Un nuovo spirito costituente per fare tesoro della Resistenza – di Annamaria Furlan

 

Testo della relazione ufficiale che Annamaria Furlan avrebbe dovuto tenere in occasione delle cerimonie per il 25 aprile a Genova

 

Il 25 aprile 1945 di settantacinque anni fa, l’Italia riconquistava la propria libertà e fondava i presupposti dell’Italia repubblicana e democratica.

Alimentare questo ricordo e le sue ragioni di valore e di sacrificio non è solo un dovere di gratitudine verso quella generazione, i nostri genitori e i nostri nonni, ma l’impegno dovuto ai nostri figli e nipoti.

Molto del loro futuro dipenderà dal tipo di eredità che lasceremo, sapendo che un paese senza memoria è un paese senza radici, che si consegna alle stagioni dell’effimero nelle quali c’è sempre qualcuno pronto a indirizzare opportunisticamente le frustrazioni, piuttosto che a costruire soluzioni.

Da quella stagione di riscatto e di riconquista della libertà, pagata con l’abnegazione anche a costo della vita di tante donne e uomini di ogni estrazione che scelsero la Resistenza, il mondo è profondamente cambiato. Eppure, i valori che guidarono quella generazione sono ancora così straordinariamente attuali e moderni: basta saperli leggere.

Ci parlano di libertà e di giustizia, ma c’insegnano che non possono esistere se non sappiamo attualizzarli, coltivarli, alimentarli.

Mai come oggi la libertà deve coniugarsi con la responsabilità e il diritto con il dovere: quindi libertà “di”, ma anche libertà “da e per”. E la giustizia deve completarla.

Può esistere benissimo libertà senza giustizia, come ci dimostra il capitalismo odierno che sa fare a meno persino della democrazia, ma senza giustizia la democrazia è finta e la libertà limitata.

Il lascito di quel 25 aprile è soprattutto questo. Presidiare allora la libertà con la buona politica, garantire la giustizia con la cultura, il lavoro, il fisco equo, le infrastrutture sociali inclusive, l’equità distributiva e realizzare tutto ciò assieme, ogni giorno, costruendo ponti non muri.

Dobbiamo farlo perché negli squilibri, quando la memoria si appanna, si fanno avanti nuovi idoli che facilmente propongono scorciatoie illusorie e bandiere che radicalizzano le differenze, sventolando contro qualcuno e mai per qualcosa, in nome di una falsa libertà o supremazia degli uni a scapito degli altri.

Ciò che sfruttarono allora i nazifascismi può trovare terreno fertile nel disagio di ogni epoca, nella esclusione dei più, nella rottura del patto generazionale e negli egoismi nazionali e di status.

Teniamolo ben presente e facciamone tesoro. Vale per le nazioni e i popoli, per l’economia e la società, per il lavoro e l’impresa.

A trent’anni dalla caduta del muro di Berlino della quale abbiamo celebrato la ricorrenza l’anno scorso, ci ritroviamo a fare i conti con situazioni che credevamo archiviate dalla storia e con nuovi muri che non pensavamo potessero sorgere, mentre oggi sono aumentati di sei volte e si estendono per oltre 40.000 km come la circonferenza della terra.  Altre divisioni e confini sono in previsione.

A quei muri fisici di ferro, mattoni e filo spinato, si accompagnano fossati culturali che dividono i paesi e scavano le società, promuovendo false identità già viste nella storia, fondate sulla contrapposizione e il desiderio di rivalsa.

Non ci stancheremo mai di ripeterlo: la memoria è l’humus della democrazia e della libertà, che non sono acquisite una volta per sempre. Il nostro compito è di farla vivere in ogni tempo, attualizzandola. CGIL, CISL e UIL, lo sanno bene.

La generazione della resistenza e poi della liberazione, proprio perché conosceva il “costo” di quella conquista, seppe anche donare al nostro paese uomini e donne che ne scrissero le pagine più nobili, dando vita alla Costituzione più bella del mondo e a un ciclo di crescita economica e di conquiste sociali senza precedenti.

