Donne nella Resistenza

La Resistenza “taciuta”

Guerriere silenziose, le donne in migliaia hanno preso parte alla Resistenza, offrendo un significativo contributo. Si constata che solo una minima parte di esse ha avuto il meritato “riconoscimento”. E anche i numeri riportati sui documenti ufficiali tendono a essere solo in parte veritieri, perché migliaia, infatti, sono le partigiane destinate a rimanere nell’anonimato, forse perché ritenute poco importanti. Arrivate a ricoprire il proprio ruolo attraverso vie diverse, le donne, nonostante un certo scetticismo maschile, hanno fatto la loro parte.

Secondo Ada Prospero Gobetti, vedova di Piero, martire del primo antifascismo italiano, e medaglia d’argento al valore militare per la sua partecipazione alla lotta di liberazione, “nella Resistenza la donna fu presente ovunque: sul campo di battaglia come sul luogo di lavoro, nel chiuso della prigione come nella piazza o nell’intimità della casa. Non vi fu attività, lotta, organizzazione, collaborazione a cui ella non partecipasse: come una spola in continuo movimento costruiva e teneva insieme, muovendo instancabile il tessuto sotterraneo della guerra partigiana” (Diario partigiano, Torino, Einaudi, 1956).
Riportiamo alcuni dati, relativi alla presenza delle donne nella Resistenza, forniti dall’Anpi (Associazione nazionale partigiani d’Italia) e ripresi anche da Donatella Alfonso in Ci chiamavano libertà. Partigiane e resistenti in Liguria 1943-1945 (Genova, De Ferrari, 2012, II ediz. ampliata 2013):

35.000 combattenti
20.000 patriote
70.000 nei Gruppi di difesa della donna (v. più sotto)
4653 arrestate
2812 impiccate o fucilate
2750 deportate nei campi di sterminio
1070 cadute in combattimento
891 (di cui 112 in Liguria) deferite al Tribunale Speciale nel corso di diciassette anni di attività
19 medaglie d’oro
17 medaglie d’argento

Donatella Alfonso nella sua opera sostiene, tuttavia, che i calcoli degli esperti militari facciano salire ad almeno un milione il numero delle donne impegnate, a vario titolo, nella rete della Resistenza. Eppure soltanto in anni recenti si è iniziato a mettere a fuoco tale partecipazione, con studi e pubblicazioni specifiche. A questo proposito annota la storica Anna Bravo: “le giovani partigiane sono preziose, hanno il talento dell’iniziativa, padroneggiano il territorio, sanno mimetizzarsi e vestirsi, passano (si spera, passino) più facilmente ai posti di blocco”.

La partecipazione femminile alla Resistenza fu, inoltre, un fenomeno quasi esclusivamente collettivo: come ha osservato Ada Gobetti, “caratteristica fondamentale della Resistenza femminile, che fu uno degli elementi più vitali della guerra di liberazione, è proprio questo suo carattere collettivo, quasi anonimo, questo suo avere per protagoniste non alcune creature eccezionali, ma vaste masse appartenenti ai più diversi strati della popolazione, questo suo nascere non dalla volontà di poche, ma dall’iniziativa spontanea di molte”.
L’accettazione delle donne, da parte maschile, non fu facile. Inizialmente molti compiti a loro affidati rientravano nella sfera del cosiddetto maternage, ovvero in attività ritenute dalla società del tempo tipiche della donna e consone alla sua “natura” quali il cucinare per le brigate partigiane e il prendersi cura dei feriti e dei malati; alcune affermano di essersi sentite talvolta madri e sorelle, poiché i loro compagni partigiani confidavano a loro le proprie preoccupazioni e paure. Compiti ancora più importanti e rischiosi erano quelli legati al ruolo di staffette (si veda più sotto), incarico di grande importanza per la trasmissione di informazioni e consegna di materiali affidato spesso a giovani ragazze proprio perché “avrebbero dato meno nell’occhio”.
Prima ancora che nasca la Resistenza le donne furono protagoniste degli scioperi del 1943. Il fascismo aveva esaltato i compiti esclusivamente domestici della figura femminile ma, con l’entrata in guerra, le donne acquisirono un ruolo di primo piano nelle fabbriche e nei servizi pubblici. A causa della partenza degli uomini per il fronte, dei bombardamenti, degli sfollamenti e dello sfruttamento in fabbrica (le donne, a parità di mansioni, erano pagate la metà degli uomini, benché svolgessero anche il lavoro notturno e turni di 12 ore), l’esasperazione nel marzo 1943 era sul punto di esplodere: “si preparava – ricorda la partigiana Anna Fenoglio – lo sciopero contro la guerra, per i prezzi, per i cottimi individuali, contro le dodici ore, perché eravamo stufe e basta”. Forte, negli scioperi del 1944, risultò la presenza femminile e spesso furono proprio le donne a indurre gli uomini alla sospensione del lavoro.
Nel novembre del 1943 nacquero a Milano i Gruppi di difesa della donna (GDD), su iniziativa di donne del PCI (Rina Piccolato, Giovanna Barcellona, Lina Fibbi), del Partito d’Azione (Ada Gobetti) e del PSI (Lina Merlin). A Genova si costituirono agli inizi del 1944, ad opera di Elettra Prampolini ed Edera Batini.
Il lavoro dei GDD consisteva nell’assistenza in varie forme ai partigiani, aiuto economico alle famiglie dei deportati e dei combattenti, organizzazione di sabotaggi, attività di propaganda, raccolta di fondi.
Con il passare dei mesi e il progressivo affermarsi della Resistenza, le donne vennero a ricoprire una pluralità di mansioni quali staffette, infermiere, vivandiere, cucitrici, ricercatrici di finanziamenti, stampatrici di giornali, amministratrici di denaro destinato al movimento, offrendo anche la disponibilità a nascondere uomini per sottrarli al lavoro coatto o all’arruolamento nelle milizie di Salò.
Le donne non ebbero quindi una particolare specializzazione, si occuparono, possiamo dire, di tutto, anche di combattere con le armi un pugno.

