di Paolo Battifora, Coordinatore scientifico Ilsrec
Liguria, regione di importanza strategica
La Liguria rappresentava per i tedeschi una regione di rilevante importanza dal punto di vista strategico e produttivo.
Sin dai primi mesi dell’occupazione del territorio vennero avviati lavori di potenziamento delle difese costiere, al fine di contrastare un possibile sbarco alleato sulla riviera ligure. Se vi era incertezza sul punto esatto ove esso sarebbe stato effettuato, pochi dubbi i vertici della Wehrmacht nutrivano sulla strategia angloamericana: ancora nel luglio 1944 l’opzione ligure era considerata la più probabile rispetto a quella adriatica o provenzale. Fondamentale, alla luce di una simile preoccupazione, risultava essere il pieno controllo delle vie di comunicazione con l’entroterra, di cui doveva essere garantita la piena agibilità e sicurezza per consentire il repentino transito di uomini e mezzi nell’eventualità di operazioni belliche nemiche; un imperativo che in parte può spiegare i terribili rastrellamenti, si pensi a quello della Benedicta nell’aprile 1944, cui andarono soggette nel corso del conflitto diverse vallate liguri “infestate” dalle bande partigiane. Nessun ostacolo avrebbe dovuto frapporsi tra la costa e l’appennino, nessun blocco avrebbe dovuto ostacolare o ritardare il passaggio delle truppe lungo l’accidentato territorio ligure: uno scenario, come vedremo più avanti, che si sarebbe delineato nei giorni cruciali dell’insurrezione di Genova e con il quale dovette fare i conti il generale Meinhold.
Lo sbarco ci fu, ma non in Liguria come preventivato dai generali tedeschi. Il 15 agosto 1944 prese infatti avvio l’operazione Dragoon, che vide sbarcare in Costa Azzurra, tra Tolone e Cannes, gli uomini della 7ª armata americana agli ordini del generale Patch: benché osteggiato da Churchill, propenso invece a concentrare gli sforzi sul fronte italiano per risalire velocemente la penisola e sbarrare il passo, il prima possibile, all’avanzata verso occidente dell’Armata rossa, il piano alleato privilegiò la Provenza e una campagna bellica in terra francese che avrebbe dovuto accelerare il crollo tedesco. Risparmiata la Liguria e scampato il pericolo di uno sbarco sulle sue coste, i tedeschi poterono concentrarsi più a fondo sul movimento partigiano, cresciuto a dismisura nel corso dei mesi estivi e in grado, come nel caso delle significative esperienze delle repubbliche partigiane di Pigna, nell’alta val Nervia, e Torriglia, in val Trebbia, di assicurare non solo il controllo militare del territorio ma anche la gestione politico-amministrativa ad opera di organismi espressione dei Comitati di Liberazione Nazionale e delle popolazioni locali. Impossibilitati, dopo lo sfondamento del fronte a Cassino e la liberazione di Roma, a sottrarre uomini e mezzi impiegati nel presidio delle zone costiere liguri, a partire dalla tarda estate del 1944 i tedeschi poterono occuparsi della situazione dell’entroterra e cercare di porre termine a quei fenomeni di egemonia partigiana che, oltre ad evidenziare l’intrinseca debolezza e crescente estraneità sociale della RSI, rischiavano di mettere seriamente a repentaglio il controllo militare del territorio e la sicurezza per le truppe tedesche in caso di ripiegamento verso la pianura Padana. I durissimi rastrellamenti dell’autunno-inverno 1944 si prefissero lo scopo di risolvere drasticamente un “problema” troppo a lungo trascurato e rimandato.
Importante da un punto di vista strategico, non da meno la Liguria lo era da quello economico: gli apparati produttivi di Genova, La Spezia, Sestri Levante, Savona, Vado Ligure, Finale e altre località potevano fornire un considerevole apporto allo sforzo bellico del Reich. Controllo dell’ordine pubblico e ripresa a pieno ritmo dell’attività lavorativa furono i due cardini attorno ai quali cui ruotò, sin da subito, la politica tedesca di occupazione del territorio italiano. Nei giorni successivi all’armistizio numerosi furono gli appelli per la repentina ripresa delle attività produttive e la leale collaborazione con le autorità germaniche, appelli in cui blandizie e richiami al dovere patriottico andavano a saldarsi con ammonimenti e minacce per chiunque avesse osato organizzare scioperi, proteste o azioni di sabotaggio. Complessi industriali come Ansaldo, cui facevano capo a Genova una decina di stabilimenti per un totale di oltre trentamila lavoratori, Ilva a Savona, il polo petrolifero di Vado, Arsenale e Oto Melara a La Spezia, per citarne solo alcuni, costituivano una preziosa risorsa per il Reich, da sottoporre al più intensivo e sistematico sfruttamento.