Furono donne e uomini lungimiranti e generosi delle Istituzioni, del Sindacato, della società civile.

Furono donne e uomini che pur di estrazione differente, non inseguivano il consenso del giorno dopo, ma l’dea della costruzione di una casa solida e per tutti, come poi avvenne.

Seppero unire un popolo. Fortificare la democrazia, formare l’identità nazionale, promuovere la dimensione del “NOI”, al centro della quale c’erano il lavoro, il progresso della condizione umana e della comunità.

Le nostre donne spesso non adeguatamente considerate, fornirono un contributo straordinario alla liberazione prima e alla ricostruzione del paese poi.

Quanti aneddoti si potrebbero raccontare: storie di vita, di sacrifici, di speranze e di utopie che ci regalarono decenni di pace e di libertà, orientati da un sogno ad occhi aperti, operoso, e dall’impegno continuo per il presidio di questo lascito, vera e preziosa eredità della resistenza.

Ogni casa, tuttavia, soffre l’incuria del tempo e occorrono le necessarie manutenzioni, anche quando costruita su solide fondamenta.

La nostra giovane democrazia e con essa una delle più grandi conquiste promosse da quella stagione, l’Europa, vacillano scosse dalle turbolenze delle crisi oramai periodiche e sotto il peso delle loro conseguenze.

In queste crisi si entra spesso a causa delle iniquità distributive e se ne esce, quasi sempre, con il loro aumento.

Ultima, quella finanziaria del 2008, che ha lasciato cicatrici indelebili nel mondo, tanta disoccupazione, impoverimento del ceto medio, deprezzamento del lavoro, appesantimento dei debiti nazionali a scapito dello stato sociale.

L’Italia e con essa buona parte del mondo, soprattutto le aree più povere tra paesi e nei paesi, ma anche le donne, i giovani e le persone anziane hanno pagato un caro prezzo.

A fine 2019, dopo ben 11 anni che è il tempo che impiega una nuova vita ad affacciarsi al mondo, il debito non era ancora saldato e le cicatrici rimarginate.

Il mondo, l’Europa e la nostra stessa Italia in particolare, escluse poche persone che hanno ulteriormente migliorato la propria posizione, si sono ritrovate più povere, ingiuste, disorientate, quindi incattivite.

Quella crisi, mai superata, non ha insegnato molto alle “Elite”, nell’idea sbagliata o interessata, che potesse essere una parentesi tra “il prima” e “il dopo”, con riferimento alla condizione in essere precedentemente alla quale dover ritornare il più in fretta possibile. E’ successo per pochi, non è accaduto per tantissimi. E’ successo per la finanza, non è accaduto per il lavoro.

CGIL, CISL e UIL hanno denunciato, con continuità e ostinazione, l’insostenibilità del modello all’origine della crisi che aveva trasformato i fini in mezzi, subordinando la persona e il lavoro resi merci, quindi sacrificabili, all’economia e alla finanza.

Non si può reggere a lungo un modello che si fonda sulla carta a discapito della produzione, che massimizza il risultato per pochi e lascia il conto da pagare ai più, alla società, al lavoro, alle persone.

I ragazzi nati nel 2008, dopo 11 anni non hanno ricevuto in dote uno zaino di opportunità per l’ingresso nell’adolescenza e poi nell’età adulta, ma un debito da saldare senza averlo mai contratto.

Che società può mai essere quella che promuove l’arricchimento esponenziale di pochi a discapito di tanti, la distrazione consumistica a discapito del lavoro, il profitto contrapposto alla persona, l’esclusione e il respingimento rispetto alla vita?

Non sopravvivono a lungo la democrazia formale, la pace e la libertà, all’giustizia sociale.

Al contrario, é proprio in questi momenti quando gli squilibri si fanno più rilevanti, che si rischia il dietrofront della storia se non si sa cambiare.

E i sintomi dell’involuzione regressiva in atto sono evidenti da tempo: disordini e instabilità ovunque, dal Sud America all’Asia, dall’Africa alla vicina Europa, e poi conflitti e migrazioni di massa accompagnate da nuovi radicalismi nei rapporti tra paesi, dalla crescita dei nazionalismi sovranisti, dall’emergere di politiche neo colonialiste.

