di Guido Levi
“La storia è un bene comune. La sua conoscenza è un principio di democrazia e di uguaglianza tra i cittadini. È un sapere critico non uniforme, non omogeneo, che rifiuta il conformismo e vive nel dialogo. Lo storico ha le proprie idee politiche ma deve sottoporle alle prove dei documenti e del dibattito, confrontandole con le idee altrui e impegnandosi nella loro diffusione”, scrivevano Andrea Camilleri, Andrea Giardina e Liliana Segre un anno fa in apertura di un fortunato appello in risposta all’allora ministro dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, Marco Bussetti, che aveva cancellato di punto in bianco la traccia di storia dalla prova scritta dall’esame di maturità.
L’appello, che reca la data non certo casuale del 25 aprile 2019, evidenziava non solo la tradizionale funzione ascritta alla storia di favorire la comprensione del presente attraverso la conoscenza del passato, ma sottolineava anche il ruolo che la storia riveste nella formazione delle persone e dei cittadini, nonché l’importanza che essa assume nella definizione delle identità collettive. Per gli estensori del documento la storia non poteva perciò essere trattata come una disciplina tra le tante, come uno dei diversi campi del multiforme sapere specialistico, ma andava viceversa valorizzata proprio in virtù di queste sue caratteristiche più generali, per la sua natura intrinseca di fondamento della cultura degli individui e dei gruppi sociali, per la sua trasversalità, per il suo significato di punto di raccordo nelle plurali articolazioni dello scibile umano (umanistico, ma in realtà non solo umanistico, per l’interdipendenza esistente tra le discipline, incluse quelle di carattere scientifico).
Evidentemente queste preoccupazioni erano sentite anche da ampi settori della società, se è vero che l’appello nel giro di poche settimane era stato sottoscritto da migliaia e migliaia di cittadini (in età pre-Covid19 avremmo usato l’aggettivo virale, che oggi suonerebbe quantomeno di cattivo gusto, per enfatizzarne la diffusione sul web), che si riconobbero nelle proposte di rafforzare l’insegnamento della storia nella scuola e nelle università, di finanziare adeguatamente la ricerca accademica e il reclutamento degli studiosi, di sostenere le istituzioni culturali del Paese.
Nell’immediato, in occasione cioè della ricorrenza del 25 aprile, si trattava soprattutto di individuare un antidoto per contrastare quell’insieme di fake news storiche che sul web prendono la forma di revisionismi razzisti, di improbabili teorie complottistiche, di negazionismi fomentatori di odio, e che varrebbe la pena di ignorare se proprio il passato non ci avesse purtroppo insegnato che esse sono state alla base di persecuzioni, revanscismi e fanatismi di varia natura, e che la violenza verbale è spesso l’anticamera della violenza fisica.
Ma l’appello sulla storia bene comune ha avuto il merito di andare oltre quella pur nobile esigenza contingente, aprendo di fatto un dibattito sulla memoria, sul significato della storia, sulla metodologia della ricerca, sui modi in cui viene trasmessa la conoscenza del passato, sul suo uso pubblico da parte del potere; un dibattito aperto, libero, trasparente, come da tanti anni non accadeva più. Alla comunità degli storici si è presentata pertanto una grande occasione per riflettere su tutte queste questioni non nei recinti angusti dei seminari per addetti ai lavori e dei convegni per specialisti, ma di fronte a una ben più vasta platea, quella sella società civile, una platea peraltro sensibile, partecipe e consapevole della posta in gioco. Si capì subito che sarebbe risultata un’occasione davvero fruttuosa se fossero state affrontate anche le criticità esistenti, non tanto nella ricerca quanto nella trasmissione delle conoscenze: basti pensare, lo scrivo senza pregiudizio alcuno, che negli ultimi anni i “best sellers” storici sono stati quasi tutti pubblicati da giornalisti e non da storici di professione!
Dietro questo rinnovato interesse per la storia nella società vi erano probabilmente ragioni profonde che è difficile sintetizzare, ma che, semplificando molto l’assunto, credo siano in linea di massima riconducibili alla necessità di ridefinire quel tradizionale spazio di appartenenza messo in discussione dalla globalizzazione, dalla crisi delle ideologie, dal trionfo dell’individualismo. Questo si riverbera ad esempio nel successo di trasmissioni televisive che approfondiscono alcuni momenti del nostro passato, nella diffusione di canali tematici interamente ad esso dedicati, nell’interesse del cinema per soggetti di ambientazione storica, nel frequente confronto tra ieri e oggi che informa ad esempio il dibattito politico almeno nelle sue espressioni più colte e competenti.
