I nostri referendum alla Catalano – di Marco Peschiera

I nostri referendum alla Catalano

di Marco Peschiera

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Meno male che siamo italiani: noi, i referendum li facciamo alla Catalano.

Niente a che vedere con Barcellona: ci si riferisce a Massimo Catalano, l’amabile barbuto personaggio che nel cazzeggio televisivo di Renzo Arbore era chiamato, dopo profonde meditazioni, a elargire le sue massime filosofiche: “Meglio sposare una donna ricca, bella e intelligente piuttosto che una donna povera, brutta e stupida”.

In una domenica di ottobre i popoli lombardo-veneti sono stati chiamati a pronunciarsi sul seguente quesito: “Volete voi che la Regione […] intraprenda le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia, con le relative risorse?”.

Sarebbe a dire: volete più autonomia e più soldi oppure meno autonomia e meno soldi?

La risposta è stata quasi unanime: tra il 95 e il 98 per cento di Sì. Non altrettanto la partecipazione: alta in Veneto (2,3 milioni di votanti pari al 57 per cento degli elettori) ma molto più bassa in Lombardia: solo 3 su 7 milioni alle urne, cioè meno del 40%. In tutto, su oltre undici milioni di persone, poco più di cinque sono andati a confermare il catalanesco Sì, gli altri sei hanno impiegato diversamente il proprio tempo.

 

Dall’inutile si è poi passati al grottesco. Mentre i veneti votavano alla vecchia maniera (carta e matita) i lombardi hanno dovuto sperimentare le delizie del voto elettronico che garantiva risultati in tempo reale: invece tra intoppi e “tilt” del nuovo sistema non si è capito per tutta la domenica quanta gente avesse votato, e per conoscere i risultati si è dovuto aspettare quasi un giorno intero.

I presidenti Maroni e Zaia con i consiglieri di Lombardia e Veneto meriterebbero di essere chiamati a ripagare di tasca propria questa adunata di tifosi addebitata al contribuente per un conto complessivo di oltre 50 milioni di euro. Con i colleghi di tutte le altre Regioni dovrebbero piuttosto interpellare se medesimi su come hanno utilizzato la vasta autonomia e i sovrabbondanti soldi loro concessi negli ultimi lustri.

Detto questo, c’è da interrogarsi sull’uso, l’abuso e l’astruso del referendum, non solo qui in Italia.

Referendum di per sé non significa democrazia. Anzi, a volte la democrazia è stata schiacciata proprio per via referendaria.

Gli esempi abbondano fin da Atene antica: già due millenni e mezzo fa qualcuno brogliava con le schede (tonde, in terracotta) per sancire l’espulsione degli avversari dalla polis. Né si può assumere come prova di democrazia il referendum indetto da Ponzio Pilato per far decidere a una plebaglia urlante la libertà a Barabba e la morte a Gesù Cristo.

Si potrebbe citare anche il voto imposto da Mussolini nel 1934 per ratificare il suo Parlamento (99,85 per cento di Sì), oppure quello voluto lo stesso anno da Hitler per diventare il Führer (un più modesto 88,1%).

Ma per stare a casi meno tragici e più recenti, si osserva che la democrazia è stata presa a calci proprio nella sua moderna patria, Londra, con il referendum indetto per meschini calcoli da un erede di Ponzio Pilato nel giugno 2016. Era David Cameron, premier conservatore, che da allora vive nascosto per la vergogna.

Si tratta della Brexit: su 46 milioni di elettori votarono soltanto in 33 milioni dividendosi quasi a metà, 17 “Leave” e 16 “Remain”. Così l’ottuso mondo politico britannico ha messo il futuro di 500 milioni di europei in mano a una minoranza della “piccola isola coperta dalle nuvole”, come la definiva il generale De Gaulle: a dire “Leave” è stato infatti appena il 37% degli elettori.

Altrettanto antidemocratica la vicenda della Catalogna. Si deplora la violenta arroganza di Madrid e si prende atto dell’inutilità di un monarca che di nome fa addirittura Filippo VI di Borbone. Ma va ricordato che la chiamata alle urne a Barcellona e dintorni ha mobilitato poco più di 2 milioni di persone su oltre 5 milioni di aventi diritto: cioè, semplicemente, gli indipendentisti hanno perso il referendum che con tanto ardore avevano voluto e gestito. Diceva Mao: sollevare una pietra per lasciarsela ricadere sui piedi.

Torniamo a noi. Si è imposta la leggenda che i più grandi cimenti democratici siano stati i referendum sul divorzio (1974) e sull’aborto (1981). Niente da dire sulla regolarità di quelle votazioni né sul loro esito. Va però ricordato che si trattava solo di dire No al tentativo della destra e delle gerarchie vaticane di sopprimere diritti civili votati dal Parlamento. Due belle giornate di festa per il mondo laico e progressista, ma niente di più: la democrazia si era già espressa, proprio attraverso il Parlamento.

Quanto il referendum sia stato poi abusato lo dimostra la lunga lista di consultazioni annullate per scarsa partecipazione. Disinteresse? Disinformazione? Piuttosto ha prevalso la sanità mentale quando i cittadini hanno rifiutato di esprimersi su questioni insignificanti oppure risolvibili senza scomodare nessuno.

Dovremmo quindi rivolgere grati pensieri ai lungimiranti Padri della Patria. Nella Costituzione del 1947 inserirono lo strumento del referendum, ma piantando robusti paletti: non si vota su trattati internazionali e su norme fiscali o di bilancio; non si cambia la Costituzione per referendum (salvo esprimersi in seconda battuta su modifiche votate in Parlamento con la sola maggioranza semplice, come nel dicembre 2016); infine, per abolire una legge è necessaria la partecipazione della metà più uno.

Insomma, da noi una buffonata alla Brexit o una gazzarra alla catalana non sarebbero ipotizzabili. Inoltre la Costituzione, per ovvi motivi, non contempla in alcun modo certe forme di “democrazia online” che a quanto pare rendono i brogli (o come minimo i pasticci) più facili di quelli con i cocci ateniesi.

Il compianto Catalano ne trarrebbe una nuova massima: meglio una Costituzione buona che una Costituzione cattiva.

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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