostro paese e occorre quindi esaminarle separatamente sia dal punto di vista della disciplina che dell’applicazione giurisprudenziale.

La prima fonte ha rango costituzionale e riguarda in particolare la ricostituzione del disciolto partito fascista che la disposizione XII delle disposizioni transitorie e finali della Costituzione prende espressamente in considerazione. Questa norma costituzionale – che vieta “la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista” – ha un rilievo importantissimo perché rende inapplicabile nei confronti dei movimenti fascisti la libertà di associazione prevista dall’art. 18 della Costituzione e condiziona significativamente anche la libertà di manifestazione del pensiero (prevista dall’art. 21) quando non sia limitata alla sola espressione delle proprie opinioni (che la Repubblica garantisce anche ai fascisti).

In applicazione della XII disposizione transitoria fu approvata, nel 1952, la cosidetta “legge Scelba” (20 giugno 1952 n. 645). Questa legge precisa (art. 1) che cosa si intende per “riorganizzazione del disciolto partito fascista” che si ha quando un movimento “persegue finalità antidemocratiche proprie del partito fascista, esaltando, minacciando o usando la violenza quale metodo di lotta politica o propugnando la soppressione delle libertà garantite dalla Costituzione……”; la legge prevede pesanti sanzioni penali per chi venga condannato per questo reato e sanzioni di minor gravità per i reati di apologia del fascismo (art. 4) e di manifestazioni fasciste (art. 5).

La seconda fonte normativa trova origine nella legge 13 ottobre 1975 n. 654 (ratifica della convenzione di New York del 7 marzo 1966 contro la discriminazione razziale) e ha trovato compiuta applicazione con la legge 25 giugno 1993 n. 205 (cosidetta legge “Mancino”, che ha convertito il decreto legge 26 aprile 1993 n. 122 contenente misure urgenti in tema di discriminazione razziale, etnica e religiosa, riformulando anche l’art. 3 della legge del 1975).

In sintesi questa normativa punisce chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale, istiga a commettere discriminazioni ecc.; ovvero organizza movimenti che hanno tra i loro scopi quelli indicati o partecipa ad essi.

 

  1. II) Naturalmente i temi che queste normative trattano si sovrappongono spesso e frequentemente si è posto il problema di verificare quale fosse la normativa applicabile nel caso specifico. Un criterio utile per verificare quale sia la norma in concreto applicabile è stato ritenuto quello che fa riferimento allo scopo delle norme ricavabile dal bene protetto da esse: scopo delle norme che, nel caso della legge Scelba è esclusivamente l’antifascismo mentre la legge Mancino tutela i principi costituzionali di tutela dei diritti inviolabili della persona (art. 2), di uguaglianza (art. 3), di adeguamento alle norme di diritto internazionale generalmente riconosciute (artt. 10 e 117).

Non sono frequentissime le applicazioni giurisprudenziali di queste normative ma, prima di esaminarne alcune, è opportuno ricordare che la Corte costituzionale, già nel 1957 e nel 1958 (con le sentenze 16 gennaio 1957 n. 1 e 25 novembre 1958 n. 74) ha dichiarato infondate le questioni di legittimità costituzionale della legge Scelba con riferimento agli artt. 4 e 5 (apologia del fascismo e manifestazioni fasciste) ma con argomentazioni di carattere generale che riguardano l’intero impianto della legge. Entrambe le sentenze (non ne esistono di più recenti) fondano la loro decisione sul testo della XII disposizione transitoria e ritengono che – per ritenere la possibilità di sanzionare penalmente le condotte vietate – occorre che tali condotte creino un pericolo di riorganizzazione del partito fascista.

La sentenza n. 1/1957, con riferimento all’apologia di fascismo (art. 4), ritiene che non sia sufficiente “una difesa elogiativa” del regime ma che debba trattarsi di “una esaltazione tale da potere condurre alla riorganizzazione del partito fascista”. La sentenza n. 74/1958, che ha esaminato il problema in relazione alle “manifestazioni fasciste” (art. 5), ha affermato analoghi principi ma precisando la legittimità costituzionale non solo delle sanzioni penali che prendono in considerazione “soltanto gli atti finali e conclusivi della riorganizzazione” bensì anche di “quelli idonei a creare un effettivo pericolo” di tale riorganizzazione.

Insomma, per sintetizzare: non è sufficiente che le condotte pongano in essere attività astrattamente qualificabili come “apologia di fascismo” e “manifestazioni fasciste” ma è necessario che il fatto “deve trovare nel momento e nell’ambiente in cui è compiuto circostanze tali da renderlo idoneo a provocare adesione e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste”.

La legge “Mancino” non è stata mai esaminata dal giudice delle leggi perché le relative questioni di costituzionalità sono state sempre ritenute manifestamente infondate dai giudici di merito e di legittimità che le hanno esaminate.

 

III) Tra le decisioni della Corte di cassazione – che hanno affrontato i temi più rilevanti di questo corpo di norme introdotte al fine di affrontare sul piano penale le forme organizzate di tipo fascista o dirette alla discriminazione razziale – mi sembra opportuno segnalare le seguenti.