Di fronte a questa reazione, a ottobre 2019 il nuovo ministro Lorenzo Fioramonti ha effettivamente reintrodotto la storia nelle prove scritte della maturità, e il suo successore, la ministra dell’Istruzione Lucia Azzolina, si è impegnata a valorizzare la materia nei programmi d’insegnamento, ma a questo punto la questione aveva ormai assunto dimensioni più grandi e di ordine più generale. Era evidente infatti che le trasformazioni in atto nella società inducevano non solo a rivisitare il passato alla luce di questi radicali cambiamenti, ma anche a ricercare nella storia quei punti di riferimento, quegli ancoraggi che sono andati perduti e che sono però necessari perché conferiscono un senso alla vita collettiva. Non a caso in Italia l’attenzione veniva focalizzata su alcuni grandi snodi della storia nazionale: dal fascismo alla Seconda guerra mondiale, dalla Resistenza alla Ricostruzione, dagli anni Settanta al passaggio tra Prima e Seconda Repubblica.
E non si trattava solo di una questione italiana, bensì di una problematica comune anche ad altri Stati europei, come ad esempio alla Spagna, Paese costretto a fare i conti con l’annoso problema dei nazionalismi regionali, ma anche con le spoglie ingombranti del dittatore Franco e con la scomoda eredità del complesso monumentale della Valle de los Caídos. E poi questa esigenza è stata avvertita anche dall’Unione europea, che non può vantare le nobili origini plurisecolari degli Stati nazionali, ma che rappresenta comunque il punto di arrivo di quella storia, oltre che una risposta razionale alle contraddizioni sfociate in due guerre mondiali fratricide.
Il 19 settembre 2019 il Parlamento europeo ha infatti approvato una risoluzione sull’importanza della memoria europea per il futuro dell’Europa, in occasione dell’ottantesimo anniversario del patto Molotov-Ribbentrop e dello scoppio della Seconda guerra mondiale, “il conflitto più devastante della storia d’Europa”. La finalità dichiarata era quella di affermare “una cultura della memoria condivisa, che respinga i crimini dei regimi fascisti e stalinisti e di altri regimi totalitari e autoritari del passato come modalità per promuovere la resilienza alle moderne minacce alla democrazia, in particolare tra le generazioni più giovani” e di incoraggiare “gli Stati membri a promuovere l’istruzione attraverso la cultura tradizionale sulla diversità della nostra società e sulla nostra storia comune, compresa l’istruzione in merito alle atrocità della Seconda guerra mondiale, come l’Olocausto, e alla sistematica disumanizzazione delle sue vittime nell’arco di alcuni anni”. E in un successivo passaggio veniva ulteriormente ribadito che il tragico passato dell’Europa avrebbe dovuto “continuare a fungere da ispirazione morale e politica per far fronte alle sfide del mondo odierno, come la lotta per un mondo più equo e la creazione di società aperte e tolleranti e di comunità che accolgano le minoranze etniche, religiose e sessuali, facendo in modo che tutti possano riconoscersi nei valori europei”.
La risoluzione rappresenta tuttavia un documento “sgangherato”, zeppo di inesattezze storiche e connotato da pericolose forzature ideologiche. Attribuire all’Unione Sovietica una corresponsabilità nello scoppio della Seconda guerra mondiale al pari della Germania di Hitler, omettendo completamente l’enorme tributo di sangue pagato dall’Armata Rossa in un conflitto che ha combattuto a fianco degli Stati Uniti, della Gran Bretagna, delle forze della Resistenza europea e di tutti gli alleati, lascia letteralmente esterrefatti. Così come lascia perplessi, diciamo così, “l’oblio” sulle forme di collaborazionismo filonazista che si manifestarono nell’Europa dell’Est durante la guerra e che oggettivamente assecondarono l’attuazione di politiche di genocidio e sterminio. È vero – come scriveva Renan – che “l’essenza di una nazione risiede nel fatto che tutti i suoi individui hanno molte cose in comune e anche che ne hanno dimenticate altrettante”, ma è altrettanto vero che la UE, che nazione certo non è e tale non potrà mai essere, dovrà battere altre strade per “fare” gli Europei, o almeno questo sarebbe auspicabile.
