I populisti, l’Italia e il rilancio europeo – di Franco Praussello

Un tempo l’Italia era considerata uno dei promotori più convinti del processo di integrazione europea, che spesso completava la funzione di traino svolta dal tradizionale motore franco-tedesco con iniziative volte a ottenere risultati di carattere squisitamente politico. E in effetti, le prime fasi di tale processo, con la liberalizzazione degli scambi e la creazione del mercato comune, aveva consentito al Paese di crescere a ritmi soddisfacenti, entrando a far parte del novero delle economie più industrializzate del mondo e alimentando l’estensione del welfare verso nuovi traguardi di avanzamento sociale. Nel contempo, la nostra classe politica aveva spesso contribuito ad aumentare i gradi di democrazia del processo europeo, non ultimo con l’appoggio fornito all’obiettivo di giungere all’elezione a suffragio universale del Parlamento europeo.

Oggi tutto ciò è alle nostre spalle e le forze della conservazione nazionale, nell’ambito di una ripresa preoccupante dei populismi e di pericoli di una rinascita di nuove forme di razzismo, nazionalismo e fascismo, sia in Italia sia in alcuni paesi dell’Europa centro-orientale, si propongono apertamente di ritornare alle chiusure nazionali del  passato, mettendo in discussione, alla lunga, il principale frutto dell’integrazione: quello della pace nel continente, dopo secoli di tensioni e di guerre, con i loro corollari di distruzioni e di miserie.

Fra le cause, almeno prossime e del quadro specificamente europeo, di questo stato di cose, è molto probabile che una di esse, se non la principale, sia costituita da come i governi europei hanno dato vita alla costruzione dell’euro e hanno tentato di far fronte alla crisi dell’eurozona.

E in effetti, gli avvenimenti legati all’introduzione dell’euro e al suo funzionamento hanno mostrato i limiti, oltre che i vantaggi della creazione della moneta unica.

 

Per quanto riguarda specificamente il nostro Paese, dopo la nascita dell’euro, apparve ben presto chiaro che accanto ai vantaggi di carattere strettamente tecnico di una moneta  unica (la maggiore trasparenza dei prezzi, il venir meno del rischio di cambio nei rapporti intra-zona euro, con un aumento degli scambi interni, e così via), per i Paesi ad alto indebitamento esterno, quali l’Italia, il beneficio maggiore della partecipazione all’integrazione monetaria consisteva nella riduzione dei tassi di interesse, che da livelli a due cifre seguirono un sentiero di progressiva riduzione, convergendo verso i livelli del Paese più stabile, vale a dire della Germania. Da qui la consistente riduzione del costo del servizio del debito, che avrebbe potuto portare a un calo dell’indebitamento complessivo, come avvenne soltanto sotto il governo di Prodi e come potrebbe avvenire anche in questi mesi grazie alle previsioni di una maggiore crescita del Pil, mentre i governi della destra furono caratterizzati da una tendenza ad aumentare le spese correnti, aggravando ulteriormente il rapporto fra debito pubblico e Pil (oggi intorno al 133%).

La situazione cambiò radicalmente quando la crisi finanziaria globale originata negli Stati Uniti nel periodo 2007-2008 contagiò l’Europa traducendosi nella crisi dei debiti sovrani, con il timore che uno o più Paesi dell’area euro diventassero insolventi.

In quella occasione emersero tutti i difetti di costruzione dell’eurozona, che non può essere considerata un’unione monetaria completa, dal momento che accanto a essa manca la componente fiscale: la presenza in particolare di un bilancio europeo accentrato, dotato di sufficienti risorse per attenuare gli effetti negativi di una caduta del reddito nei Paesi più deboli. Questi ultimi, avendo rinunciato alle monete nazionali e non potendo emettere liquidità espressa in euro, potere riservato unicamente alla Banca Centrale Europea (Bce), furono costretti ad accettare le uniche ricette disponibili per ricevere aiuti da parte dei paesi creditori, vale a dire i piani di austerità, i quali aggravarono, anziché attenuare la caduta del reddito. I welfare nazionali furono tagliati a più riprese e i costi della crisi risultarono in alcuni casi (si pensi alla Grecia) superiori a quelli della Depressione degli anni Trenta del secolo scorso. Con la conseguenza che in questo contesto si sono rafforzati i primi movimenti e partiti populisti, che imputavano all’Europa la responsabilità della crisi e non alla mancanza di strumenti di condivisione europei dei rischi, come risultava palese dai difetti di costruzione dell’euro. Il tutto, in attesa che la successiva crisi dei flussi migratori, dovuta anche in questo caso alla mancanza di strumenti europei all’altezza delle sfide di un mondo globalizzato, li rafforzasse ulteriormente, avvicinandoli alle soglie del potere di governo.

