Mentre in queste settimane in tutta l’Europa si sta celebrando il “Giorno della memoria” e siamo entrati nell’anno dell’ottantesimo della promulgazione delle leggi razziali in Italia e nel settantesimo dell’entrata in vigore della Carta costituzionale della nostra Repubblica, nel nostro Paese e nell’intero vecchio continente sono tornati ad addensarsi nubi minacciose e spettri inquietanti.
Segnali che da tempo si stanno moltiplicando e diffondendo, di fronte ai quali però, assieme a una grave sottovalutazione, emergono ancor più preoccupanti manifestazioni di indifferenza o peggio di acquiescenza.
I “nuovi fascismi” si presentano sotto varie forme e sigle.
Spesso appaiono più simili a espressioni grottesche e goliardiche fuori dalla storia, che come movimenti in grado di strutturarsi in vere organizzazioni ideologico-politiche e divenire reali minacce per le istituzioni. Ma così, non dimentichiamolo, fu all’inizio anche per il movimento fascista in Italia e quello nazionalsocialista in Germania.
Tuttavia, sebbene quella vicenda si sia sviluppata in un contesto assolutamente diverso, è bene averlo a mente e riflettere su analogie e differenze.
Si tratta, infatti, di fenomeni che, nella loro peculiarità, hanno assunto dimensioni allarmanti nei diversi paesi europei, cresciuti parallelamente a movimenti neopopulisti con i quali condividono una cultura regressiva e oscurantista.
Il denominatore che li accomuna è infatti la xenofobia e il parossismo identitario e nazionalista, che si esprime sempre più nell’avversione agli ideali europeisti e all’idea stessa di democrazia sovranazionale.
Di questa crescente spinta “antisistema” ne sono testimonianza l’esito delle elezioni nei diversi paesi dell’Unione, giocate prevalentemente su una supposta “invasione islamista”.
Ma occorre dire che la vera novità è rappresentata dal “ruolo guida” assunto nel variegato arcipelago populista da una parte delle élite nazionali.
Una sorta di “sovversivismo delle classi dirigenti”, secondo la definizione che ne diede Antonio Gramsci.
La stessa riconferma di Milos Zeman alla presidenza della Repubblica Ceca, rappresenta l’ennesima riprova delle pulsioni illiberali antieuropee, oltre che antieuropeiste, che agitano la parte orientale della Ue.
Zeman non è infatti solo un deciso avversario del processo d’integrazione dell’Unione e delle sue politiche sull’immigrazione, ma è colui che con l’ungherese Orban all’interno del fronte dei paesi del gruppo di Visegrád guarda, non a caso, con più ammirazione alla Russia autoritaria di Putin e all’America del “primatismo bianco” e della reintroduzione dei dazi doganali di Trump.
Come non avvertire, poi, la vera e propria involuzione antidemocratica della Polonia, la sua torsione illiberale, dove è stata votata addirittura una legge che vuole riscrivere la storia dell’Olocausto, imponendo una “verità di Stato” che nasconde risorgenti pulsioni antisemite di evidente stampo ultranazionalistico.
Tuttavia anche nell’Europa occidentale movimenti e partiti populisti ed euroscettici si sono rafforzati, perfino in paesi tradizionalmente europeisti come l’Olanda e la Germania, mentre il caso catalano evidenzia i pericoli disgregativi rappresentati dagli indipendentismi regionali. Tutto ciò però, va sottolineato, è avvenuto anche per la mancanza di una forte risposta delle forze europeiste, le quali spesso hanno addirittura subìto e favorito l’antieuropeismo con politiche di bilancio assurdamente “rigoriste”.
In questo difficile contesto il presidente francese Emmanuel Macron negli ultimi mesi si sta adoperando molto per un deciso rilancio del progetto europeo. Ma questo potrà riprendere vigore solo se la “grande coalizione” di Angela Merkel e Martin Schulz nascerà all’insegna di una nuova politica di sviluppo economico e finanziario comunitario.
L’orizzonte europeo, tuttavia, è il vero banco di prova anche per l’Italia, perché se l’Ue soffrirebbe seriamente da un progressivo allontanamento di uno dei sei paesi fondatori dal “gruppo di testa” che guiderà questo processo di rilancio dell’Unione, il nostro Paese, di contro, pagherebbe prezzi altissimi se da questo gruppo venisse tagliato fuori. E la questione non avrebbe un riverbero solo economico, ma investirebbe ogni sfera della sua vita sociale e civile e il suo ruolo nelle relazioni internazionali.
Infatti, molti sono i temi oggi sul tappeto nell’agenda della Ue: dallo sviluppo di una politica estera e difesa realmente comuni grazie allo strumento delle cooperazioni rafforzate, all’obiettivo del consolidamento di un’Europa sociale, già indicato nella Dichiarazione comune sul pilastro europeo dei diritti sociali dello scorso novembre, sino alla riforma dell’Unione economica e monetaria, richiesta da più parti dopo le criticità emerse nella gestione dell’ultima crisi finanziaria internazionale.
La strada non è semplice, perché, come prima richiamato, le resistenze sono fortissime e per questo, oggi, non è retorico richiamarsi al coraggio dei padri fondatori e alle ragioni storiche che li indussero a compiere quella scelta di straordinaria lungimiranza.
Ciò perché essi e gli uomini dell’antifascismo che animarono la lotta di liberazione seppero avviare la più ardua e complessa impresa democratica e di pace che ha visto protagonisti quei popoli che per secoli si sono sanguinosamente combattuti.
Ancora oggi, dunque, dobbiamo fare appello al loro lascito e al pensiero di personalità come Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi che dal confino di Ventotene, nei primi mesi del 1941, quando le truppe tedesche stavano dilagando in Europa e né l’Unione Sovietica né gli Stati Uniti erano ancora entrati in guerra contro Hitler, indicarono la strada della federazione europea come presupposto per la rinascita civile del vecchio continente, capace di far coesistere e convivere storie, culture e identità diverse, per la definizione di un nuovo patto sociale in grado di garantire libertà e uguaglianza.
Spinelli sapeva che la battaglia per l’Europa non sarebbe stata facile perché molteplici erano gli interessi materiali legati ai vecchi Stati nazionali, ma spronava tutti a non commettere i gravi errori che nel primo dopoguerra favorirono l’ascesa dei regimi totalitari nazifascisti.
Pur in un contesto storico radicalmente mutato, dunque, questa preziosa eredità morale deve oggi essere ricordata per riaffermare l’impegno europeo, per evitare pericolose derive nazionaliste.
Solo così, con questa consapevolezza, io credo, il “Giorno della memoria”, le ragioni per cui lo celebriamo potranno significare concretamente un no coerente e forte affinché quelle tragedie non si ripetano mai più! Perché quella memoria divenga progetto di futuro fondato sulla dignità della persona e sullo stato di diritto.