Il Covid-19 e la salute  della  democrazia

di Giosiana Carrara

 

C’è un tipo particolare di inquietudine che attraversa oggi i nostri pensieri. Serpeggia sotto la grande  paura che avvertiamo per la crescita esponenziale di contagi e decessi da covid-19 che da fine febbraio ha come principale bersaglio il nostro Paese. S’incista nel sentimento contraddittorio – in parte rassicurante in parte stridente – che proviamo a fronte delle misure di controllo culminate in una serie di interventi messi in campo per fronteggiare la pandemia, di cui i decreti del presidente del Consiglio rappresentano la più eclatante novità. Le ragioni del disagio non sono di poco conto. Il virus, infatti, non solo ci mette tragicamente alla prova ma, dal momento in cui l’Italia è diventata zona rossa, esige di “sospendere la vita pubblica” e, con il ricorso allo stato di eccezione, di mettere in quarantena i diritti e le libertà personali previste dalla Costituzione.

Ma, al di là della ragionevole necessità delle restrizioni cui siamo sottoposti da un paio di settimane per arginare i contagi, qual è la causa del “sottile veleno” filtrato nei pilastri dello Stato di diritto che sorregge la nostra democrazia?[1] In altri termini, qual è la posta in gioco tra la salvaguardia della salute pubblica e le restrizioni alle libertà di ciascuno?

Traggo spunto dalle lucide e toccanti riflessioni che Giacomo Ronzitti, presidente dell’Ilsrec,[2] ha recentemente condiviso con amici e conoscenti, per mettere a fuoco alcune preoccupanti dinamiche in nuce nelle gravose scelte in cui attualmente è impegnata la nostra democrazia. Il mio obiettivo è porre l’accento sull’urgenza di innalzare il livello di guardia contro il rischio che alcune decisioni, dettate oggi da (giustificate) procedure di emergenza, circuiscano gli anticorpi del nostro Stato di diritto, compromettendo alla lunga la salute democratica del Paese. Il rischio è che i metodi “interdittivi”, introdotti giocoforza dall’alto per fronteggiare il covid-19, inducano nei singoli atteggiamenti acritici, moltiplichino i comportamenti irresponsabili e diffondano nei più passività, assuefazione e morbose abitudini profondamente contrarie al “modello democratico”, costruito sull’inscindibile rapporto tra diritti e doveri individuali e collettivi, sulla separazione dei poteri e, soprattutto, sulla mediazione dei corpi intermedi, che costituisce il nerbo della nostra Repubblica.

A tale fine, prendo a prestito alcuni concetti della filosofia politica di Michel Foucault, in particolare le sue indagini sulla natura del potere avviate dagli anni ’70.

Foucault  ha affrontato il tema del potere da un punto di vista inverso rispetto alla sua tradizionale derivazione dai concetti di sovranità, legge e interdizione.[3] Ha esaminato il potere nella minuta quotidianità degli effetti ch’esso produce a partire dal suo “punto di attacco”, il corpo del singolo, e ne ha seguito le modalità di diffusione tra le masse di individui che compongono la realtà sociale. L’assunzione della prospettiva “decentrata” ha permesso a Foucault di definire il potere mediante tre fondamentali caratteri:

1) la sua forma reticolare, per cui il potere, immanente e sotteso all’interazione sociale, si dà a misura che un individuo, agendo, influenza il campo delle azioni possibili di altri soggetti;

2) il fatto che il potere, pur condizionando gli individui su cui si esercita, lascia loro margini più o meno ampi di libertà;

3) la capacità intrinseca del potere di mutare a seconda dei periodi in cui si manifesta, rispondendo ad urgenze storicamente determinate tramite specifiche “tecniche”.

