La falsa emergenza e i veri invasori – di Marco Minniti

pubblichiamo ampi stralci di un saggio che l’ex Ministro dell’Interno ha scritto per il quotidiano “Il Foglio” del 2 luglio

La prima cosa da capire è che l’immigrazione non è un’emergenza. È un problema, certo, che non solo l’Italia e l’Europa ma il mondo intero si trovano ad affrontare ciclicamente assieme ad altre questioni anche più drammatiche o a dossier per così dire di ordinaria amministrazione: le guerre, la povertà, il debito, i dazi.  Ma emergenza no, lo nego. Eppure proprio sull’immigrazione in Europa i nodi sono arrivati al pettine, e resta a rischio di una crisi nell’Unione Europea nel suo complesso e nei singoli Paesi a cominciare dalla Germania, fino a ieri simbolo di stabilità.

[…]

Dunque il cuore della questione è che si è ormai accettata, anche nella comunicazione che su questo argomento gioca un ruolo chiave, l’equazione tra la parola immigrazione e la parola, appunto, emergenza. Fateci caso: nei sottopancia dei TG scorre sempre il titolo “emergenza immigrazione”: magari anche quando segue una buona notizia, o una notizia di routine. È stato l’approccio più drammatico e sbagliato: perché, ripeto, l’immigrazione non è un’emergenza. È un fenomeno epocale che nella storia ha accompagnato tutto il mondo, non solo l’Italia e l’Europa. Il messaggio dell’emergenza è non solo sbagliato ma devastante, in quanto evoca al massimo di ansia in chi ascolta, e chi ascolta si sente a sua volta messo in pericolo nelle sue condizioni di vita. E poi perché se è emergenza, la conseguenza ovvia è che va affrontata immediatamente, magari senza riflettere troppo, e con strumenti straordinari.

Secondo punto: l’emergenza trasmette l’idea che si tratta di un fenomeno congiunturale, di questo momento, che quindi va affrontato (neppure risolto) a tamburo. […] Ma se il fenomeno, come io credo, è invece non una congiuntura straordinaria e immediata, ma una grande questione strutturale e dunque complessa, allora non lo si affronta con strumenti di emergenza, ma con misure altrettanto strutturali.

Questo riguarda l’Europa continentale, l’Italia, ma anche altre parti del mondo. Basta pensare a come la percezione dell’emergenza-immigrazione ha determinato la Brexit e influito sull’elezione di Donald Trump. In questa situazione non basta dare la colpa a chi ora grida di più. La sinistra riformista italiana ed europea ha capito tardi che si giocava una partita cruciale del rapporto con gli elettori. Non ha visto che la parte più esposta al messaggio non era nei centri storici, benestanti e istruiti delle città, ma nelle periferie. Non sono in Italia, ovvio.

Si doveva parlare un linguaggio di verità, ma che a sua volta avesse un prerequisito: capire che le società moderne sono attraversate da due sentimenti. Il primo sentimento è la rabbia, il secondo è la paura. E rabbia e paura investono la realtà dei più deboli. Una sinistra moderna non può rompere un canale, diciamo, sentimentale con coloro che provano rabbia e con coloro che provano paura. Se non li ascolta la sinistra, chi lo fa? A chi prova rabbia per la sua situazione economica e sociale, non puoi rispondere con la freddezza delle cifre. […] Quanto poi alla paura, è un sentimento molto profondo, talmente profondo che chi ha paura, a volte, non riesce neppure a confessarlo alle persone più vicine, e se l’approccio della sinistra è una sorta di superiorità morale, quasi di biasimo che a livello subliminale dice che chi ha rabbia e paura si fa strumentalizzare dal nemico, e a quel punto si alza un muro.

[…] Questa sull’immigrazione è la differenza tra un progetto riformista è un progetto nazional-populista. Quando sono divenuto ministro dell’Interno, nel dicembre 2016, ho cercato di fare quel che va fatto in una grande democrazia: nella quale non si può promettere che l’immigrazione verrà cancellata, è impossibile e neppure auspicabile se non altro per i nostri evidenti squilibri demografici. Però una democrazia ha il dovere di governare i flussi dell’immigrazione, gestire un elemento strutturale della vita del pianeta facendo appunto capire che non è un’emergenza, che ci sono due principi che in ogni democrazia, anzi in ogni persona, devono e possono convivere: il principio di accoglienza e il principio di sicurezza. Oscilliamo tra questi valori: umanità e sicurezza, libertà e sicurezza.