Duro fu il prezzo pagato dalla classe operaia ligure, sospettata, non a torto, di collusione con le forze resistenziali ed esposta alla continua minaccia di arresti, ritorsioni e misure repressive: tristemente note sono le vicende che, in occasione di scioperi nel corso del 1944, portarono alla deportazione in Germania di numerosi lavoratori genovesi – nella sola giornata del 16 giugno circa 1.500 operai furono prelevati da quattro fabbriche di Cornigliano e Sestri Ponente -, savonesi, spezzini e di altre località liguri.
Partigiani di montagna e di città
Nell’estate 1944, come abbiamo visto, si verificò un significativo aumento delle forze resistenziali, galvanizzate dalle notizie della liberazione di Roma e dello sbarco in Normandia: la convinzione di un’imminente operazione degli alleati avente come obiettivo le coste settentrionali, preludio all’avanzata decisiva che avrebbe liberato l’Italia e posto fine in breve tempo alla guerra, spinse molti a raggiungere le formazioni partigiane, percepite dai tedeschi e dai loro alleati fascisti come una minaccia sempre più pervasiva e incombente. Gli stessi rapporti della Militärkommandantur 1007, organo dell’amministrazione militare tedesca, già dal mese di giugno attestavano questa allarmante dinamica in atto, tendendo addirittura a sopravvalutare la consistenza numerica del nemico e la sua efficienza bellica: stando alla sensazione avvertita dai burocrati tedeschi, estensori dei bollettini mensili, il numero delle armi in possesso ai civili sarebbe stato di gran lunga superiore a quello della Wehrmacht e i ribelli avrebbero avuto il controllo di tutte le aree dell’entroterra, con la sola eccezione delle città e dei territori costieri. Valutazioni che, a prescindere dalla loro esattezza, coglievano la realtà di un movimento che, sentendo approssimarsi il giorno della Liberazione, stava inequivocabilmente crescendo e dotandosi di solide strutture e apparati organizzativi.
A quello stesso mese di giugno risale la decisione del Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia di trasformare il preesistente Comitato militare clandestino ligure in Comando unificato militare regionale, al fine di ottenere una più efficace azione di coordinamento di tutte le formazioni operanti sul territorio. Fu in questa fase che vennero create le zone operative, i cui comandi avrebbero dovuto dettare le direttive generali delle operazioni militari e assicurare una linea di condotta la più unitaria possibile: un compito non sempre agevole e dagli esiti talora parziali ma fondamentale per imprimere maggiore forza e coesione all’azione partigiana e impedire derive e personalismi tutt’altro che improbabili.
Teatro delle operazioni delle divisioni Cascione e Bonfante furono la I Zona, che si estendeva nell’imperiese dalla valle del Roja a quella d’Arroscia, mentre nella II Zona, comprendente il savonese, operarono la 1ª divisione Garibaldi Bevilacqua e diverse altre brigate. La VI Zona (inizialmente definita III), inerente il genovesato e spaziante dalla valle dell’Orba a quella dell’Aveto, vide le azioni delle divisioni Cichero, Ligure-alessandrina (poi Mingo), Pinan-Cichero e delle brigate ad esse afferenti. Nella IV Zona, nello spezzino, le molteplici brigate presenti confluirono nella 1ª divisione Liguria Picchiara, operante a ridosso della Linea Gotica.
A queste formazioni di montagna andavano poi sommate le Squadre di azione patriottica (SAP), formatesi nell’estate 1944 soprattutto nelle grandi fabbriche dei capoluoghi liguri, il cui operato nei centri urbani, in continuità ideale con le precedenti azioni dei Gruppi di azione patriottica (GAP), costituì una continua spina nel fianco per i tedeschi e i fascisti e svolse un ruolo decisivo, emblematico in proposito il caso di Genova, nei giorni dell’insurrezione generale.