Per spiegare quest’ultimo aspetto, Foucault è ricorso a due strategie. La prima è la tecnica disciplinare, comparsa nel XVII secolo ed evolutasi nel corso del XVIII, dal momento in cui si è imposta l’esigenza di gestire un numero definito di individui in uno spazio tendenzialmente chiuso per ottenere il miglior risultato possibile. Essa ha raggiunto la sua massima espressione nel sistema di fabbrica e, dalla fine del XVIII secolo a tutto il Novecento, ha modellato quelle strutture che Marco Revelli, rifacendosi a Weber e a Foucault, chiama “macchine organizzative novecentesche” in grado di disciplinare le società (apparati amministrativi e giudiziari, sistema sanitario, ecc.).[4] Il potere disciplinare investe sui corpi degli individui e li sottopone ad un addestramento massiccio, costante e meticoloso. Controlla il movimento di ogni arto e le singole posture sino a delineare la condotta più adatta da tenere affinché il corpo sia “docile” e, insieme, in grado di produrre al meglio.[5]

La seconda tecnica è la biopolitica. Ha esordito in maniera sporadica nell’età medievale e moderna, laddove il potere sovrano ha dovuto fronteggiare improvvise e allora inspiegabili epidemie come la lebbra o la peste. Si è poi affermata con l’urbanizzazione dei secoli XVIII e XIX, quando è diventato prioritario governare la sicurezza di masse ingenti di individui (corpo sociale) in vasti spazi, come gli agglomerati cittadini, e controllare ambienti sempre più antropizzati. La necessità di proteggere la salute, l’igiene personale, la fertilità e le nascite nonché di contenere i tassi di morbosità e frenare quelli di mortalità ha indotto le società occidentali moderne a farsi carico dei tratti biologici essenziali che caratterizzano la specie umana tramite una strategia politica complessa e pervasiva, il biopotere.[6] Esso si esercita sulla “popolazione” o, meglio, sulla naturalità della specie umana che vive all’interno di ambienti artificiali, governati mediante diversificati dispositivi di sicurezza, quali le pratiche igienico-sanitarie (esclusioni/inclusioni, quarantene, vaccinazioni, ecc.) e quelle che presiedono al controllo del territorio (difesa dei confini, sanificazioni delle città, bonifiche nelle campagne, ecc.), la demografia e la statistica. Allentata provvisoriamente la sorveglianza sui singoli corpi (potere disciplinare), il biopotere ha avocato a sé la vita stessa di ciascuno e di tutti con l’obiettivo di salvaguardarla. Tragici segmenti della storia passata, tuttavia, ci ricordano che l’ombra della biopolitica cela il tanatopotere (o potere di morte). È accaduto quando, per proteggere la popolazione, si è fatto ricorso sia all’eliminazione di una sua parte, giudicata minacciosa perché deviante o malata, sia all’estinzione di una popolazione altra, ritenuta “diversa” e nociva.

Ma oggi, in piena emergenza da covid-19, che tipo di tecnologia di potere è in atto? E quali sono i sui immediati effetti sugli individui?

Com’è noto, l’estrema gravità della situazione ha portato tanto gli stati illiberali (Cina) quanto le democrazie (Italia, U.E. e U.S.) ad adottare misure di sicurezza che, in termini foucaultiani, si direbbe procedano sovrapponendo le tecnologie disciplinari a quelle biopolitiche sino a farle coincidere. Nei luoghi in cui dilaga il coronavirus, infatti, le misure adottate configurano “stati d’eccezione” che appaiono temporanei per le democrazie, mentre rappresentano per gli Stati illiberali il naturale prolungamento dell’irregimentazione vigente.  A questo proposito, da più parti emerge la preoccupante posizione di chi, tramite semplificazioni banalizzanti, giudica che i provvedimenti posti in essere in questi Paesi risultino più rapidi, diretti ed efficaci.