Giunta a un passo dall’implosione, la zona euro ha però reagito grazie soprattutto alle politiche coraggiose della Bce, che ha inondato di liquidità l’economia europea, acquistando titoli pubblici e privati dei governi e delle imprese dei Paesi membri, evitando peraltro possibili tensioni inflazionistiche, mentre  i governi mettevano mano a riforme, che avevano il merito principale di guadagnare tempo per poter riformare in modo corretto l’integrazione monetaria, garantendone la tenuta e la democraticità.

Oggi l’economia europea è in ripresa ovunque, anche in Italia, dove gli effetti negativi della Grande Recessione sono stati in larga misura riassorbiti, e la tesi che i costi che ha sopportato il nostro Paese nel corso di essa siano imputabili alla sola esistenza dell’eurozona, come sostengono i movimenti e i partiti populisti che vorrebbero abbandonarla, dalla Lega del campione dell’estrema destra Salvini ai Cinque Stelle con le loro incertezze sull’Europa elevate a sistema, si rivela del tutto infondata, come dimostra il fatto che gli altri Paesi che ne fanno parte sono comunque cresciuti tutti più di noi.

Nel contempo, l’agenda dell’eurozona, dopo la sconfitta del Fronte nazionale parafascista in Francia a opera di Macron, vede all’ordine del giorno l’imminente iniziativa della Francia e della Germania per rilanciare il processo di integrazione con riforme destinante a rendere più efficienti e democratiche le strutture dell’Unione. I progetti di Macron prevedono di costruire un’Europa che protegge, in cui una sovranità comune degli Stati nazionali, ormai indeboliti dalla globalizzazione, consenta di affrontare le sfide del presente in condizioni di parità con gli attori continentali del mondo, Usa, Russia, Cina e grandi paesi emergenti.

A fronte degli Usa di Trump che ormai rema contro la Ue e rimette in discussione l’apertura dei mercati e i valori del liberalismo in nome dell’“America first”, Macron risponde che “Europe is back”, l’Europa ritorna sulla scena mondiale, raccogliendo le bandiere dei Kennedy e degli Obama lasciate cadere dal presidente più forte e più populista del globo.

Con l’aggiunta che un’Europa che protegge, nelle intenzioni di Macron, comprende una Unione che si doti di riforme in grado di superare i difetti della zona euro con una suddivisione dei rischi finanziari nel quadro europeo e di una politica economica comune nei confronti dei flussi migratori, e che si opponga ai governi populisti dei Paesi a democrazia illiberale di Visegrád, a partire da quelli della Polonia e dell’Ungheria. Dopo anni di sacrifici e di disoccupazione, si tratterebbe di dar vita a progressi verso la ripresa degli investimenti e l’aumento dell’occupazione a livello continentale, il tutto sotto il controllo di un Parlamento dotato di poteri reali, con l’obiettivo ultimo di giungere agli Stati Uniti d’Europa.

Elementi, questi, che sono alla base di una bozza franco-tedesca elaborata da quattordici economisti francesi e tedeschi per l’avvio delle trattative tra Francia e Germania per superare le politiche di austerità della zona euro. E, come lasciano presagire i primi accordi fra Angela Merkel e il capo dei socialdemocratici tedeschi Martin Schulz in vista dei programmi del governo di coalizione di Berlino, la Germania sembra ormai disponibile ad accettare alcune delle loro proposte, e in particolare quelle che prevedono la creazione di uno strumento fiscale europeo che preveda il trasferimento automatico di risorse a favore dei Paesi dell’eurozona colpiti da una recessione. Un progresso, verso cui la classe politica tedesca conservatrice si era opposta sinora con tutte le sue forze.

E’ in questo contesto che l’Italia deve decidere se partecipare al rilancio europeo, che la Merkel e Macron stanno in queste settimane preparando, sbarrando la strada ai molti populismi che rendono incerto il nostro quadro politico interno o se isolarsi, esponendosi ai pericoli di emarginazione e di irrilevanza ai fini della difesa dei nostri interessi che oggi la vicenda della Brexit illustra in modo del tutto chiaro.

 

 

 

 

 

 

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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