I nazional populisti dicono: o prendi l’una o prendi l’altra. Se scegli la sicurezza, non c’è accoglienza che tiene. Non c’è umanità. E inoltre se scegli la sicurezza, allora rinunci a un pezzo delle tue libertà. Ma così metti in discussione i valori fondativi delle nostre democrazie. Si può scendere nel dettaglio delle varie proposte, ma ciò che intanto viene fuori da questo nuovo governo italiano nazional-populista è un’idea di società chiusa. […]

Ma che in Europa si affermi e si allarghi l’idea di una società chiusa allude un drammatico salto nel buio. Un baratro, che ci porta dove l’Europa negli ultimi settant’anni ha consentito che non si andasse più. L’integrazione è cruciale. Nelle società moderne lo sarà sempre di più. […]

Semplicemente si preferisce girare la testa dall’altra parte, scaricare il fardello sugli altri, scegliere la politica dei simboli e non della responsabilità. La società chiusa. Se questo è il quadro generale, pratico e di valori, sia sul fronte dei flussi sia su quello dell’accoglienza, le conseguenze pratiche a breve sono, intanto, che rischiamo di giocarci il Trattato di Schengen che dal 1990 consente a noi europei la libera circolazione di persone e merci in base alla apertura delle frontiere. È un pericolo non dico imminente, ma immanente. Non so se abbiamo idea di cosa ci sia in ballo: senza circolazione di persone e merci non solo non c’è più Europa, ma è anche un ritorno all’epoca dei nazionalismi contrapposti.

Se ognuno chiude le sue frontiere, poi, in un clima di generale ripresa dei nazionalismi, avremo una gigantesca contraddizione. E cioè che il nazionalismo di ogni singolo paese è, per sua natura, del tutto alieno dalla possibilità di costruire alleanze con chiunque abbia la stessa vocazione. Ed è il paradosso nel quale si trova il nazional-populismo italiano: l’idea di stabilire un’alleanza strategica con altri paesi che condividono il medesimo ideale antico di supremazia nazionale, impedisce di per sé l’alleanza stessa. Ogni nazione alza il proprio confine contrapposto al tuo. Quel confine diventa un elemento identitario, ma anche insuperabile nella pratica, di assoluta incomunicabilità. Ecco: i problemi veri, al di là delle polemiche contingenti, non li abbiamo con la Francia ma più ancora li abbiamo e li avremo con l’Austria e con il blocco di Visegrad, cioè Ungheria, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia.  Dunque si può avere quanto si vuole una stessa condivisione ideologica del destino sovrano, ma poi arriva il problema: si chiude o non si chiude il confine del Brennero? E se la soluzione viene affidata all’ideologia, il confine si chiuderà. E questo è, oltre al resto, un drammatico danno per l’Italia. L’inizio di molti drammatici danni. Esattamente questi sono secondo me il limite e gli errori di queste settimane.

Il nazional populismo avrà come esito due questioni. La prima, è che quel modello è destabilizzante in radice per l’Europa. Ecco il cuore della faccenda: l’Italia senza l’Europa o separata dall’Europa è più debole e più fragile. Le regioni governate dalla Lega, che basano sull’Europa e quindi sull’euro, i loro commerci e la loro ricchezza, lo sanno perfettamente. Seconda questione: se si guarda alla discussione di questo mese di giugno, e poi si torna alla discussione del giugno 2017, troviamo un’impressionante identità di polemiche. Si parla di ondate di migranti, di chiusura di porti, delle ONG, del Trattato di Dublino. Si parla delle difficoltà dell’Europa di farsi carico di tutto questo. C’è una piccola differenza, però. Nel giugno 2017 questa discussione avveniva con l’80 per cento di sbarchi in più […]. A giugno 2017 accadde che in 36 ore arrivarono in Italia ventisei navi: 13.500 persone contemporaneamente. Ma ora sembra che qualcuno abbia riportato l’orologio indietro. In questi dodici mesi, l’Italia aveva fatto un’operazione politica straordinaria: avevamo trasformato la questione dell’immigrazione da elemento che rischiava di far implodere l’Europa a questione tra Europa e Africa. Insomma, nell’ultimo anno il problema era stato non “che fa l’Europa nei propri confini”, ma “che fa l’Europa nel rapporto con l’Africa”, dunque fuori dei suoi confini esterni.