La sentenza sez. V, 24 gennaio 2001 n. 31655, Gariglio, è importante perché affronta per la prima volta la questione di legittimità costituzionale della legge “Mancino” rilevando come questa normativa non violi il diritto di associazione garantito dalla Costituzione perché i divieti stabiliti dalla legge sono strumentali al fine di evitare che l’incitamento alla discriminazione e alla violenza comprimano, nei confronti di altre persone, il libero esercizio dei diritti civili. Neppure può ritenersi violato il diritto di liberamente manifestare il proprio pensiero perché la condotta di istigazione realizza qualcosa di più rispetto alla semplice manifestazione di opinioni.

Altre sentenze della Corte di cassazione si sono occupate dell’inquadramento giuridico delle manifestazioni di natura fascista confermando le sentenze di condanna intervenute in questi processi. Possono ricordarsi: la sentenza sez. III 10 luglio 2007 n. 37390, imp. Sposato (relativa al caso di una bandiera esposta durante una partita di calcio e portante al centro l’immagine del fascio littorio) che ha ritenuto integrato il reato previsto dall’art. 2 comma 1 della legge Mancino; la sentenza sez. I, 25 marzo 2014 n. 37577, imp. Bonazza e altro (relativa al saluto romano e all’uso della parola “presente” urlata in coro nel corso di una manifestazione di “Casapound”).

In questo caso era stata contestata l’ipotesi prevista dall’art. 5 della legge Scelba (manifestazioni fasciste) e la Corte ha confermato la condanna degli imputati precisando che “non è la manifestazione esteriore in quanto tale ad essere oggetto di incriminazione, bensì il suo venire in essere in condizioni di ‘pubblicità’ tali da rappresentare un concreto tentativo di raccogliere adesioni ad un progetto di ricostituzione, il che esclude ogni contrasto con gli invocati parametri costituzionali”. Questa interpretazione è risalente perché già nel 1982 (sentenza sez. I, 4 ottobre 1982 n. 11943, Loi) la Cassazione si era pronunziata in senso analogo in relazione ad una manifestazione di imputati che, dopo la lettura della sentenza di condanna, avevano fatto il saluto romano pronunziando più volte le parole “sieg heil”.

Non è una giurisprudenza univoca. Più recentemente la prima sezione della Cassazione ha pronunziato una sentenza (2 marzo 2016 n. 11038, Goglio) che, anche se lo nega, si pone in netto contrasto con la citata sentenza Bonazza perché, a fronte di manifestazioni identiche (saluti romani, “chiamate al presente”, esposizione di croci celtiche) ritiene invece che non possa ritenersi l’ipotesi criminosa contestata (in quel caso l’art. 5 legge Scelba modificata dall’art. 11 della l. 152/1975) perché non diretta alla ricostituzione del partito fascista.

Nella giurisprudenza di merito è da segnalare la sentenza Trib. Milano 21 febbraio 2008 n. 13682 per l’accuratezza con cui ha distinto – all’interno di imputazioni relative a varie condotte svoltesi in una manifestazione del M.S. Fiamma Tricolore – i gesti, le frasi e i cori meramente “nostalgici”, ma privi di pericolosità, dalle condotte ritenute invece penalmente rilevanti perché idonee ad istigare alla ricostituzione del partito fascista.

E’ da rilevare che il “saluto fascista” è stato, dalla Cassazione, ritenuto integrare l’ipotesi di reato prevista dalla l. 205/1993 (legge Mancino) perché diretto a favorire la diffusione di idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale (in questo senso v. Cass., sez. I, 4 marzo 2009 n. 25184, Saccardi).

 

  1. IV) Di grandissimo interesse – perché dimostra come la normativa sanzionatoria vigente non abbia lacune riferibili alla nuove forme di comunicazione – è poi la sentenza della terza sezione 24 aprile 2013 n. 33179, imp. Scarpino, che ha affrontato, in sede cautelare, il tema della diffusione “on line”, tramite un blog, di incitamenti alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici e religiosi. In questo caso era stata contestata l’ipotesi di reato prevista dall’art. 3 della l. 654 del 1975 (modificata dall’art. 1 della legge Mancino).

L’interesse particolare di questa sentenza è costituito dalla circostanza che la propaganda razzista era svolta, in questo caso, esclusivamente tramite l’uso del blog. Il problema di maggiore complessità era dunque costituito dal problema relativo alla possibilità di ritenere esistente l’organizzazione o il movimento sanzionati dalla legge del 1975.

Ebbene la Cassazione perviene all’affermazione dell’esistenza di questo apparato organizzativo ravvisandolo nella comunità virtuale operante via internet perché destinata: a tenere i contatti tra gli aderenti; a compiere opera di proselitismo con la diffusione di documenti e testi a contenuto razzista; a programmare azioni dimostrative o violente aventi contenuto razzista; alla raccolta di fondi ed elargizioni; all’individuazione degli avversari individuati in coloro che “avevano operato a favore dell’uguaglianza e dell’integrazione degli immigrati”.