Nella stessa Europa ci sono preoccupanti sintomi di messa in discussione dello Stato di Diritto e di deriva autoritaria in Polonia, Turchia e Ungheria, non adeguatamente affrontati e compresi come dimostra la reticenza dei singoli paesi a rafforzare l’identità europea, perché prigionieri degli egoismi nazionali.

Qui da noi, in casa nostra, ci sono rigurgiti di razzismo e antisemitismo, che molte circostanze hanno evidenziato. Persino Liliana Segre ne è stata vittima.

CGIL, CISL e UIL non hanno mai sottovalutato questi episodi esprimendo sempre ferma condanna, tuttavia l’indulgenza colpevole di alcune aree di pensiero, ma anche di certa politica e stampa devono farci alzare la guardia.

E’ per questo, per l’evidenza di questi fatti, che il “prima noi” di turno echeggia ancor più sinistro in questo riflusso facendo breccia nella povertà culturale e nel disagio economico ed esistenziale.

Il vento nazionalista e sovranista fa leva su queste condizioni lasciando intendere alle persone, che quanto ha rappresentato la causa dei loro problemi possa essere anche la soluzione.

La storia è costellata di questi tragici paradossi.

Ma a fine 2019, solo quattro mesi fa, il mondo ha conosciuto la sua nuova tragedia e sperimentato i propri limiti. Nulla, come ciò che sta accadendo da allora, ha avuto in precedenza gli stessi effetti su tutto, su tutti e allo stesso tempo.

Il 31 dicembre 2019 le autorità locali della città cinese di Wuhan, dall’altra parte del mondo, hanno dato notizia di alcuni casi di polmonite anomala. All’inizio di gennaio 2020 erano già decine di casi e il 9 gennaio le autorità cinesi dichiaravano che ci trovavamo di fronte a un nuovo ceppo di corona virus.

Il 10 gennaio l’OMS divulgava la notizia e il 12 gennaio veniva sequenziato il virus.

Il 21 gennaio le autorità sanitarie locali cinesi e l’Oms annunciavano che il virus si trasmette tra esseri umani e il 29 gennaio in Italia c’erano solo due turisti cinesi di Wuhan contagiati.

Il 30 gennaio l’OMS dichiarava lo stato di emergenza globale e dall’11 di febbraio abbiamo iniziato a prendere contatto con un nome che dai giorni successivi ci avrebbe poi riempito la vita cambiandola: Covid-19.

L’11 marzo l’OMS dichiarava infine la Pandemia e il 13 marzo che l’Europa sarebbe diventata il suo nuovo epicentro. Un nemico sconosciuto, invisibile agli occhi, e perciò meno percepito da società materialiste abituate a misurare le cose sul piano fattuale.

Questa violenta accelerazione di accadimenti che ha bruciato in pochi giorni distanze, barriere e luoghi comuni non ha lasciato il tempo a nessuno di comprenderne la portata.

Da allora, da est a ovest, da nord a sud, ci siamo ritrovati, increduli, a dover repentinamente cambiare il nostro modo di vivere trasformato dall’isolamento sociale, come se ci trovassimo in un film di Spielberg: ma questa è la realtà.

Un solo evento traumatico di portata globale ha ridisegnato la scala delle priorità e reso incredibilmente obsolete quelle precedenti, che orientavano sino al giorno prima la nostra quotidianità.

In alcuni paesi ha prevalso per un po’ di tempo l’atteggiamento negazionista, figlio della mistificazione nazionalista contemporanea, ritardando colpevolmente le misure necessarie.

Da allora molti paesi hanno arrestato i propri sistemi produttivi per limitare i contagi. Altri lo hanno fatto di meno, sbagliando! Ci siamo resi conto di cosa significhi la catena del valore: ciò che accade a te, riguarda anche me. Prendiamone finalmente coscienza.