Nell’ultimo mese abbiamo al contrario riportato il problema dentro l’Europa. Esclusivamente dentro l’Europa. Questo è il secondo errore strategico. L’immigrazione si governa se è al centro di un nuovo rapporto tra Europa ed Africa. […] L’Europa doveva comprendere che investire in Africa non significa solo aiutare l’Africa, ma aiutare l’Europa. Se questo era, ed è, il nocciolo della questione, un anno fa l’Italia poteva tranquillamente dire e chiedere di fare di più, e avremmo avuto completamente ragione. Ma se ci fossimo limitati a chiedere di fare di più, insomma ad alzare la voce e minacciare, avremmo avuto nell’ultimo anno 120 mila migranti in più. Invece noi siamo andati oltre, semplicemente siamo andati in Africa. Ed essendo andati dall’altra parte del Mediterraneo, abbiamo impegnato l’Europa a seguirci.

Seconda direttrice: l’Italia ha ottenuto che le organizzazioni delle Nazioni Unite che si occupano di profughi, Oim e Unhcr, operassero direttamente in Libia. Questa è una differenza fondamentale con l’era Gheddafi. La Libia, infatti, non ha mai consentito queste presenze. Così come non ha mai firmato la convenzione di Ginevra del 1951: sono passati 67 anni, a Tripoli si sono succeduti regni, governi, dittature, regimi. Abbiamo avuto momenti di tensione e di collaborazione, ma mai la Libia ha firmato. La realtà di oggi è che in questo momento sono presenti a Tripoli l’Organizzazione mondiale dell’immigrazione, le Nazioni unite, le organizzazioni non governative italiane. Non è solo apparenza: nel momento in cui la Guardia costiera Libica fa un’operazione di salvataggio e recupero, e riporta i migranti sulle loro coste, trova sulla banchina personale internazionale con le pettorine azzurre, come quello presente in ogni paese occidentale, porti italiani compresi. Tutto questo fino a dieci mesi fa era inimmaginabile in Libia. […] A questo punto ci si potrà chiedere se le Nazioni unite facciano già il loro lavoro in Libia, o se si tratti ancora di diplomazia scritta sulla sabbia. È legittimo. Allora è bene sapere che lo Unhcr ha finora selezionato 1500 persone con diritto di asilo, e 300 di queste sono state accompagnate in Italia. Come? In aereo. Con voli militari, attraverso corridoi umanitari insieme alla Conferenza Episcopale italiana. Il primo corridoio umanitario della storia tra Tripoli, Roma e l’Europa.

Insomma: un altro tipo di migrazione, un altro tipo di accoglienza, è possibile. In Libia si è costruito un modello tra noi, loro e le Nazioni unite. Chi ha diritto alla protezione internazionale viene da noi, e lo portano i nostri militari, non gli scafisti. Come è giusto che sia. Scappano da una guerra, e quindi sono assistiti da personale ufficiale, non in mano a trafficanti. Chi non ha diritto a partire viene rimandato dalla Libia al paese di origine con rimpatri volontari assistiti.

[…] Forse è normale chiedersi anche che fine fanno coloro che non hanno diritto all’asilo. E quindi dalla Libia riprendono la rotta verso il sud. I rimpatri volontari assistiti avvengono su base appunto volontaria, e chi aderisce ha diritto a un piccolo budget per rifarsi una vita. Bene, quanti sono stati in un anno questi rimpatri dalla Libia, secondo i dati dell’organizzazione internazionale per la migrazione dell’Onu? 25.000: non c’è nessun paese europeo che abbia effettuato tanti rimpatri in così pochi mesi. Dunque: se questo modello di gestione costruito in Libia funziona nella fragilità del tessuto libico, allora può funzionare in qualunque altro Paese. E comincia a far comprendere che la partita non è su come l’Europa discute di questo, ma su come l’Europa sostiene questo progetto dall’altra parte del Mediterraneo.