Resistenza senz’armi
Se è vero che gli uomini e le donne saliti in montagna per unirsi alle formazioni partigiane o attivi nelle SAP cittadine fecero la scelta più rischiosa e difficile, va tenuto altresì presente come la loro lotta sia stata resa possibile da tutti coloro che, senza aver mai imbracciato un’arma, contribuirono attivamente affinché la Resistenza potesse affermarsi e consolidarsi. Stiamo parlando dei tanti uomini e ancor più delle tante donne che, a rischio della loro stessa incolumità e di quella dei loro cari, fornirono un apporto dalle molteplici caratterizzazioni rivelatosi prezioso e indispensabile per il prosieguo della lotta. Un contributo, quello della Resistenza civile, certamente meno visibile ed eclatante rispetto a quello della Resistenza armata ma non per questo di minor importanza e valenza etica. Si pensi alla solidarietà, a vario titolo manifestata, dal mondo contadino, in assenza della quale la Resistenza non avrebbe potuto attecchire e prosperare: un rapporto, quello con la società rurale, estremamente delicato ma da preservare ad a ogni costo, anche ricorrendo a draconiane misure a fronte di furti, sopraffazioni e comportamenti impropri tenuti da singoli partigiani o di condotte riprovevoli ad opera di certe formazioni, suscettibili in tal caso, come avvenuto ad esempio per la cosiddetta Banda del Croato, attiva fino al luglio 1944 nella zona di Ottone e Bobbio, di essere disarmate e sciolte. Le severe pene inflitte dai tribunali partigiani, esecuzione capitale compresa, rispondevano alla primaria esigenza di impedire qualsiasi frizione e sopruso a danno dei contadini che potessero mettere in pericolo il rapporto di stima e fiducia reciproca e compromettere il radicamento sul territorio delle formazioni combattenti. Adamantina doveva essere la condotta dei partigiani, che non potevano correre il rischio di venir percepiti come volgari approfittatori: precise norme regolavano requisizioni, prelievi, confische e con estrema cura venivano adottate misure e interventi che rispettassero il più possibile i fragili equilibri sociali e del territorio. Dell’apporto del mondo contadino la Resistenza non poteva proprio fare a meno.
Una scelta di campo, quella delle comunità contadine liguri, che scatenò in molti casi le ritorsioni di tedeschi e fascisti che, ricorrendo a misure terroristiche, cercarono di spezzare la catena di solidarietà instauratasi con le bande partigiane. Appoggiare la Resistenza, pur senza imbracciare un’arma, poteva comportare la perdita della casa, dei beni, del bestiame, del raccolto, della libertà, dell’integrità psico-fisica e, talora, della stessa vita; incendi furono appiccati per rappresaglia ai paesi di Triora e Castelvittorio nell’imperiese e di Cichero in val Fontanabuona, distruzioni, saccheggi e violenze si verificarono nel corso dei rastrellamenti in tutta la regione. Toponimi come Fascia, ove si può ammirare il monumento a “Bisagno”, il celebre partigiano Aldo Gastaldi comandante della divisione Cichero, e Moconesi Alto, rifugio di Antonio Zolesio, comandante di una formazione di Giustizia e Libertà, Triora e Iscioli in val Graveglia, Varese Ligure e Zignago, per citarne solo alcuni, testimoniano il profondo legame tra movimento resistenziale e popolazione locale.
Genova: verso l’insurrezione generale, tra incognite e contrasti con le missioni alleate
Arrestatasi l’avanzata alleata in autunno e recepito con un certo sconcerto il proclama Alexander, diramato il 13 novembre 1944, che nell’invitare i partigiani ad attrezzarsi per far fronte agli imminenti rigori invernali chiedeva la sospensione delle operazioni “su larga scala”, in attesa della propizia stagione primaverile, in quei difficili mesi, tra i più duri dell’intera vicenda resistenziale, i comandi della Resistenza misero a punto i piani insurrezionali che avrebbero dovuto scattare all’ora X, in concomitanza con l’arrivo delle truppe alleate.
Soffermiamoci sul caso genovese. Gli uomini del CLN e delle formazioni militari erano consapevoli che la strategia militare per la liberazione della città dovesse anche contemplare una serie di efficaci
misure atte alla salvaguardia del patrimonio infrastrutturale e produttivo. I tedeschi, in conformità al famigerato “piano Z” (l’iniziale stava per Zerstörungen, distruzioni) emanato dal Führer, al momento della ritirata avrebbero dovuto attuare la sistematica distruzione di ponti, gallerie, centrali elettriche, acquedotti, impianti, fabbriche, cantieri per impedire al nemico l’utilizzo di qualsiasi impianto e infrastruttura: un ordine che, se scrupolosamente osservato, avrebbe comportato la devastazione dei principali insediamenti produttivi e strutture economiche di Genova, porto e diga foranea comprese. Una prospettiva spaventosa che non sfuggiva di certo alle forze resistenziali: un’insurrezione vittoriosa, ma ottenuta al prezzo di immensi cumuli di macerie, si sarebbe rivelata in realtà una catastrofe.