Per il caso italiano, le 11 regole in corso da circa un mese (dal lavarsi accuratamente le mani all’evitare abbracci, dall’escludere assembramenti nelle aree pubbliche alla limitazione degli spostamenti non strettamente necessari) vanno accentuandosi in senso sempre più restrittivo.[7] Espresse dapprima in forma di semplici ancorché accorate “raccomandazioni” per sollecitare il “distanziamento sociale” nei territori più colpiti dal contagio, tali regole con l’intensificarsi dei decessi da covid-19 sono diventate vere e proprie prescrizioni e chi le infrange è suscettibile di sanzione.

Quando l’Istituto superiore di sanità dichiara che l’Italia, avendo una popolazione molto più anziana di quella cinese, va protetta il più possibile da contagi e che “le misure indicate dalle autorità quindi vanno seguite nella loro totalità”, è evidente che la “medicalizzazione della società” si è estesa all’intera popolazione e che le tecnologie messe in campo dalla biopolitica ricadono sui cittadini “ricollocati all’interno dei processi biologici di insieme”.[8]

Ma le prescrizioni per adempiere al distanziamento sociale configurano anche i comportamenti dei singoli nella loro quotidianità e impongono con urgenza l’assunzione di nuove attitudini. Segnano capillarmente la gestualità da osservare quando si è soli (“non toccarsi occhi, naso e bocca con le mani”) o la postura da tenere quando ci si rapporta ad altri (“mantenimento, nei contatti sociali, di una distanza interpersonale di almeno un metro”). Di più, con l’incremento dei contagi, rimarcano alle “persone fisiche” gli spazi in cui risiedere (divieto di accesso ai parchi cittadini, alle spiagge, alle aree gioco).  Le misure introdotte stilizzano dunque nuovi comportamenti, agendo di fatto come tecnologie disciplinanti.

Pertanto, la pandemia da coronavirus non solo mette in atto le politiche di potere sulla vita delle popolazioni in uno spazio aperto e vasto oramai quanto il mondo (biopotere) ma, penetrando nei recessi del privato e modellando le singole condotte anche nell’ambito delle mura domestiche, svela l’esercizio disciplinante a cui ogni individuo si sottopone (potere disciplinare).

Il ridimensionamento dello spazio di libertà di ciascuno, assolutamente giustificato dalla necessità, è enorme, ma è anche tale da indurre alcuni legittimi interrogativi.

Nell’attualità del presente, disponiamo ancora di spazi non soggetti al controllo dei poteri biologico e disciplinare? Cosa resta delle libertà e – se si applicasse il modello della Corea del Sud contro il coronavirus – della privacy di ciascuno? Ma, soprattutto, se ad oggi i Paesi liberali hanno esperito una politica fatta di corpi individuali che si muovono in spazi materialmente aperti avvalendosi di relazioni e discussioni assembleari, che tipo di democrazia si configura in assenza delle pratiche concrete  della vita pubblica?

Le questioni poste sono estremamente complesse, per questo non posso far altro che condividere alcune osservazioni.

Sicuramente oggi sono accessibili forme – talora anche inattese – di libertà. Se si prescinde dal personale medico e infermieristico, dai ricercatori scientifici e da tutti coloro che, in prima linea, combattono per noi la più anomala guerra di cui abbiamo memoria, c’è chi, momentaneamente sottratto alla cogenza del lavoro, fruisce della libertà di leggere, studiare, seguire trasmissioni televisive, vedere video, scrivere, intrattenersi al telefono, esprimere giudizi o fare commenti sui social, ecc. Oppure chi, tramite lo smart working, per la prima volta ha l’opportunità di svolgere il proprio lavoro a casa da solo o con la famiglia e i figli. Tuttavia, non tutti possono avvalersi di tali benefici. Inoltre, se – sul modello della Corea del Sud – i governi decidessero di introdurre app per tracciare i movimenti dei cittadini o attingessero all’uso mirato di big data per localizzare soggetti a rischio, l’autorità avrebbe a disposizione un’enorme quantità di dati (spostamenti, preferenze in merito agli acquisti, informazioni sulle risposte fornite da ciascuno  in contesti fortemente emotivi come, per esempio, a fronte d’improvvise paure o nell’intimità delle passioni) di cui, finita l’emergenza, potrebbe servirsi per altri fini. Del resto, l’utilizzo in tempi brevissimi e su larga scala di tecnologie assai avanzate, ma non ancora sufficientemente note alla cittadinanza né adeguatamente testate, implicherebbe l’applicazione di dispositivi di controllo sulle masse potenzialmente molto pericolosi. Potrebbero essere compromesse non solo le libertà ma anche i diritti alla riservatezza delle vite private degli individui che, ridotti a meri “margini”, entrerebbero in frizione con i principi liberali su cui si regge lo Stato.

