L’Europa ai tempi della grande pandemia

di Guido Levi

Anche la pandemia di coronavirus Covid-19, che è globale ma che in questo momento sta colpendo soprattutto l’Italia, la Spagna e alcune zone del nostro continente, dove si contano migliaia e migliaia di contagiati e purtroppo anche tanti, troppi, decessi, rappresenta una sfida decisiva per l’Unione Europea, una sfida da affrontare subito con il massimo impegno e con inusitato coraggio, come ha ricordato il presidente Ronzitti negli appunti di viaggio che aprono la nostra comune riflessione. La situazione è infatti drammatica, con l’aggravarsi quotidiano di un’emergenza sanitaria senza precedenti, che richiede l’adozione di misure adeguate al contenimento dell’epidemia e una rapida riorganizzazione ospedaliera al fine di fornire ai malati l’assistenza necessaria, e con la parallela acutizzazione di un’emergenza economica e finanziaria di gigantesche proporzioni, contrassegnata dal rallentamento dell’attività produttiva, dalla caduta verticale dei consumi, dall’aumento del debito pubblico, dal crollo delle borse e soprattutto da scenari futuri incerti. A ruota è prevedibile seguirà una crisi sociale di enorme rilevanza, con aziende che avranno difficoltà a ripartire e soprattutto con tanti lavoratori che rischieranno di andare ad allargare l’esercito dei disoccupati e dei sottoccupati.

Se volessimo usare una tradizionale metafora, potremmo dire che in questo momento i cittadini europei si trovano tutti sulla stessa barca, ma questa volta speriamo non si tratti né del Titanic, né della Costa Concordia, né di una nave senza nocchiero in gran tempesta. L’Unione Europea, per dirla senza giri di parole, si è mossa in ritardo e male di fronte alla crisi in corso, ma adesso si sta sforzando di recuperare, nella consapevolezza che è in gioco non solo la sua credibilità, ma forse la sua stessa esistenza. E gli Stati nazionali europei, che di fatto controllano la UE attraverso il Consiglio, singolarmente hanno fatto anche di peggio.

Intendiamoci, la sottovalutazione del fenomeno è stata una caratteristica comune a buona parte della classe dirigente di ciò che una volta era chiamato l’Occidente, che non solo non ha ascoltato gli appelli di virologi, epidemiologi e dell’Organizzazione mondiale della Sanità, ossia di tutti coloro che erano in grado di capire davvero cosa stava accadendo e di prevedere gli sviluppi della situazione, ma a lungo ha considerato la nuova epidemia un problema cinese, quindi estraneo al mondo occidentale. La sottovalutazione è stata accompagnata perfino da considerazioni al limite del razzismo sulle tradizioni alimentari cinesi, sull’igiene asiatica, sull’adozione di misure restrittive che violavano la libertà individuale, come se non esistesse un diritto alla salute e alla vita che davvero superiorem non recognoscens. Ma questo discorso ci porterebbe su un’altra strada…

Tornando all’Unione Europea, nei primi giorni di diffusione dell’epidemia in Italia, essa non è mai andata oltre qualche attestazione verbale di solidarietà, che ha oggettivamente lasciato il tempo che trova in un paese in piena emergenza. Il vertice dei ministri della Sanità, tenutosi a Bruxelles il 6 marzo, non ha prodotto ad esempio alcun risultato pratico. Il primo segnale forte, simbolico ma comunque forte, lo ha invece dato la presidente della Commissione Europea Ursula Von Der Leyen, indirizzando l’11 marzo un bel messaggio agli italiani, peraltro in lingua italiana, nel quale esprimeva la vicinanza delle istituzioni europee al nostro Paese: “In Europa stiamo seguendo con preoccupazione, ma anche con profondo rispetto e ammirazione, quello che state facendo. L’Italia è parte dell’Europa e l’Europa soffre con l’Italia. In questo momento in Europa siamo tutti italiani”.

Sino a questo momento le istituzioni europee avevano indirettamente giustificato la loro assenza ribadendo che i sistemi sanitari sono di pertinenza nazionale e, di conseguenza, esulano dalle competenze della Ue, anche se in realtà il Trattato di Lisbona a questo proposito afferma che all’Unione spetta un ruolo importante nel miglioramento della sanità pubblica in termini di prevenzione e gestione delle malattie, limitazione delle fonti di pericolo per la salute umana e armonizzazione delle strategie sanitarie tra gli Stati membri. Di conseguenza è stato creato un team di 7 commissari, di cui fa parte anche Paolo Gentiloni, per seguire la crisi e provare a fornire le risposte necessarie.