Staffette
Il compito più caratteristico, e unico ad essere stato sostanzialmente riconosciuto, delle donne nella Resistenza è stato quello di staffetta: un ruolo che si distanzia dall’immagine tradizionale della donna impegnata in attività tra le mura domestiche (cura dei feriti, confezione degli abiti ecc.) ma che non coincide neppure con la lotta armata.
Il termina staffetta  allude ai numerosi passaggi di mano dei messaggi da loro portati. Il loro numero fu molto alto e nella sola Firenze, per fare un esempio, ne furono censite circa 400.
La loro attività sarebbe stata impensabile prima della guerra, perché presupponeva una notevole libertà di movimento, sia per le nubili che per le sposate: le staffette potevano viaggiare anche per diversi giorni, pernottando in qualche cascinale, e i continui spostamenti a piedi, in bicicletta, talora in treno o con mezzi di fortuna erano giustificati, agli occhi dei genitori o dei vicini di casa, con la necessità di trovare qualcosa da mangiare nelle campagne.
Le staffette sapevano di correre il rischio di essere imprigionate, di subire possibili violenze e, in ultima analisi, di perdere la vita. Di seguito elenchiamo alcune norme di comportamento, evidenziate dalla storica Marina Addis Saba, che le staffette dovevano attentamente seguire:

– non dovevano far conoscere a nessuno il loro compito e la loro provenienza;
– nella casa in cui vivevano dovevano far credere di svolgere un lavoro normale;
– dovevano avere sempre una giustificazione pronta nel caso fossero state fermate durante il viaggio;
– dovevano essere sempre puntuali agli appuntamenti;
– dovevano assicurarsi di non essere seguite;
– se si fossero accorte di essere seguite da qualcuno non dovevano presentarsi all’appuntamento;
– dovevano informare subito il dirigente partigiano se fosse accaduto loro qualche incidente;
– dovevano nascondere il materiale nel modo migliore e camminare con disinvoltura;
– quando consegnavano il materiale non dovevano rivelare ciò che avevano portato.

Si usava di tutto per nascondere i messaggi da recapitare, persino giarrettiere, reggiseni, calze, pancere; da una testimonianza sappiamo che una donna, di un paesino sulle alture di Genova, trasportava i suoi biglietti nascondendoli tra i capelli in uno chignon.
Oltre ai messaggi le staffette potevano portare cibo, vestiario, medicine, armi, ricetrasmittenti e avevano spesso il compito di spiare i movimenti dei tedeschi e dei fascisti e di tenere i collegamenti tra le formazioni di montagna e i partigiani operanti in città.
Alcune di loro erano poco più che bambine, come la futura giornalista e scrittrice Oriana Fallaci che, figlia di un padre partigiano, a soli 13 anni faceva la staffetta, portando copie di giornali e accompagnando ex prigionieri anglo-americani verso le linee alleate. La più giovane staffetta uccisa dai tedeschi risulta essere Ada Marongiu, del gruppo di GL in val Maira, fucilata a 18 anni a Dronero, in provincia di Cuneo.

