di Valerio Onida
La vicenda dell’autorizzazione a procedere nei confronti del ministro Salvini in relazione all’episodio della nave “Diciotti” ha attirato l’attenzione dell’opinione pubblica su un particolare istituto previsto dalla Costituzione.
Nel testo originario della Carta si prevedeva che per i reati commessi dal presidente del Consiglio e dai ministri nell’esercizio delle loro funzioni essi fossero posti in stato d’accusa dal Parlamento in seduta comune e giudicati dalla Corte costituzionale, in una composizione integrata da sedici giudici eletti dal Parlamento in seduta comune all’inizio di ogni legislatura fra cittadini eleggibili al Senato (che si aggiungevano ai quindici giudici “ordinari”).
Questa fu la norma applicata in occasione del processo per la vicenda “Lockheed” che vedeva fra gli imputati due ministri (la sentenza della Corte è del 1°marzo-2 agosto 1979). Nel 1989 venne modificata la Costituzione, sopprimendo questa ipotesi di giurisdizione penale della Corte costituzionale (legge costituzionale n. 1 del 1989). È stato dunque previsto che i reati “ministeriali” (commessi cioè dai membri del governo nell’esercizio delle loro funzioni) siano giudicati dalla magistratura comune, ma previa autorizzazione della Camera dei deputati, se l’accusa riguarda solo un ministro componente della stessa, o del Senato in caso diverso. Le indagini preliminari sono affidate ad uno speciale collegio di magistrati costituito presso ogni Corte d’Appello: se tale collegio non ritiene di archiviare la notizia di reato, trasmette gli atti alla Camera competente per l’autorizzazione; se questa viene concessa, il giudizio ha luogo davanti al Tribunale del distretto competente per territorio, secondo le norme ordinarie.
La Camera (o il Senato) “può, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, negare l’autorizzazione a procedere ove reputi, con valutazione insindacabile, che l’inquisito
abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante ovvero per il perseguimento di un preminente interesse pubblico nell’esercizio della funzione di governo”.
Dunque quando si profila una ipotesi di reato nei confronti di un ministro, ci si deve domandare, nell’ordine:
- se la condotta addebitata al ministro configuri o meno un reato previsto dalla legge;
- se, in caso positivo, si tratti di un reato commesso nell’esercizio delle funzioni ministeriali e non come privato cittadino;
- se, nel caso in cui si tratti di reato “ministeriale”, il ministro abbia agito per la tutela di un interesse dello Stato di rilievo costituzionale (ad esempio la sicurezza dello Stato) o per perseguire un preminente interesse pubblico la cui cura è a lui affidata.
Alla prima e alla seconda domanda è chiamato a rispondere il “Tribunale dei ministri” (salvo eventuale conflitto di poteri sollevato dalle Camere nel caso di controversia sul carattere “ministeriale” o meno del reato). Alla terza domanda risponde la Camera competente, autorizzando o non autorizzando il processo.
Nel caso della nave “Diciotti” il Tribunale dei ministri ha risposto positivamente alle prime due domande, e, direi, in modo convincente.
Quanto alla prima, ha detto che la condotta del ministro, che ha impedito per cinque giorni (dal 20 al 25 agosto 2018) lo sbarco in un porto italiano dei migranti salvati in mare, mentre si cercava di ottenere il consenso – negato – di altri Stati europei a farsi carico anch’essi della loro accoglienza (e benché i minori e i migranti bisognosi di speciale assistenza medica siano invece stati sbarcati), configurava di per sé una ipotesi di “sequestro di persona”.
Infatti si sarebbe limitata la libertà personale dei naufraghi (destinati secondo le norme internazionali ad essere condotti e sbarcati nel porto sicuro più vicino), al di fuori dei casi in cui tale limitazione può legittimamente disporsi per l’adempimento di un dovere (per intenderci, non commette certo sequestro di persona l’agente di polizia che arresta, nei casi previsti dalla legge, quindi limitandone la libertà personale, chi sta commettendo o è sospetto di avere commesso un reato).
La condotta di sequestro è poi ovviamente cessata quando, il 25 agosto, ottenuta la disponibilità di soli due Stati stranieri (l’Irlanda e l‘Albania, quest’ultima estranea all’UE) e della Commissione episcopale italiana ad accogliere i migranti, si è autorizzato lo sbarco. Quindi, una limitazione ridotta nel tempo, ma pur sempre una limitazione della libertà personale.
Quanto alla seconda domanda, sul carattere “ministeriale” o meno del reato imputato, il Tribunale dei ministri ha ritenuto, del tutto attendibilmente, che la condotta imputata al ministro sia stata tenuta nell’esercizio delle funzioni di governo.
La palla è dunque passata al Senato, di cui Salvini è componente. A esso spettava e spetta rispondere alla terza domanda: solo se la risposta è nel senso della concessione dell’autorizzazione si ha poi il vero e proprio giudizio, nel quale i giudici competenti si pronunciano sull’esistenza di tutti i presupposti oggettivi e soggettivi del reato e sulla pena da infliggere, e l’imputato può difendersi secondo le regole ordinarie.