La memoria, non certo la storia, talvolta gioca brutti scherzi, perché inquinata da risentimenti, intrisa di vecchi rancori. Ma non è questo l’oggetto della riflessione, bensì l’esigenza, presente anche nella giovane Unione Europea, di ricercare nel passato una sorta di legittimazione del presente, che vada cioè al di là dei discorsi sui vantaggi, sulle convenienze, sugli interessi materiali del momento, riallacciandosi così alle motivazioni ideali che da sempre avevano animato i grandi europeisti di Otto e Novecento. Come ricordava pochi anni fa il grande storico inglese Tony Judt “La nuova Europa, tenuta insieme dai segni e dai simboli del suo terribile passato, è un’impresa straordinaria, ma rimane per sempre vincolata da un’ipoteca a questo passato. Se gli europei vogliono davvero mantenere questo legame vitale – se si vuole che il passato dell’Europa continui ad avere un significato di ammonizione e un valore morale – esso dovrà essere insegnato a ogni nuova generazione”.
L’appello di Camilleri, Giardina e Segre compie oggi un anno, e proprio ora, in vista della nuova ricorrenza del 25 Aprile, vale la pena provare a tirare le fila del discorso. Com’è noto Camilleri è scomparso nel luglio del 2019, e ci piace immaginare che proprio alla storia, che egli ben conosceva e tanto amava, avesse dedicato le sue ultime riflessioni. Ma le parole dell’appello restano attuali, come, ad esempio, laddove si ammoniva che “ignorare la nostra storia vuol dire smarrire noi stessi, la nostra nazione, l’Europa e il mondo. Vuol dire vivere ignari in uno spazio fittizio, proprio nel momento in cui i fenomeni di globalizzazione impongono panorami sconfinati alla coscienza e all’azione dei singoli e delle comunità”.
Si potrebbe forse aggiungere che quelle parole risultano perfino ancora più attuali alla luce di un’epidemia che ci ha inaspettatamente proiettato nel passato delle grandi pestilenze, con tutto quanto ne consegue sul piano delle difficoltà, delle incertezze e delle paure, poiché la storia costituisce davvero un punto di riferimento quando viene raccontata senza retorica e quando non viene recepita con pregiudizio, quando si fonda su rigorose ricerche archivistiche, quando lascia parlare soprattutto i fatti, come i grandi film fanno con le immagini e la grande pittura con i colori.
A nostro avviso questi principi devono perciò ispirare anche le celebrazioni dei momenti fondativi della nostra democrazia, e il 25 Aprile, Festa della Liberazione, in primo luogo, perché questa data rappresenta la ricorrenza più importante in assoluto, ossia l’atto finale della guerra scatenata dai fascismi e il punto di partenza della nuova Italia ispirata ai valori della libertà, della democrazia e della giustizia sociale. A questo pensavano gli estensori dell’appello, ed è questo il senso della Storia della resistenza di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli, edita da Laterza a fine 2019 in vista del 75° anniversario della Liberazione, opera in cui gli autori contrappongono il rigore della ricerca alle polemiche pretestuose, la competenza acquisita sul campo alla superficialità delle analisi frettolose, cercando anche di andare oltre i filtri interpretativi del Novecento, e in particolare di quello obsoleto ma ancora prevaricante ereditato dalla guerra fredda.
La storia dialoga con la memoria e con memorie, certo, ma non deve sovrapporsi ad esse. Ed è peraltro ciò che il nostro Istituto ha sempre cercato di fare nello svolgimento delle sue molteplici attività didattiche, istituzionali e di ricerca, e che sta continuando a fare con altre modalità anche in questo difficile momento – come ha del resto ricordato il presidente Ronzitti negli ultimi numeri de “La Rete delle Idee” – ed è ciò che da sempre orienta la nostra rivista “Storia e Memoria”.
Il tutto nel contesto dell’epidemia di coronavirus, che nell’isolarci socialmente, ci sospinge inevitabilmente alla riflessione, sul presente così come sul passato, anche se non sempre a una riflessione serena…
L’ articolo è stato redatto il 21 aprile 2020