Non si tratta di un orientamento del tutto innovativo perché già nel 2008 (sentenza sez. III, 7 maggio 2008 n. 37581, Mereu) la Corte di cassazione aveva confermato la sentenza di condanna (questa volta per il reato di cui all’art. 3 l. 13 ottobre 1975 n. 654) per aver diffuso, tramite internet, idee fondate sull’odio razziale o etnico e sulla discriminazione per motivi etnici e religiosi nei confronti della razza ebraica.

 

  1. V) Non è da dimenticare che esistono altri strumenti normativi di contrasto delle manifestazioni fasciste che possono essere utilizzati in determinati contesti. Ricordo, per es., che è stato ritenuto esistente il reato di cui all’art. 2 bis d.l. 8 febbraio 2007 n. 8 (convertito nella l. 4 aprile 2007 n. 41) – che prevede, nelle manifestazioni sportive, il divieto di striscioni e cartelli incitanti alla violenza o recanti ingiurie o minacce – nel caso di uno striscione che conteneva la data del 25 aprile con un segno di cancellatura (v. Cass., sez. III, 7 aprile 2016 n. 1766, Brigidini).

Ed è da ricordare che la giurisprudenza di merito è ben attenta a evitare di sovrapporre il tema del razzismo – ed in particolare dell’antisemitismo – a quello della critica, anche durissima, alle scelte politiche dello stato di Israele. Si veda in proposito la recente sentenza del Tribunale di Vercelli 24 maggio 2017 che ha assolto due attivisti di un’area antagonista – che avevano apposto un drappo alla locale sinagoga con la seguente scritta “stop bombing Gaza Israele assassini free Palestine” – ai quali era stato contestata l’ipotesi di reato prevista dall’art. 3 comma 1 lett. a della legge Mancino (propaganda di “idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico”).

 

  1. VI) Com’è noto di recente la Camera dei Deputati ha approvato, in prima lettura, un disegno di legge di cui è primo firmatario l’on. Fiano.

Il disegno di legge è volto ad inserire nel codice penale il nuovo art. 293 bis che prevede la pena della reclusione, da sei mesi a due anni, nei confronti di chi “propaganda le immagini o i contenuti propri del partito fascista o del partito nazionalsocialista tedesco, ovvero delle relative ideologie, anche solo attraverso la produzione, distribuzione, diffusione o vendita di beni raffiguranti persone, immagini o simboli a essi chiaramente riferiti, ovvero ne richiama pubblicamente la simbologia o la gestualità”.

Devo dire che, pur condividendo le finalità del disegno di legge, ho il timore che i promotori di questa iniziativa legislativa non si siano posto alcuno dei problemi sollevati dalla giurisprudenza ordinaria e della Corte costituzionale sui temi ai quali abbiamo in precedenza accennato.

In particolare va rilevato che l’esclusivo riferimento al fascismo e al nazismo, che la proposta contiene, finisce paradossalmente per rafforzare eventuali questioni di costituzionalità per violazione degli articoli della Costituzione che tutelano le libertà di manifestazione del pensiero e di associazione. Si è visto che le norme contenute nella legge Scelba hanno superato questo esame perché sono stati sanzionati penalmente comportamenti che comportavano il pericolo – in base alle sentenze citate – della riorganizzazione del disciolto partito fascista. E’ solo questa finalità che consente di dare una legittimazione costituzionale, in base alla XII disposizione transitoria, alla compressione di diritti costituzionalmente garantiti.

Le decisioni dei giudici di merito che hanno ritenuto manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale, sollevate in riferimento alla legge Mancino, hanno anch’esse trovato un fondamento costituzionale ritenendo che la limitazione di alcuni diritti fosse giustificata perché volta a salvaguardare diritti e libertà ugualmente garantite dalla Costituzione. Ciò vale sicuramente per discriminazione, odio o violenza razziale – il cui contrasto trova un sicuro fondamento costituzionale in vari articoli della Costituzione già in precedenza citati (2, 3, 10, 117; ma altri se ne potrebbero aggiungere) – mentre è meno sicuro che possa valere per condotte che si limitino, per esempio, alla vendita di immagini o riproduzioni del duce, sempre che non si inseriscano in una più ampia attività riconducibile a quella sanzionata dalla legge Scelba.

Tra l’altro ben maggiore efficacia potrebbero avere sanzioni di natura amministrativa (per es., nei confronti dei titolari di pubblici esercizi, la sospensione o revoca, nel caso di recidiva, della licenza) che potrebbero avere immediata efficacia senza attendere i tempi che sappiano lunghissimi del processo penale.

E per altre ipotesi potrebbero essere previste misure sanzionatorie di natura amministrativa quali quelle già previste dalla legge Mancino ma collegate ad una consumazione di reato. Così come sarebbe auspicabile l’introduzione di un obbligo, per i providers, di controllare che non si verifichi l’immissione in rete di contenuti palesemente razzisti o di propaganda e istigazione alla discriminazione e alla violenza.

 

L’autore è stato presidente di sezione della Corte di Cassazione.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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