Il giudizio rimesso al Senato è ovviamente il più delicato: secondo questo apprezzamento, tipicamente politico, l’imputato ha agito o no per la tutela di un interesse dello Stato costituzionalmente rilevante o per perseguire un interesse pubblico “preminente” nell’esercizio della funzione di governo?
L’autorizzazione a procedere in questo caso non ha il significato che aveva, ad esempio, il potere, demandato alle Camere dalla Costituzione fino alla riforma del 1993, di autorizzare o meno la magistratura ad indagare e processare i membri del Parlamento, per qualsiasi accusa mossa nei loro confronti. In quel caso si trattava di una eccezione intesa a salvaguardare per le Camere parlamentari la possibilità di difendere la propria autonomia e l’integralità della loro composizione anche di fronte ad iniziative della magistratura relative a singoli loro componenti, evitando ogni possibile interferenza della magistratura (che si temeva potesse essere influenzata dall’esecutivo): istituto oggi giustamente abolito, sul presupposto della piena indipendenza della magistratura e del rifiuto di quello che era diventato un vero e proprio ingiustificato privilegio dei parlamentari.
Il nostro caso è diverso. Ci possono infatti essere delle circostanze in cui chi di dovere giudichi che l’interesse pubblico richieda di autorizzare o attuare condotte che di per sé sarebbero reati, e in cui quindi sia opportuno esentare gli autori dalla responsabilità penale che secondo la legge generale dovrebbero incontrare. Proprio in questa ottica, la nostra legge prevede espressamente che gli addetti ai servizi di sicurezza (i servizi segreti) possano essere autorizzati a condotte che costituiscono reati (ad esempio un furto in un appartamento, o la creazione di un documento falso) per perseguire gli obiettivi di sicurezza dello Stato, e che quindi essi non rispondano penalmente di tali condotte. Come pure si prevede che sull’attività dei servizi possa essere opposto un “segreto di Stato” che talora può impedire, se legittimamente invocato, ai giudici di indagare, e quindi di giudicare, su fatti che di per sé possono essere reati.
È comprensibile che ipotesi di questo genere possano valere anche per i ministri nell’esercizio delle loro funzioni di governo. Vittorio Emanuele Orlando (lo statista già Presidente del Consiglio nel 1917-19) disse all’Assemblea Costituente, criticando il progetto che prevedeva la sottoposizione dei ministri, per i reati ministeriali, alla Corte costituzionale: “Il ministro ha bisogno di un giudice politico, se il suo reato è ministeriale”; la Corte costituzionale sarebbe stata, secondo lui, “di una pericolosa incompetenza per giudicare politicamente un reato ministeriale”; e, ricordando la propria esperienza di uomo di governo, Orlando aggiunse: “Io non so quanti reati abbia commessi; e non soltanto durante la guerra, quando dovevo rilasciare passaporti falsi e giunsi allora perfino ad organizzare il furto di una cassaforte” (“Ilarità”, annota il resoconto); e ancora rievocò un caso in cui era riuscito a trovare 10.000 lire fuori del capitolo giusto del bilancio che non presentava disponibilità, per puntellare l’Arco Angioino a Napoli che stava per crollare. “Commisi un reato? È probabile, ma vi domando: «Mi avreste condannato, se fossi stato mandato dinanzi a voi»”
Sono esempi del come una condotta illegale e persino costituente reato possa essere talora considerata necessaria ed opportuna, e quindi non da punire, per tutelare un interesse pubblico preminente.
Il vero problema è stabilire i limiti ammissibili di queste eccezioni all’applicazione uguale per tutti della legge penale. La nostra legge sui servizi segreti (legge n. 124 del 2007, art. 17), ad esempio, è molto precisa nell’indicare tali limiti: l’autorizzazione non può essere data “se la condotta prevista dalla legge come reato configura delitti diretti a mettere in pericolo o a ledere la vita, l’integrità fisica, la personalità individuale, la libertà personale, la libertà morale, la salute o l’incolumità di una o più persone”. Inoltre deve trattarsi di condotte “indispensabili e proporzionate al conseguimento degli obiettivi dell’operazione non altrimenti perseguibili”, costituenti “frutto di una obiettiva e compiuta comparazione degli interessi pubblici e privati coinvolti”, ed “effettuate in modo tale da comportare il minor danno possibile per gli interessi lesi”.
Nel caso dei reati ministeriali non si tracciano espressamente limiti di questa natura, e la valutazione è rimessa al Parlamento anziché alla magistratura. Ma la valutazione dell’Assemblea parlamentare non può non basarsi su analoghi limiti e criteri di comparazione di interessi e di proporzionalità. Non sarebbe pensabile che la tesi della “preminenza” dell’interesse dello Stato o dell’interesse pubblico possa essere fatta valere anche quando siano compromessi in concreto interessi di “valore costituzionale” superiore, come la vita o l’incolumità delle persone. Così, nessuno potrebbe pensare di giustificare la condotta di un ministro il quale, per perseguire l’interesse pubblico, ordinasse di uccidere (un “omicidio di Stato”) o di torturare una persona, magari per farle rivelare circostanze che rappresentano un pericolo grave per la collettività (l’ipotesi della cosiddetta “ticking bomb”: si pensa che un prigioniero sappia dove è una bomba programmata per scoppiare, e lo si tortura per farglielo dire).
