Resistenza (oggi – ieri) e Senso del futuro

di Giosiana Carrara,

 

Vivere il futuro come presente,

affidare alle anticipazioni e alle speranze

 il processo di unificazione […],

sono tratti che caratterizzano l’esperienza resistenziale.[1]

 

Da quasi 2 mesi un tempo anomalo sta condizionando pesantemente la vita di 4 miliardi di persone. È dovuto alla crisi epocale, senza precedenti, scatenata dal Sars-Cov-2, il virus che per primo e più velocemente si è manifestato su scala globale,[2] mosso da una elementare ragione di esistenza: nutrirsi del “respiro” degli umani per propagarsi ovunque. L’eccezionalità di questa aggressione ci coglie del tutto impreparati. Il disorientamento trova riscontro anche nella percezione di un profondo  scarto del piano temporale indotto dalla sua diffusione. Da un lato, affiorano nel presente epoche remotissime in cui primitivi esseri quasi-viventi, lontana progenie degli attuali virus, si organizzano in strutture molecolari di crescente complessità, elaborano strategie infettive sempre più raffinate a cui, nel tempo, la biodiversità cerca di rispondere al prezzo dell’espansione o dell’estinzione di nuove specie.[3] Dall’altro si profila la sconvolgente novità di una guerra, forse la prima nell’età della globalizzazione, che un’entità non visibile conduce alla specie umana ridotta, nel contagio, ad un unico macroscopico organismo.

Il raffronto, sul filo della memoria, con analoghe manifestazioni epidemiche per scovare prontuari già sperimentati contro peste, vaiolo o influenza spagnola, appare vano. E, in fin dei conti, non fa che confermare la validità del “distanziamento sociale”, il più arcaico dei rimedi ma da sempre la prima e più efficace misura contro le pandemie.

La crescita esponenziale del contagio correlata alla rapidità dei decessi, piuttosto, ci rende consapevoli dell’enorme sforzo di intelligenze e di investimenti richiesto per  l’azzeramento della Covid-19. Ci fa capire che questo successo dipende soltanto dall’unità di intenti politici, economici e sociali messi in campo da tutte le istituzioni, nazionali e sovranazionali.

In attesa che la scienza ci indichi la strada per uscire dalla pandemia individuando mezzi e strumenti appropriati, è lecito chiedersi cosa possa insegnarci a proposito la storia; disciplina che – fatti salvi generici paragoni con guerre passate o improbabili parallelismi con le grandi crisi del ’29, del ’73 e del 2008 – l’attuale discorso pubblico sull’emergenza pare aver accantonato.

Tra le tante risposte possibili per restituire alla conoscenza del passato la dignità e l’importanza che merita, propongo due considerazioni. La prima è brevissima e indica cosa è bene non fare in questi casi della storia, mentre la seconda argomenta un percorso possibile da seguire per il suo buon uso.

La storia non va considerata alla stregua di un ricettario di eventi passati da cui trarre, con intento mimetico, precisi ingredienti così da realizzare la soluzione prêt-àporter oggi più conveniente. Al contrario, va riconosciuta a pieno titolo come parte viva del presente che, pur se sottotraccia, alligna tra le dinamiche politiche, economiche e socio-culturali del tempo in cui viviamo. Tuttavia, per trarla alla luce, occorre procedere con cautela e con metodo. Mi viene da paragonare la storia ad un forziere ricco di memorie ordinate, un robusto scrigno, una cassaforte che contiene, condensati in provvisorie ma ragionevoli sistematizzazioni, innumerevoli “casi”, aggregazioni complesse di eventi a cui, spinti dall’innato bisogno di rispecchiamento, talora mettiamo mano. Ma – mi si perdoni ancora la fantasiosa metafora -, se la storia è come un forziere di beni preziosi, ogni volta che tentiamo di aprirlo, dobbiamo ricordarci di agire nel rispetto della legalità ossia delle leggi fondamentali di questa disciplina, mossi da onestà intellettuale e istruiti sulla corretta combinazione che, sola, ci permette di accedere ai suoi tesori. Insomma, non si entra nella storia con grossolane associazioni ma in ragione di accostamenti mirati, soppesati con cura e commisurati, come in ogni scienza, alla totalità dei dati disponibili, certificati ogni volta da quella prova del nove che, per la storia, è costituita dal ricorso alle fonti.

Dunque, se alla viglia del 75º anniversario della Liberazione ci chiediamo che “utilità” il nostro tempo possa ancora trarre da una riflessione sul 25 aprile, non cercheremo la risposta nella generica sovrapposizione di quanto accadeva allora (la dittatura, il secondo conflitto mondiale, la Resistenza e la sconfitta del nazifascismo) con l’oggi (l’Italia repubblicana, la globalizzazione, la resistenza e la “guerra” di tutte le nazioni del mondo alla pandemia) allo scopo di trovare ipotetiche corrispondenze. È ovvio ma vale comunque la pena di ribadirlo: oggi non viviamo in uno Stato illiberale e non ci sono Paesi con i quali siamo in conflitto armato o che ci stanno occupando.