Quasi 1,5 milioni di persone in 208 paesi sono state censite come ammalate, di cui la metà in Europa, e più di 85.000 sono morte: poco meno di 18.300 erano in Italia.

All’emergenza sanitaria si accompagna quella economica e sociale che già oggi richiede mezzi e strumenti senza precedenti, fino a ieri impensabili.

Cominciamo a renderci conto che non siamo difronte all’ennesima crisi di quelle che abbiamo conosciuto. Nulla a che fare.

C’è molto di più, perché sfugge ai nostri parametri ed evidenzia impietosamente i nostri limiti.

E’ come se fosse un immenso “stress test” sul nostro modello di vita. E l’esito è negativo.

Ogni giorno che passa da quel 30 gennaio che ci ha sospesi in questa immensa bolla, cambiando il film delle nostre vite in un fotogramma a scatto fisso, le trasforma di più e ci costringe a fare i conti con l’incognita di un futuro oramai irrimediabilmente differente, che ha spazzato via in un trimestre abitudini consolidate e tutte le categorie sulle quali si fondava la nostra vita sino al 31 dicembre 2019. O almeno così ci ostinavamo a pensare, nonostante l’evidenza.

Non a caso lo scenario attuale ha evocato termini bellici come la necessità di pensarci in un’economia di guerra.

Queste affermazioni rimbalzeranno cupe nella testa dei testimoni della nostra resistenza, ma ben definiscono il ponte tra quella stagione e la nostra e l’importanza di custodirne i preziosi insegnamenti.

Dobbiamo allora immaginare e programmare il mondo dopo la crisi, come seppero fare e insegnarci le donne e gli uomini della resistenza, che qui ricordiamo.

La domanda alla quale oggi occorre rispondere non è tanto quando ne usciremo, certo anche, ma come, facendo cosa e per andare dove.

La tutela della salute e della vita viene prima di ogni altra cosa, ma non ci sarà concesso un secondo tempo per progettare il futuro trascorso il primo tempo dell’emergenza sanitaria. Il tempo uno e due sono sovrapposti e non dobbiamo comprare tempo, ma progettare futuro.

Come ci hanno ricordato di recente anche Papa Francesco e il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, nessuno ne uscirà da solo. E questo dovrebbe essere il primo e fondamentale insegnamento.

Gli ostacoli sono tutti nella nostra testa, ma nessun cambiamento è possibile se non si ha la capacità di pensare oltre gli schemi a qualcosa che non c’era, anche se fino a ieri pareva impossibile.

Come fu per le staffette partigiane, per tante donne e uomini che abbandonarono la loro quotidianità, le loro professioni e persino i loro cari ora come allora sono momenti di prova, ma sono anche e soprattutto momenti di scelta.

Non ci sarà una prova di appello, come non ci sarebbe stata allora: la storia non fa retromarcia.

Se siamo consapevoli di questo, dobbiamo sapere che questa pandemia ci lascerà in eredità l’evidenza della fragilità del nostro modello di vita non più riproponibile e l’opportunità di ripensarlo.

Saranno diversi il modo di produrre e di lavorare. Saranno differenti le nostre priorità, i concetti di tempo e di spazio, i rapporti tra persone e tra paesi, i beni e i servizi necessari a partire dalla sanità, dall’educazione, dalla protezione sociale.

Non ci potremo più permettere la società dei due tempi e delle tante velocità, a scapito dei giovani, delle donne, del sud d’Italia, del lavoro e della sicurezza sul lavoro e delle troppe periferie esistenziali.

Vivremo in un mondo molto più indebitato per le enormi necessità imposte dallo stop universale alle attività, ma auspichiamo più consapevole e più equo: in ogni caso profondamente cambiato.

L’epidemia affrontata con l’isolamento sociale, l’unico strumento disponibile, lacera ulteriormente le comunità e le reti di rapporti basate sulla fiducia e la prossimità’.

La paura e la diffidenza, teniamolo a mente, sono tra le poche condizioni che sopravvivono al virus.

