Uso pubblico della storia
di Alberto De Bernardi
Con l’espressione “uso pubblico della storia” – scriveva oltre venti anni fa Nicola Gallerano – “mi riferisco a tutto ciò che si svolge fuori dei luoghi deputati della ricerca scientifica in senso stretto, della Storia degli storici, che è invece scritta di norma per gli addetti ai lavori e un segmento molto ristretto del pubblico”. All’uso pubblico della Storia appartengono non solo i mezzi di comunicazione di massa, ciascuno per giunta con una sua specificità (giornalismo, radio, tv, cinema, teatro, fotografia, pubblicità ecc.), ma anche le arti e la letteratura; luoghi come la scuola, i musei storici, i monumenti e gli spazi urbani ecc.; e infine – aggiungeva – istituzioni formalizzate o no (associazioni culturali, partiti, gruppi religiosi, etnici e culturali ecc.) che con obiettivi più o meno dichiaratamente partigiani si impegnano a promuovere una lettura del passato polemica nei confronti del senso comune storico-storiografico, a partire dalla memoria del gruppo rispettivo. Infine, larga parte nelle manifestazioni più visibili e discusse dell’uso pubblico della Storia e particolari responsabilità nella sua degenerazione hanno i politici”.
Si trattava di un primo tentativo di andare oltre la concezione dell’uso pubblico della storia come mero spazio di manipolazione del passato operato dai media, che aveva elaborato Habermas, che era stato anche l’inventore dell’espressione. Per Habermas, impegnato nella difficile e aspra discussione con Nolte e gli altri storici revisionisti sulla natura del nazismo e il suo rapporto con la storia tedesca, quando i media si impossessano del dibattito storiografico, allargandone la dimensione pubblica, la manipolazione è inevitabile. Questo destino ineluttabile dipende dal prevalere di finalità ideologiche o pedagogiche di cui si nutre la comunicazione di massa, che non solo nulla hanno a che vedere con la conoscenza del passato che contraddistingue la ricerca scientifica, ma che sono interessate a distorcerla intenzionalmente: è uno scontro titanico tra verità e menzogna. Indubbiamente la riflessione di Habermas contiene non pochi elementi di verità e di riflessione.
Basta guardare nel caso italiano come la stampa abbia affrontato, lungo il corso della storia repubblicana, il tema della Liberazione dal fascismo e della Resistenza per condividere le preoccupazioni del filosofo tedesco: nella stampa conservatrice si sono alternate sofisticate tecniche di rimozione, spinte all’oblio interessato, assunzione acritica del revisionismo nello sforzo ricorrente di superare il nesso tra la lotta di liberazione e la repubblica democratica, per spostarne l’atto fondativo dal 25 aprile 1945 al 18 aprile 1948, sostegno alla tesi che la fine del fascismo comportasse la fine dell’antifascismo dall’orizzonte degli ideali repubblicani. D’altro canto nella stampa legata alla sinistra l’impegno alla difesa dei valori della Resistenza si è tradotto in una narrazione retorica, basata su una ricostruzione parziale e spesso omissiva delle contraddizioni e dei limiti che hanno contraddistinto quell’esperienza storica, seppur cruciale per la rifondazione democratica dell’Italia postbellica, oppure su una riattualizzazione militante di quegli eventi intrisa di una epica della rivoluzione, i cui fondamenti storici appaiono labili e parziali: in entrambi i casi si tratta di operazioni culturali spesso più funzionali alle ragioni della lotta politica contingente, piuttosto che a un confronto maturo con un passato controverso e complesso come quello dell’Italia tra il ’43 e il ’45 con l’obbiettivo di renderlo condiviso per porlo a fondamento dello spirito repubblicano.
Se dalla stampa proiettassimo il nostro sguardo alla televisione o al cinema troveremmo tante conferme ai dubbi e alle preoccupazioni di Habermas: l’acceso dibattito che si è aperto in tutta Europa sul film Dunkirk di Chritopher Nolan che ha trasformato una sconfitta in una saga epica della grandezza britannica, non esente da tratti di nazionalismo, forse in ragione del nuovo clima culturale che si diffuso nel Paese dopo la Brexit, costituisce un buon esempio delle implicazioni manipolatorie della storia veicolata dai media, sempre ricorrenti anche in regimi altamente democratici come quello dell’UK. Non c’è bisogno infatti di ricordare il mussoliniano Scipione l’africano, o le esplicite finalità propagandistiche della fondazione di Cinecittà nel 1937, per evocare quanto il cinema fin dalle sue origini abbia consapevolmente utilizzato il passato per stimolare l’omologazione identitaria delle diverse società nazionali, oppure, all’opposto, per favorire processi di cambiamento radicali. Negli Stati Uniti è stata la guerra del Vietnam nell’ ultimo mezzo secolo a costituire il terreno storico di uno scontro tra destra e sinistra, tra figli e padri, tra bianchi e neri che ha avuto per oggetto l’identità e le aporie irrisolte della democrazia statunitense.