Non rassicuranti erano i dati disponibili sulle forze nemiche di stanza a Genova, stimate in un documento partigiano del 29 marzo 1945 in circa 4.000 tedeschi della Brigata da fortezza al comando del colonnello Almers, dalla cui competenza esulava solo l’area portuale sottoposta al controllo della Marina, e in circa 5.000/6.000 fascisti; a livello regionale si ipotizzava la presenza complessiva di circa 54.000 tedeschi e circa 33.000 fascisti. Le sorti della guerra, con la ripresa in aprile dell’offensiva alleata, erano ormai segnate per la Germania ma evidente era il divario sussistente tra le forze in campo: la dotazione bellica di un esercito regolare non era neanche lontanamente paragonabile a quella di volontari combattenti per la libertà. Un’errata o semplicistica valutazione dei fattori in gioco avrebbe potuto portare al disastro e a un bagno di sangue per gli uomini e le donne della Resistenza.
Il cosiddetto “Piano A”, frutto di un lungo lavoro, iniziato già nell’ottobre 1944, di progressiva calibratura e perfezionamento, mirava al coordinamento di tutte le azioni che le formazioni partigiane della VI Zona, sia di montagna sia di città, avrebbero dovuto mettere in atto nei giorni dell’insurrezione generale di Genova. Varato definitivamente agli inizi di aprile dal Comando della VI Zona, contestualmente alla creazione a Genova del Comando Piazza, cui sarebbe stata demandata l’organizzazione e il coordinamento delle squadre operanti in una città suddivisa in settori di specifica competenza, il “Piano A” venne portato a conoscenza degli ufficiali della missione inglese “Clover”, guidata dal colonnello Peter McMullen e dal maggiore Basil Davidson, che insieme alla missione americana “Peedee” venne paracadutata nel gennaio 1945 nell’entroterra genovese per prendere contatto con i vertici della Resistenza. Il confronto non andò esente da contrasti, stante le preoccupazioni alleate per la discesa dei partigiani in città e la presa del potere da parte di un movimento in cui preponderanti erano le forze della sinistra: il timore di un’egemonia dei comunisti e di potenziali scenari da guerra civile spinsero infatti gli ufficiali inglesi a respingere nettamente l’ipotesi di una insurrezione generale, opzione ritenuta non solo velleitaria per la presenza ancora in città del contingente tedesco ma gravida di perniciose conseguenze sul piano sociale. La strategia perorata mirava piuttosto a rallentare il più possibile la ritirata degli uomini del generale Meinhold, a preservare gli impianti e il porto, a rimanere sul posto in fiduciosa attesa dell’arrivo degli eserciti liberatori, con la predisposizione a recepirne le disposizioni. Solo un “numero minimo di partigiani necessari” avrebbe dovuto permanere in città nei giorni tra la ritirata tedesca e l’arrivo delle truppe americane: una vigile passività del partigianato di montagna sarebbe stata la soluzione ideale per gli Alleati. Insomma nessuna sollevazione, nessuna calata in massa su Genova, nessuna presa del potere ad opera delle forze partigiane.
La perentoria richiesta, seppur parzialmente mitigata da considerazioni pragmatiche, venne seccamente respinta e alla fine gli ufficiali alleati dovettero, come si suol dire, far buon viso a cattivo gioco. Ma le cose, per loro, andarono nel migliore dei modi, addirittura al di là di ogni più rosea aspettativa: non solo l’insurrezione ci fu ma i partigiani riuscirono addirittura a costringere alla resa il generale Meinhold, a consentire alla 92ª divisione Buffalo di entrare comodamente in città, il 27 aprile, senza dover sparare un solo colpo, a garantire l’ordine pubblico nei convulsi giorni del trapasso dei poteri, evitando la temuta situazione di anarchia. E, aspetto che più premeva agli alleati, nessuna contrapposizione frontale venne a crearsi da parte dei capi della Resistenza, che si astennero dal lanciare proclami incendiari, suscettibili, in quel contesto, di far deflagrare una possibile guerra civile per la conquista del potere. Insomma un autentico “wonderful job”, uno splendido lavoro, come venne definito a caldo in un messaggio della missione americana “Peedee”, che rese protagonista Genova di un evento unico in tutta Europa: la resa di un generale tedesco nelle mani di un operaio.