E’ evidente che si prospetta dinanzi a noi una stagione costituente. Chi non lo comprende è cieco e sordo difronte alla realtà. Lo sarà certamente per l’Europa e non avrà prova di appello.

O saprà essere e dimostrarsi già oggi la culla della solidarietà, anziché del compromesso al massimo ribasso, che nel momento del bisogno sa reagire prontamente e adeguatamente facendo fronte comune senza reticenze o, semplicemente, “non sarà” e decreterà l’eclissi del progetto europeo, nato per garantire la pace e il futuro ai singoli Stati nazionali.

Spero che nessuno voglia assumersi questa responsabilità. A chiunque possa essere formalmente attribuita, segnerebbe comunque negativamente il futuro di tutte le comunità che ne fanno parte, consegnandone il destino all’abbraccio nazionalista avvelenato che la storia ci ha insegnato dove conduce e ai nuovi equilibri mondiali a trazione americana e cinese.

Con “buona pace” delle sovranità nazionali tanto declamate dall’armamentario della retorica sovranista e del modello europeo di economia sociale di mercato.

Le questioni sono tutte in campo: quella democratica, quella economica, quella sociale e quella distributiva.

Quindi il tema della solidarietà europea tra paesi, ma anche la cooperazione in Italia alla costruzione del domani da decidere assieme su chi fondare attraverso un patto sociale, che definisca equamente il contributo di ciascuno, ma anche la partecipazione ai benefici.

CGIL, CISL e UIL ritengono che il nuovo modello sociale debba fondarsi sulla persona, la famiglia, il lavoro e il diritto alla salute.

Se è così, dobbiamo programmarne la centralità ricucendo le differenze, superando le ingiustizie, realizzando l’universalità e l’esigibilità dei diritti fondamentali.

Credo siano evidenti le implicazioni di questa rinascita, che rifugge le semplificazioni e le banalizzazioni.

Non può esserci ricostruzione se non c’è uno spirito costituente; non può esserci la necessaria intensità, concretezza, continuità quindi motivazione, se non sono coinvolti tutti gli attori a partire dai lavoratori, perché le grandi trasformazioni si reggono sulla condivisione.

Anche il lavoro deve quindi entrare a pieno titolo nelle variabili strutturali sulle quali fondare questa stagione e sedere al tavolo della programmazione e poi della partecipazione.

Non bastano relazioni di buon vicinato tra produzione e lavoro, tra scuola e produzione, tra pubblico e privato, tra burocrazia e iniziativa privata, tra economia, società e persona: serve un’alleanza dentro regole stabili, che mettano al riparo il percorso da eventuali conflittualità contingenti.

Se parlassimo di famiglia, lo definiremmo un progetto di vita.

Solo così potremo interpretare degnamente la memoria e l’eredità della resistenza prima e della liberazione poi, praticando la memoria attiva che ci ricorda spesso la Presidente dell’Anpi Carla Nespolo.

Solo così smantelleremo la retorica nazional–sovranista e i rigurgiti di becera intolleranza sempre più frequenti.

Solo così potremo dare da un lato impulso al progetto di rinascita democratica, economica  e civile unendo il nostro popolo e i popoli tra loro, e dall’altro speranza alle persone, fiducia alle imprese, centralità al lavoro e stabilità alla pace.

Solo così saremo adeguati al compito del nostro tempo affidatoci da questo bivio della storia, affinché non si trasformi nel capolinea del lascito ricevuto dai costituenti e delle speranze di futuro per i nostri figli.

Siamo coraggiosi: ce lo chiede la storia, lo pretende la realtà.

Buon 25 aprile a tutti.

 

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Autore dell'articolo: Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell′Età Contemporanea

ILSREC - Istituto Ligure per la Storia della Resistenza e dell'Età Contemporanea. Questo Istituto, fin dalla sua fondazione nell'immediato dopoguerra persegue, con spirito di verità e rigore scientifico, lo studio e la divulgazione dei molteplici aspetti che hanno mosso e caratterizzato la Resistenza, nel quadro degli eventi che hanno drammaticamente segnato l’intera storia del Novecento.

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