E qui viene la terza direttrice. L’Italia ha firmato un accordo con quattordici sindaci delle principali città libiche coinvolte nel traffico di essere umani. L’assunto dell’accordo era semplicissimo: “voi separate i vostri destini dal traffico di esseri umani, disponete piani di sviluppo per le vostre comunità, e l’Italia e l’Europa ve li finanzia”. Questi progetti sono stati raccolti dall’ambasciata italiana, l’Italia ha messo 20 milioni di euro per le prime esigenze di carattere umanitario in questa città, l’Europa ha messo 50 milioni di euro. È un inizio, se vogliamo sostenere questo percorso per cui la cattiva moneta viene scacciata dalla buona moneta, se puntiamo a che il traffico di esseri umani sia schiacciato dagli investimenti: non aiuti, investimenti. […] Ecco le ragioni del rapporto cruciale con l’Africa per sconfiggere l’illegalità, costruire la legalità, non perdere l’umanità. Questo è il cuore della questione. E se lo è, l’intera discussione del cambiamento del Trattato di Dublino –questione sì strategica e fondamentale- appare meno dirompente. Perché appunto la prima urgenza non è ristabilire l’equilibrio dentro l’Europa, ma tra Europa e Africa.

Ma vediamo l’atteggiamento del governo nazional-populista italiano. Chiede di cambiare Dublino, perché ritiene il trattato troppo poco solidale nel rapporto con l’Italia. È vero? Sì, certo. Giova comunque ricordare che quel trattato fu firmato da un governo di centro-destra con primo ministro Silvio Berlusconi, e ministro dell’Interno Roberto Maroni. Ma non voglio impiccarmi al passato, voglio parlare di oggi. E dunque, nel novembre scorso il Parlamento Europeo aveva fatto la sua parte. Dopo anni di paralisi e di blocchi su qualsiasi ipotesi di cambiare il Trattato di Dublino, ha votato a larghissima maggioranza per la sua revisione e soprattutto per modificare il principio chiave del porto di primo arrivo: cioè la camicia di forza che ha sempre inchiodato l’Italia a tenere chiunque sbarcasse nel nostro territorio, con responsabilità oltre ogni limite. Benissimo.

Perché allora il governo italiano non prende in mano la proposta del Parlamento europeo, utilizzandole alla propria maniera sul tavolo negoziale, sapendo che su questo punto c’è una resistenza dei singoli stati membri e del Consiglio europeo, ma che tutti sono contraddetti dall’Europarlamento? L’Italia non rafforzerebbe così la propria posizione? Perché non lo fa? Forse perché nel Parlamento Europeo il Movimento 5 Stelle ha votato contro la modifica dei regolamenti di Dublino? Forse perché la Lega si è astenuta?

Queste sono le contraddizioni dei nazional-populisti. Il governo Lega-Movimento 5 Stelle ha l’interesse e chiede di cambiare Dublino. Il Parlamento Europeo vota una risoluzione che va incontro all’interesse italiano. Ma a Strasburgo i 5 Stelle e la Lega, che sono nei gruppi nazional-populisti, sono stati costretti a votare contro o ad astenersi su ciò che adesso vogliono. E sono stati costretti perché i raggruppamenti nazional-populisti del Parlamento Europeo sono contrari all’assunzione condivisa di responsabilità su chi arriva in Europa. Così come è contrarissimo alla mozione del Parlamento europeo, in quanto contiene la condivisione della responsabilità dei migranti, il gruppo di paesi di Visegrad: che però è il modello di riferimento dei nazional-populisti italiani. Tutto questo sta imprigionando il nostro governo in una gigantesca contraddizione: siamo il paese più esposto, paese che chiede solidarietà, ma contemporaneamente in nome del nazionalismo abbiamo rapporti con chi si oppone ad ogni responsabilità condivisa. Il nazionalismo, giova ricordarlo, si definisce nella diversità e alterità con ogni altra identità nazionale. Così i primi a negarci ciò che chiediamo sono quelli ai quali vogliamo ispirarci ed essere alleati, Ungheria e Austria in testa. Ecco, l’attuale maggioranza si trova prigioniera della sua ideologia. Una contraddizione-capolavoro.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.