D’altronde se nei media questa attitudine manipolatoria è piu evidente, non bisogna dimenticare che l’intreccio tra la ricerca storica e suoi usi pubblici è consustanziale, potremmo dire, al lavoro dello storico, fin dai tempi di Erodoto e Tucidide, che scrissero di storia contemporanea – le guerre persiane e la guerra del Peloponneso – con l’intento dichiarato di fornire, attraverso la conoscenza del passato, gli strumenti per interpretare il presente: la storia serve per guidare gli Stati, contribuendo a costruire il discorso pubblico su cui si fonda la politica. Nella historia rerum gestarum non c’è solo la narrazione scientificamente fondata delle res gestae: c’è uno sforzo ermeneutico dello storico, posto al servizio della polis, che ha tra le sue esplicite finalità quello di definire l’identità collettiva e di innervare il profilo culturale delle forze politiche che competono nello spazio pubblico ristretto o largo che sia.
La manipolazione è dunque una degenerazione negativa di una ambivalente duplicità che è propria del lavoro storico, che trova il suo effettivo significato solo se è parte integrante della coscienza collettiva e che non può essere conculcata da nessuna pretesa di oggettiva neutralità, né invocando una sua estraneità, per cosi dire accademica, alle dinamiche della vita collettiva .
Per questa ragione la storia ha assunto un ruolo centrale nei processi di scolarizzazione degli Stati nazionali. Leggere le Istruzioni agli insegnanti dello Stato sabaudo alla vigilia dell’Unificazione nazionale è da questo punto di vista illuminante. “Lo studio della storia, importantissimo in qualsiasi condizione pubblica e privata – scriveva l’ignoto estensione di questi programmi scolastici –, ha una speciale importanza negli stati retti a libertà. Esso avvia infatti a quella vita civile alla quale ciascun cittadino più o meno direttamente partecipa”. Ma la “verità”, che veniva come fulcro epistemologico dell’insegnamento del passato, “non [era] da cercarsi – notava l’anonimo estensore del testo – nei fatti particolari, negli aneddoti, nelle minute disquisizioni. La soverchia indicazione di date e di nomi proprii offusca[va] la mente ed isterili l’insegnamento. Si bene [dovevasi] farla spiccare nel rappresentare quei fatti generali che caratterizza[rono] un’epoca e che concorsero a segnare un periodo di gloria e di sventure per qualche parte della nostra penisola”.
Da questi principi nasceva anche un progetto didattico che trovava il suo baricentro in un quadro di rilevanze ben definite che dovevano servire a togliere all’insegnamento della storia quegli elementi di erudizione archeologica e di retorica che facevano perdere di vista l’obbiettivo principale che era quello di fornire ai giovani quella griglia di valori che li avrebbe trasformati negli elementi costitutivi della futura opinione pubblica liberalmoderata “nazionale”. Erano questi in sostanza quei “ sommi capi”, secondo la nota espressione di Cesare Balbo che “nella memoria di tutti servono quasi di segnale all’opinione nazionale, che regge poi gli uomini di Stato e di governo”.
In quest’ottica quindi non solo diventava centrale l’insegnamento della storia contemporanea, ma tutta la storia diventava “contemporanea” nel senso crociano dell’espressione, in quanto il punto di osservazione, da cui si sprigionavano gli interrogativi, le finalità e i criteri con cui organizzare un corpus definito di conoscenze del passato da tramandare di generazione in generazione, era saldamente ancorato al presente e rispondeva a esigenze civili e “politiche” delle nuove élites. La scuola doveva in sostanza veicolare una conoscenza del passato incentrata sulla biografia della Nazione, una narrazione integrata del passato che trovava il suo esito nella realizzazione dello Stato Nazione: un lungo cammino dalle civiltà dell’antichità al tempo presente all’interno del quale attraverso la sapiente assegnazione di spazi temporali curricolari più o meno ampi, il potere politico selezionava una serie di rilevanze storiche – Roma, i comuni medievali, l’Umanesimo e il Rinascimento, la “crisi della libertà in Italia”, nel Cinque-Seicento, le rivoluzioni politiche del Settecento, come prodromi del Risorgimento, l’Italia unita – che non solo venivano proposte come anelli di una catena processuale dotata di una sua esplicita teleologia, ma che trovavano nella contemporaneità il loro inveramento e il loro significato formativo. A distanza di oltre 150 anni dalla legge Casati questo filo rosso si intravede ancora nei programmi della scuola italiana, seppur arricchito da altre rilevanze storiche di carattere internazionale provenienti da altre sollecitazioni culturali.