Il piano della riflessione è un altro. Anche in questo anomalo presente c’è un nesso fortissimo e fondamentale, che dà ragione della straordinaria vitalità di questo anniversario. E questo nesso, per dirla con le parole dello storico Claudio Pavone, sta tutto nella “moralità della Resistenza”.[4] L’espressione riassume la nuova “morale politica” che delinea il contesto storico in cui si trovò l’Italia tra il 1943 e il ’45. Ci riporta a quella “forte minoranza”, che si oppose ai totalitarismi, alla guerra fascista e alla sciagurata alleanza con il nazismo in nome di istanze democratiche, fondate sulla partecipazione politica e l’impegno individuale. Richiama infine la drammaticità dello scontro civile, consumato a partire dai concreti comportamenti messi in atto dai singoli: il conformismo, l’indifferenza e il macabro eroismo degli uni contro la scelta per la libertà e la dignità compiuta dagli altri, quelli che avevano fatto i conti con  l’inerzia e la mediocrità del passato e concepito coraggiosamente il “senso del futuro”.

Lo snodo cruciale della lotta per la Liberazione, ripercorso in questi giorni di ripensamento, offre accostamenti di senso carichi di potenza e di insegnamenti. Oggi come allora siamo gettati in un tempo terribile, che ci espone innanzi ad una svolta enorme, tanto sproporzionata da mettere in difficoltà anche la nostra immaginazione. Dalla scrupolosa osservanza del distanziamento sociale affidata a ciascun nucleo famigliare, alle decisioni dei sindaci, dei presidenti delle Regioni e, via via, a quelle del Governo sino al banco di prova rappresentato dall’Unione Europea, ogni livello comunitario in cui ci troviamo chiama in causa un ventaglio diversificato di scelte individuali e collettive, spesso pericolosamente conflittuali. Lo sforzo per superarle non risiede soltanto nel dovere di coniugare la salute pubblica con quella socio-economica nel rispetto delle regole irrinunciabili dello Stato di diritto; ma va inscritto in una cornice ancor più ampia. Come scrive Giacomo Ronzitti,[5] abbiamo bisogno di una “nuova grande alleanza tra scienza e democrazia”, tra la razionalità del sapere e la vera solidarietà che solamente la “buona politica” può garantire, salvaguardando il diritto di ciascuno, la dignità delle persone e la giustizia sociale.

Per un gioco di rispecchiamenti che, come nei barbàgli improvvisi, ci sorpende,  proprio in questo tempo contrassegnato dal contagio acquistano corpo e vita quei valori nel cui nome una cospicua  ma illuminata minoranza del nostro Paese ha scelto di combattere. Nascono dal sogno degli antifascisti, che hanno lottato per un mondo che ancora non c’era ma di cui avevano una chiara consapevolezza, e  rappresentano la forza trainante degli ideali del gruppo intorno al quale si sono raccolti a migliaia tutti gli altri.

La stagione della Resistenza, il capitolo più alto, il migliore della nostra storia passata, oggi è più vivo che mai. Allora ci si batteva per valori che nascevano da un’eccezionale unità di intenti, in grado di coinvolgere gli italiani e gli europei contro il nazifascismo. Adesso è l’intera specie umana che ha da scegliere l’inaudito. La sfida è enorme. Lo si è detto. Tra i tanti, essa riflette almeno due insegnamenti di cui siamo debitori alle generazioni che ci hanno preceduto: che la lotta ci deve trovare uniti e che lo sforzo di immaginazione deve essere altissimo, almeno quanto la posta in gioco.

Perché è il tempo di “levare lo sguardo al futuro”,[6] prefigurando un mondo in cui le generazioni che verranno possano continuare a vivere.

 

 

L’ articolo è stato redatto il 15 aprile 2020

[1]     Claudio PAVONE, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità della Resistenza, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 579.

[2]     Paolo GIORDANO, Nel contagio, Einaudi, Torino 2020, p. 3.

[3]     Telmo PIEVANI, E si chiamano sapiens, “le Scienze”, n. 620, 3 aprile 2020, p. 15.

[4]             . Claudio PAVONE, op. cit.

[5]     Cfr. Giacomo RONZITTI, Note di viaggio – Una nuova grande alleanza tra scienza e democrazia, tra ragione e solidarietà all’url  https://www.ilsrec.it/note-di-viaggio-una-nuova-grande-alleanza-di-giacomo-ronzitti/

[6]     L’espressione, tratta da Dietrich BONHOEFFER, Resistenza e resa. Lettere e appunti dal carcere, Edizioni Paoline, Cinisello Balsamo 1989, p. 64, è citata in Marcello FLORES, Mimmo FRANZINELLI, Storia della Resistenza, Laterza, Roma-Bari 2019, p. XVI.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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