Quando, come è successo a Como, squadre di giovanotti fanno irruzione nella riunione pacifica di un’associazione di volontari, che si occupano di migranti, per testimoniare la loro ostilità agli “invasori” e a coloro che li accolgono, non c’è dubbio che un certo allarme sia giustificato. L’etichetta di “fascisti” o quantomeno di “nostalgici” è una reazione spontanea, ma forse troppo superficiale.
Mi immagino (non ne ho incontrati personalmente) che questi “cattivi ragazzi” non sappiano neppure che cosa sia stato il fascismo. E’ molto probabile che nessuno abbia cercato di insegnarglielo. Si sono appropriati di alcuni simboli e di alcune pratiche di violenza che avevano segnato l’ascesa e il dominio del regime fascista e hanno visto che il loro uso suscita reazioni di scandalo tra i benpensanti di una società che loro non amano e dalla quale si sentono esclusi. Da qui le azioni che suscitano clamore e sdegno nell’establishment, si dimostrano ai loro occhi efficaci per marcare simbolicamente la loro estraneità e la loro opposizione.
Questi fenomeni vanno arginati (qualcuno direbbe, repressi), tuttavia è più saggio considerarli dei sintomi di una malattia che ha radici lontane, piuttosto che la malattia in sé. Viviamo infatti in una situazione storica che ha qualche (solo qualche) analogia con quella che ha visto l’emergere dei movimenti fascisti quasi un secolo fa. I tratti della crisi sono sotto gli occhi di tutti: l’affermazione di una globalizzazione sregolata che sfugge al controllo di qualsiasi potere pubblico, un mondo nel quale non si è consolidato un equilibro multipolare, flussi migratori che appaiono incontrollabili, la crisi probabilmente irreversibile dei partiti politici tradizionali, l’aumento delle disuguaglianze e della povertà e, almeno nell’Europa meridionale, una disoccupazione giovanile di proporzioni allarmanti, nonché una sfiducia generalizzata verso le classi dirigenti e la classe politica in particolare. Disoccupazione e sfiducia erano anche allora, negli anni ‘20 in Italia e più tardi in Germania e un po’ in tutt’Europa, tratti della situazione che ha generato i fascismi.
Anche oggi la malattia non è solo italiana e, il fenomeno Trump insegna, non solo europea. Ma in Italia, per la debolezza intrinseca della società civile e per la fragilità del sistema politico, i sintomi sono forse più evidenti. La storia non si ripete, ma quando l’impianto istituzionale e morale di una società scricchiola non deve sorprendere se si accendono qua e là fiammate di intolleranza e di violenza. Quando c’è della gente che soffre e quando molti hanno paura l’invocazione dell’autorità, del pugno di ferro e la caccia al capro espiatorio di turno (questa volta è islamico) sono fenomeni da mettere in conto. In queste circostanze, la minoranza, presente un po’ ovunque, di coloro che provano gusto a usare la forza (soprattutto nei confronti dei più deboli) si fa avanti.
Che fare? Intimidazione e violenza vanno puniti. Mettere al bando, legalmente e politicamente, gruppi e formazioni estremiste è probabilmente necessario, ma non sufficiente. Bisogna rafforzare gli anticorpi nella società, gli unici che possono arginare il fenomeno e mantenerlo nella marginalità. Bisogna dare spazio e dignità all’educazione civile, dei giovani e, soprattutto, degli insegnanti. Non dico ri-dare spazio, perché, per una serie di ragioni, l’educazione civile non ha mai ricevuto seria attenzione da parte della cultura italiana.
Ma l’educazione può essere solo un aspetto di un movimento che voglia ridare senso alla politica e quindi anche speranza ai giovani. Per ora, nel desolante panorama della politica, sembra che solo Macron sia riuscito ad aprire uno spiraglio di speranza e di visione, capace di togliere ossigeno ai fermenti di inquietudine e di violenza nei quali ricercano invano un senso decine di giovani.