Con la scuola entriamo in un campo diverso da quello affrontato da Habermas e più in sintonia con le riflessioni di Gallerano. Nella scuola, infatti – salvo che nell’epoca della dittatura fascista – non si verifica nessuna manipolazione strumentale del sapere storico, volta a inculcare una idea del passato utile al potere politico in senso stretto, quanto piuttosto un suo effettivo uso pubblico, teso alla formazione dei giovani come cittadini, come soggetti portatori di diritti e doveri verso la comunità nazionale: la conoscenza del passato è chiamata a tramandare i fondamenti dell’identità collettiva, integrando al suo interno anche le dinamiche conflittuali che hanno attraversato il suo lungo itinerario formativo. Ovviamente questo processo non è per nulla lineare; procede per inclusioni ed esclusioni, per rimozioni e enfatizzazioni, servendosi dei risultati della ricerca storica in maniera selettiva e orientata dalle finalità dei programmi ministeriali elaborati dalle istituzioni statali. Rimanendo all’Italia, vale la pena di ricordare le difficoltà e le lentezze con cui il fascismo è diventato argomento di studio, l’assenza nel lungo cammino della storia insegnata delle minoranze religiose, l’oblio che per decenni ha caratterizzato la Resistenza o le leggi razziali del ‘38, le lotte sociali e i partiti politici nell’Italia repubblicana; persino Mazzini ha fatto fatica a entrare nella biografia della Nazione: sono questi i casi più emblematici delle contraddizioni dell’uso pubblico della storia veicolato dai manuali scolastici, che ritroviamo, ovviamente relative ad altri fenomeni storici, nei programmi di insegnamento della storia di altri Paesi, in virtù del fatto che la storia soprattutto contemporanea è attraversata da fenomeni complessi su cui si sono stratificate memorie “difficili” da integrare all’interno di una visione del passato condivisa, in qualche modo pacificata, e quindi “insegnabile”.
Perché l’uso pubblico della storia possa assumere i connotati positivi di trait d’union tra conoscenza storica e coscienza civile il passato deve essere davvero “passato”: se è invece caldo di controversie e di aporie che riguardano appartenenze ancora vivide e insuperate questo ruolo di vettore di scambi si inceppa e perde di forza, facendo riemerge il suo lato negativo di strumento potenzialmente falsificatore e manipolatore. L’uso pubblico scade cosi nell’uso politico della storia, trasformando il passato in un arma di lotta tra fazioni, che ha rescisso i suoi legami con la storiografia.
Come ho detto la riflessione sulla scuola invita a tornare sul contributo di idee e sollecitazioni fornito da Nicola Gallerano, laddove metteva in luce come nella società di massa non sia solo la scuola a svolgere il ruolo di agenzia formativa; a essa se ne affiancano altre, pubbliche e private – dai musei, ai monumenti, ai media stessi, agli istituti e le fondazioni di ricerca – che promuovono a vario titolo la conoscenza del passato. La loro opera non va interamente demonizzata o respinta, alimentando una frattura insanabile tra la storia degli storici e la storia pubblica. Gallerano invitava gli storici ad andare nella direzione opposta a quella suggerita da Habermas: stare in campo, invece che isolarsi nella torre d’avorio della purezza scientifica, contribuendo con il proprio lavoro e il proprio impegno a impedire che quella frattura si verifichi e si allarghi, trasformando la storia pubblica nello lo spazio di diffusione di versioni distorte del passato, basate su semplificazioni e falsificazioni che impediscano di assumerne la complessità, come sua cifra connotativa.
Ma nell’era della comunicazione globale questo impegno ha di fronte a sé un fenomeno inedito, che complica il lavoro dello storico nello spazio pubblico: deve confrontarsi infatti con nuova condizione dell’uomo contemporaneo stretto da un lato dalle spinte all’“oblio” proprie del consumismo di massa che svuotano di senso il passato e dal crescente dominio di un “presentismo” evasivo e senza radici che rompe il nesso fondamentale tra passato e futuro; dall’altro dall’essere immerso nella storia, parte integrante di ogni discorso pubblico e di ogni costruzione identitaria, di cui però possiede strumenti sempre piu deboli per orientarsi al suo interno e riconoscerne la complessità delle sedimentazioni mentali e materiali che la innervano: il passato diventa così una componente della babele dei linguaggi in cui l’uomo della società globale è immerso, invece che essere uno strumento critico per decodificarli, aiutandolo nel suo processo di formazione come cittadino consapevole.
Questo ruolo di bussola che Gallerano attribuiva alla ricerca storica, riguardava soprattutto gli istituti storici non accademici, nati per impegno diretto dei partiti politici della Prima Repubblica – dal Gramsci allo Sturzo e a quelli della galassia socialista – e in particolare della Resistenza e dell’età contemporanea, dei quali era stato uno dei più dinamici dirigenti, promossi da figure significative dell’azionismo, a partire da Ferruccio Parri. Più che ai singoli studiosi spettava a queste composite e ricche realtà culturali il compito di favorire e di organizzare la mediazione tra cultura storica e storia pubblica, adeguandola alle molteplici domande di senso sul passato che provengono dalla società: questo sforzo resta ancora oggi la principale “mission” di queste istituzioni, al di là della retorica, dell’arroccamento identitario e della consapevolezza della difficoltà del compito.