Ci sono infatti valori e interessi (come la vita o la suprema dignità delle persone) la cui lesione non può essere giustificata da nessun interesse pubblico giudicato ”preminente”. C’è infatti chi, fra i giuristi, ha sottolineato la necessità che la valutazione politica dell’assemblea parlamentare, in sede di autorizzazione a procedere per un reato ministeriale, rispetti i limiti derivanti dall’esigenza di non violare diritti umani fondamentali (cfr. L. Masera, La richiesta di autorizzazione a procedere nel caso Diciotti, in Questione Giustizia, 29 gennaio 2019; Id., Il parere della Giunta del Senato per le immunità nel caso Diciotti, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, n. 1/2019).
La stessa relazione della Giunta per le immunità del Senato, presieduta dal senatore Gasparri, ha sostenuto che una violazione grave di diritti umani fondamentali, come ad esempio un omicidio “di Stato”, non solo non potrebbe essere giustificata, ma dovrebbe considerarsi come un reato non commesso dal ministro nell’esercizio delle funzioni di governo, e perciò sottratto anche alla necessità dell’autorizzazione a procedere. Conclusione discutibile in termini di stretto diritto (si pensi, nell’esperienza di altri Paesi, a casi in cui governi ordinano consapevolmente, proprio nell’esercizio delle loro funzioni, operazioni come le “extraordinary renditions”, catture in territori stranieri di sospetti terroristi, o il ricorso a pratiche di tortura “di Stato”, in violazione delle convenzioni internazionali). In ogni caso però anche questa tesi denota l’esistenza di un consenso sul fatto che nessun interesse pubblico può mai giudicarsi “preminente” sull’esigenza di evitare gravi violazioni di diritti umani fondamentali.
Nel caso concreto della nave “Diciotti”, è difficile negare che il ministro abbia ritenuto di agire come ha agito nell’esercizio delle sue funzioni governative e nella convinzione che fosse interesse pubblico ritardare lo sbarco, in modo da esercitare una pressione (peraltro sostanzialmente fallita) sugli altri Stati europei affinché condividessero l’accoglienza dei naufraghi.
Se ci si pone il problema del confronto e del bilanciamento con altri interessi di rango superiore, quale il rispetto dei diritti umani fondamentali, si può osservare che, certamente, la libertà personale dei naufraghi è un diritto fondamentale (la legge sui servizi segreti, come si è visto, esclude che possano autorizzarsi lesioni di questo diritto); ma; che, nel caso concreto, la limitazione di tale libertà nei confronti dei naufraghi, pur non legittima, non ha avuto caratteristiche di “gravità”, tenuto conto della durata limitata nel tempo e del fatto che minorenni e adulti in condizioni di salute precarie sono stati sbarcati prima (per i minori, tuttavia, solo dopo una richiesta specifica della Procura per i minorenni di Catania). Resta però il fatto di una “strumentalizzazione” delle persone dei naufraghi al fine di esercitare pressioni sugli altri Stati europei, sia pure più che giustificate dalle note politiche di chiusura: strumentalizzazione delle persone che non dovrebbe mai essere realizzata neppure per il perseguimento di un fine politico legittimo e giustificato.
Questa è dunque la scelta rimessa dalla legge costituzionale alla valutazione schiettamente politica del Senato: affermare o negare, nel caso concreto, la “preminenza” dell’interesse pubblico perseguito rispetto alla temporanea lesione del diritto alla libertà personale dei naufraghi. Non è difficile immaginare, specie dopo l’assunzione da parte del presidente Conte e del ministro Di Maio della corresponsabilità nella decisione del ministro dell’interno, e dopo il voto della Giunta, che la maggioranza a sostegno del governo, e quindi probabilmente la maggioranza assoluta del Senato, affermi tale preminenza e dunque neghi l’autorizzazione a procedere. La tesi contraria dell’opposizione potrebbe fondarsi non già su semplici ragioni preconcette di schieramento (siamo l’opposizione, quindi votiamo contro il ministro), né su un pregiudiziale disconoscimento del fatto che l’atto sia stato compiuto per valutazioni di interesse pubblico (la pressione da esercitare nei confronti degli altri Stati), ma solo sull’affermazione che l’interesse pubblico in concreto avrebbe richiesto, invece della strumentalizzazione delle persone dei naufraghi a fini politici, un’altra decisione: vale a dire la normale e immediata autorizzazione allo sbarco, riservando ad altri mezzi il perseguimento del giusto fine politico di esercitare con forza pressioni nei confronti degli altri Stati europei perché non lascino l’Italia quasi sola nella sua condizione di Paese di primo arrivo di migranti disperati, in un quadro in cui le migrazioni di massa, da Paesi devastati dalla guerra, da tirannidi, dal terrorismo o dalla estrema povertà, sono un fenomeno che richiede politiche lungimiranti e generose, di scala continentale, da parte dei Paesi più sviluppati.