“Wonderful job”: la liberazione di Genova
L’insurrezione generale genovese partì per iniziativa del Comando SAP il tardo pomeriggio del 23 aprile nel ponente cittadino, prima ancora che fosse stato diramato l’ordine ufficiale del CLN, giunto alle prime ore del 24 aprile, dopo una riunione notturna con il Comando militare regionale tenutasi presso l’Istituto San Nicola sotto la presidenza di Paolo Emilio Taviani. Un manifesto rivolto al popolo genovese invitava “le forze sane della nazione, le forze dell’antifascismo militante, le SAP, i nostri giovani partigiani che da mesi anelano a questo momento di riscossa e di vittoria” a sollevarsi per conquistare il potere e instaurare “l’ordine democratico alle dipendenze del CLN”.
Il 24 aprile infuriarono i combattimenti in una città in cui alcune zone risultavano ormai liberate dalle forze partigiane, altre restavano ancora saldamente in mano tedesca e altre ancora erano oggetto di aspra contesa. L’azione concertata, secondo le direttive del “Piano A”, delle SAP cittadine e delle brigate volanti Balilla e Severino, coadiuvate dalle formazioni di montagna, stava dando i suoi frutti, circondando e isolando sempre più i presidi tedeschi non ancora arresisi. Pressoché assenti, in quei cruciali frangenti, i fascisti, che a dispetto delle roboanti dichiarazioni di lotta estrema non imbracciarono le armi per sventare l’insurrezione partigiana: tranne un pugnace reparto della X Mas, asserragliato in porto e arresosi il 26 aprile, i circa 1500 uomini della Brigata Nera “Silvio Parodi” e della Guardia nazionale repubblicana, con alla testa il commissario straordinario Luigi Sangermano e il federale Livio Faloppa, avevano già lasciato la citta la sera del 23 aprile, aggregandosi a una colonna tedesca – sarebbe stata l’ultima a riuscire a partire – diretta verso nord.
Quale la condotta del generale Günther Meinhold in queste circostanze? A capo dal marzo 1944 del comando di Genova, con una competenza territoriale che spaziava dal passo del Turchino alla cittadina di Levanto, il generale della Wehrmacht nelle settimane precedenti aveva avviato, in gran segreto, contatti con il partigiano Carmine Alfredo Romanzi, futuro Magnifico Rettore dell’Università di Genova, al fine di prospettare al CLN un possibile accordo. Consapevole della sconfitta ormai inevitabile per la Germania, Meinhold proponeva alla Resistenza un patto ritenuto vantaggioso per entrambe le parti in causa: i tedeschi avrebbero rinunciato a mettere in atto, in ottemperanza agli ordini di Hitler, le paventate distruzioni degli impianti e strutture cittadine se le forze della Resistenza si fossero impegnate a non ostacolare la ritirata dell’esercito verso la pianura padana. Un do ut des che venne però seccamente respinto dal CLN, fermo nel rifiutare ogni patteggiamento e nell’intimare al generale tedesco la resa senza condizioni.
Resa che venne firmata alle ore 19.30 del 25 aprile a villa Migone, residenza privata del cardinal Pietro Boetto situata nel quartiere di San Fruttuoso: assistito dal capitano Asmus e dall’interprete Joseph Pohl, suicidatosi all’alba del giorno successivo, Meinhold appose la storica firma al cospetto di Remo Scappini, presidente del CLN e dirigente comunista, dell’avvocato Errico Martino, rappresentante del partito liberale, del maggiore Mauro Aloni, comandante della Piazza di Genova e del console tedesco Von Etzdorf, accompagnato da Giovanni Savoretti, membro del CLN; partecipò all’incontro, su esplicita richiesta del generale, anche Carmine Alfredo Romanzi. “Popolo genovese, esulta! È finalmente giunta l’ora tanto attesa della liberazione!”, avrebbe annunciato alla radio, il mattino del 26 aprile, un emozionato Taviani.
Rifiutavano ancora di deporre le armi i reparti della Kriegsmarine al comando del capitano di vascello Max Berninghaus che, presenti in porto, a Nervi e nelle batterie di Monte Moro sulle alture del levante cittadino, erano decisi a resistere ad oltranza, forti delle loro posizioni strategiche: anche loro si sarebbero infine arresi, il 28 aprile, agli americani, ormai giunti in città.