In generale, la razionalità politica che va affermandosi è fondamentalmente “tecnica”, tende ad applicarsi nell’immediatezza e specificità di provvedimenti concreti (decreti legge) che vengono dal premier, dai presidenti delle Regioni o dai sindaci. In questa fase emergenziale essa mostra il primato dei governi sulle assemblee legislative e confligge potenzialmente con la Carta costituzionale che, al contrario, assoggetta lo stato d’eccezione alle regole dello Stato di diritto,[9] mentre la biopolitica, il potere disciplinare e lo stato d’eccezione non prevedono mediazioni.

 

Per questo la posta in gioco è altissima: salvare la vita (i corpi fisici degli individui) avendo costantemente di mira la salvaguardia dello Stato di diritto (le regole democratiche e le libertà personali dei cittadini).

Ma in questo scenario di crisi sopravviene un’importante variabile. Se è vero – come scrive Ezio Mauro – che “il virus è più veloce della democrazia”, è altrettanto vero che, nella guerra tra la malattia e lo stato d’eccezione teso a contrastarla, s’insinua e germina il tempo buono del ripensamento. Sepolto da decenni tra le scartoffie di casa nell’opaca memoria di convalescenze trascorse, si fa strada oggi nelle lunghe giornate di forzata solitudine ed apre a vertiginosi spazi di libertà. Per riflettere su di noi, sulle responsabilità di cui dobbiamo farci carico e sulla possibilità che ci è affidata di edificare nuove forme di vita sociale e una buona politica.

 

 

 

Giosiana Carrara è direttore scientifico e didattico dell’ISREC “Umberto Scardaoni” di Savona

[1]     L’espressione tra virgolette è tratta da Pietro Ignazi, La democrazia alla prova del virus, “la Repubblica”, 15/03/2020.

[2]     Giacomo Ronzitti, Spunti di riflessione e appunti di viaggio tra le mura di casa, nei giorni del coronavirus (lettera aperta pubblicata in questo numero di “Rete delle idee”, la rivista on line dell’ILSREC).

[3]                 “Ciò di cui abbiamo bisogno – dichiarava Foucault in un’intervista del 1976 – è una filosofia politica che non sia costruita intorno al problema della sovranità, dunque della legge, dunque dell’interdizione. Bisogna tagliare la testa del re: non lo si è ancora fatto nella teoria politica” (cfr. Michel Foucault, Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino 1977, p. 15).

[4]     Marco Revelli, La politica senza politica. Perché la crisi ha fatto entrare il populismo nelle nostre vite, Einaudi, Torino 2019.

[5]     Michel Foucault, Sorvegliare e punire, Einaudi, Torino 1976.

[6]                 Michel Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2007, p. 13 e sgg.

[7]                 Cfr. Sito web del Ministero della salute all’url http://www.salute.gov.it/portale/news/p3_2_1_1_1.jsp?lingua=italiano&menu=notizie&p=dalministero&id=4156 .

[8]                Michel Foucault, Bisogna difendere la società, Feltrinelli, Milano 1998, p. 215.

[9]                Michele Ainis, Meglio distante che latitante. Il voto digitale in Parlamento, “la Repubblica”, 19/03/2020.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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