Il vero problema è però ancora una volta rappresentato non dalla UE in quanto tale, bensì dagli Stati membri dell’Unione, animati da interessi nazionali e poco propensi alla solidarietà europea. Il blocco alle esportazioni dei prodotti sanitari rappresenta in tal senso un esempio tanto significativo quanto emblematico, con il rischio concreto di indebolire ulteriormente nell’immaginario collettivo il senso di appartenenza alla UE. Alcuni paesi hanno poi reintrodotto i controlli alle frontiere, sospendendo temporaneamente gli accordi di Schengen. A ciò si aggiunga il fatto che alcuni governi europei hanno espresso pubblicamente le loro perplessità verso le misure restrittive messe in campo dal governo Conte, salvo poi, a breve distanza di tempo, finire per adottare misure analoghe e seguire quello che nel frattempo era stato ribattezzato il modello italiano.

È però evidente che all’Europa l’Italia chiede soprattutto un aiuto sul piano economico-finanziario. Tutti hanno in mente l’importanza giocata pochi anni fa dal Quantitative Easing messo in atto da Mario Draghi come presidente della Banca Centrale Europea per aiutare i paesi dell’eurozona a superare una grave crisi finanziaria. Bene, in un momento tanto delicato il successore di Draghi, la francese Christine Lagarde, non solo non ha preso le misure adeguate, ma durante la conferenza stampa del 12 marzo è arrivata ad affermare che non è compito della BCE occuparsi dei conti dei Paesi dell’eurozona né dei rispettivi spread. Come era facile immaginare queste dichiarazioni hanno avuto un immediato effetto negativo sui mercati, provocando una vera e proprio fuga degli investitori dai titoli di Stato italiani.

La reazione del governo Conte non si è fatta attendere, ma in particolare è risultata decisa quella del Quirinale. Con un intervento inusuale il presidente Mattarella ha dichiarato che “L’Italia sta attraversando una condizione difficile e la sua esperienza di contrasto alla diffusione del coronavirus sarà probabilmente utile per tutti i Paesi dell’Unione Europea. Si attende quindi, a buon diritto, quanto meno nel comune interesse, iniziative di solidarietà e non mosse che possono ostacolarne l’azione”.

Come capita in tutti i momenti di crisi e di grande incertezza (si pensi, per l’Europa, agli anni Settanta), i cittadini hanno riscoperto intanto lo Stato nazionale, con un tripudio di bandiere tricolori esposte alle finestre, canti dell’inno di Mameli da balconi e terrazzi, il risveglio di un senso di appartenenza alla comunità in una logica hobbesiana di protezione, ma anche di solidarietà (il sacrificio di medici e infermieri in primis).

Subissata dalle critiche, Christine Lagarde è stata costretta a una retromarcia e la sua dichiarazione è stata archiviata come spiacevole gaffe, ma alcuni hanno letto in realtà in questa vicenda un altro capitolo dell’ennesima contrapposizione tra i fautori delle politiche di austerity e i suoi oppositori. In realtà si tratta probabilmente di qualcosa di più di un semplice sospetto, dato che Christine Lagarde si era già distinta in passato alla guida del Fondo Monetario Internazionale proprio per una gestione tanto intransigente quanto inefficace della crisi greca.

Negli ultimi giorni, mentre la crisi sanitaria si sta tragicamente aggravando, sembrano tuttavia aprirsi alcuni spiragli positivi. La BCE ha finalmente approvato un programma straordinario di acquisto titoli per il 2020 pari a 750 miliardi di euro, che vanno ad aggiungersi ai 120 già stanziati in precedenza, mentre la Commissione ha sospeso il Patto di stabilità, rendendo possibili gli aiuti di stato a sostegno di imprese e cittadini in difficoltà a causa del lockdown. Addirittura è stato ripreso il discorso sugli eurobond, ossia sui titoli di Stato garantiti da tutti i paesi dell’eurozona, pur presentati con il sinistro nome di “corona bond” e il presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte ha perfino chiesto di poter utilizzare il Fondo Salva-Stati senza vincoli imposti dal Memorandum of Understanding.

A Bruxelles sembra che ci si stia rendendo conto che non può esistere un’Unione senza solidarietà, che lo sviluppo economico deve essere anteposto al rigore dei bilanci nella scala delle priorità, che la UE deve riprendere quanto prima il discorso sull’integrazione politica da tempo abbandonato, e che i sistemi di welfare massacrati dalle logiche neoliberiste devono essere rafforzati. Si tratta di una rivoluzione copernicana che dovrebbe necessariamente riprendere il cammino dal ripensamento delle strategie europee a partire dal trattato di Maastricht. Ma l’Europa sarà capace di farlo? Saprà cioè, come già successo in passato, trarre da una crisi devastante una nuova occasione di rilancio? La posta in gioco è alta, anche perché la crisi sta evidenziando il cambiamento degli equilibri di potenza a livello mondiale: se dovessero prevalere le divisioni nazionali a discapito di una vera unione politica, l’Europa rischierebbe non solo di non giocare un ruolo da protagonista nel nuovo scenario internazionale, ma perfino di rimanere soggetta alle potenze esterne.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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