Le ragioni della resa del generale Meinhold
Perché Meinhold si arrese? Leggendo il memoriale da lui scritto nel dopoguerra – l’originale, con firma autografa, è conservato nell’Archivio ILSREC – e pubblicato in sei puntate sul “Secolo XIX” a partire dal 26 aprile 1949, emerge con evidenza come siano state motivazioni di carattere etico e umanitario a spingere il generale a compiere il grande e sofferto gesto, dettato esclusivamente dalla volontà di evitare ulteriori spargimenti di sangue e ascrivibile a un retto comportamento, indice di nobiltà d’animo e disinteressata abnegazione. Senza voler sottovalutare i possibili richiami della coscienza, i rovelli interiori e una tardiva resipiscenza – quasi fuori tempo massimo – nei confronti del Führer e dell’ideologia nazista, le pagine del memoriale di Meinhold, funzionali a fornirne un apologetico ritratto, si guardavano bene però dall’accennare al quadro della situazione sul territorio in quei giorni cruciali: il controllo partigiano delle statali 35 e della camionale in valle Scrivia e della statale 45 in val Trebbia, uniche vie di comunicazione con la pianura Padana, avrebbe reso estremamente ardua e lenta la ritirata dell’esercito tedesco, continuamente esposto alle sortite della guerriglia partigiana, favorita dall’accidentata e scoscesa conformazione delle valli liguri, e agli attacchi dell’aviazione alleata, da tempo dominatrice incontrastata dei cieli. Le truppe di Meinhold non sarebbero mai riuscite a raggiungere il Po prima degli Alleati, entrati a Bologna il 21 aprile e in rapida risalita lungo la via Emilia, e vano sarebbe quindi risultato un ulteriore sacrificio di uomini. Fu una lucida lettura della situazione militare, e non esclusivi scrupoli umanitari, a convincere Meinhold dell’insensatezza di una prosecuzione dell’azione bellica e dell’inevitabilità della capitolazione, passo in ogni caso quanto mai sofferto per un militare che non si sarebbe arreso a un pari grado dell’esercito nemico ma a dei civili, rappresentanti politici di quei combattenti bollati sprezzantemente dalla propaganda tedesca come volgari “Banditen”. Nelle sue memorie Remo Scappini ricorda che Meinhold “a tratti appariva nervoso e a tratti assente” e che, a disagio di fronte a dei civili, dava l’impressione di tergiversare, forse sperando in un repentino arrivo degli americani.
Un intero contingente tedesco era così capitolato al cospetto non di un generale nemico ma di un operaio, presidente del CLN ligure e rappresentante, in quel fatidico frangente, della nuova Italia, proiettata verso un futuro di pace, libertà e giustizia. In quel salone di villa Migone, tutt’ora conservato nel suo arredamento originale, erano idealmente presenti tutti gli uomini e le donne che, con o senza un’arma in pugno, in montagna o in città, in fabbrica o nei quartieri, in tuta da lavoro o in abiti civili, in uniforme o in vesti talari, avevano reso possibile, con un sacrificio talora estremo, il raggiungimento di uno straordinario obiettivo: la liberazione di Genova e la resa tedesca prima dell’arrivo degli Alleati. “Wonderful job”, un risultato senza pari in Europa, di cui conservare la memoria e andar fieri.
Per saperne di più
Il testo di riferimento per la storia della Resistenza in Liguria è Giorgio Gimelli, La Resistenza in Liguria. Cronache militari e documenti, 2 vol., Roma, Carocci, 2005.
Su Genova per il periodo che intercorre tra l’8 settembre e la liberazione cfr. Maria Elisabetta Tonizzi, Paolo Battifora (a cura di), Genova 1943-1945. Occupazione tedesca, fascismo repubblicano, Resistenza, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015.
Sulla liberazione di Genova cfr. Maria Elisabetta Tonizzi (a cura di), “A wonderful job”. Genova aprile 1945: insurrezione e liberazione, Roma, Carocci, 2006.
Per le notizie e i dati essenziali sui protagonisti, luoghi, eventi, organismi e formazioni della Resistenza ligure cfr. Franco Gimelli, Paolo Battifora (a cura di), Dizionario della Resistenza in Liguria, Genova, De Ferrari, 2008.
Per le schede biografiche di tutti i partigiani liguri ufficialmente riconosciuti cfr. la Banca dati del partigianato ligure, consultabile sul sito internet dell’Istituto ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea “Raimondo Ricci” (www.ilsrec.it).