“Fattorine”
Erano soprattutto donne a organizzare e diffondere la stampa clandestina. Il giornale più diffuso era “Noi donne” ma numerosi fogli nascevano un po’ ovunque. Raramente, però, le donne scrivevano: il loro compito consisteva soprattutto nel raccogliere i testi scritti dai partigiani, portarli in tipografia, ritirare i giornali, fogli, volantini e diffonderli con il “porta a porta” la mattina presto, distribuirli nelle piazze, stazioni, mercati (magari con comizi volanti), fabbriche.

Infermiere
Le donne assistevano i partigiani feriti e i malati negli ospedali pubblici o in centri di pronto soccorso da loro creati e gestiti.
Renata Viganò, autrice del romanzo L’Agnese va a morire (1949), seguì il marito e il figlio nella Resistenza, dirigendo il servizio sanitario della brigata che operava nelle valli di Comacchio.

Partigiane combattenti
Furono circa 35.000, cifra che può apparire modesta rispetto al totale dei partigiani combattenti (circa 235.000) ma che va contestualizzata, pesando notevolmente la differenza tra i due sessi: gli uomini avevano conosciuto l’addestramento e la vita militare e questo fece sì che per loro potesse essere “quasi normale” entrare nelle formazioni partigiane e imbracciare un’arma. Inoltre se per molti maschi la lotta partigiana fu una scelta dettata spesso dalla necessità di evitare i bandi di arruolamento per l’esercito di Salò o di sfuggire a probabili arresti, retate, deportazioni in Germania come lavoratori coatti, questo non si verificò per le donne.
Alcune diventarono combattenti per seguire il marito, il fratello, il fidanzato. Il reclutamento, sia per le staffette che per le combattenti, avveniva spesso tramite i GDD. Una volta accolte nelle formazioni vigeva però la parità: le donne avevano gli stessi compiti degli uomini, dai turni di guardia alla pulizia delle armi e ai combattimenti.
Nonostante ciò, le resistenze mentali maschili restarono notevoli. In val d’Ossola, durante i quaranta giorni della repubblica, votavano solo i capofamiglia, non le donne.
La presenza femminile non mancò neppure nei GAP, formazioni operanti in ambito cittadino dedite ad attentati nei confronti degli esponenti dell’esercito tedesco e della RSI.
Molte furono le donne che subirono torture e violenze sessuali, tragiche esperienze di cui preferirono non parlare a guerra conclusa. Molte furono deportate nei lager nazisti, in prevalenza in quello di Ravensbrück, specificamente destinato alle prigioniere, ove vennero utilizzate come manodopera coatta per le esigenze belliche tedesche.

Le donne nella liberazione di Genova

Il Dizionario della Resistenza in Liguria, curato da Franco Gimelli e Paolo Battifora (Genova, De Ferrari, 2021), riporta una numerose voci di donne, fra cui quella di una religiosa.

Donatella Alfonso nel libro già citato riporta quelli che si ricavano dal volume La donna nella Resistenza in Liguria (Firenze, La Nuova Italia, 1979), i cui curatori hanno incrociato gli elenchi dei distretti militari di Genova, Massa Carrara (che comprende anche Spezia) e Savona-Imperia con le qualifiche pubblicate fra il 1946 e il 1947 dal giornale “Il partigiano” e gli elenchi stilati dall’Anpi.

Le resistenti risultano:
908 a Genova e provincia (di cui 608 combattenti);
335 a Savona (210 combattenti);
188 a Spezia (131 combattenti);
183 a Imperia (102 combattenti),
per un totale di 1614 donne, di cui 1051 combattenti.

Fra costoro 49 furono le donne fucilate o cadute in combattimento (22 a Genova, 18 a Savona, 6 a Imperia e 3 a La Spezia).
Tuttavia in Liguria, forse più che altrove, i dati non corrispondono alla situazione di fatto. Come sottolinea infatti Donatella Alfonso, di molte partigiane non si conosceva la vera identità, ma solo il nome di battaglia, e su altre ancora non è rimasto alcun cenno, nonostante a Genova avessero operato tre brigate femminili, a Savona e provincia vi fossero state partigiane fucilate e l’attività di piccoli gruppi si fosse registrata un po’ ovunque nel territorio regionale. Nel momento in cui risultò chiaro che la lotta contro le forze tedesche poteva essere effettuata non solo con le armi ma anche con forme di “resistenza civile”, le donne vollero dimostrare di essere in grado di agire al pari degli uomini, pur rimanendo in città e continuando, apparentemente, la stessa vita di sempre. Il volume di Donatella Alfonso riporta molte interviste, da cui emergono alcuni elementi comuni: i ricordi d’infanzia e la famiglia, i primi contatti con la Resistenza, i luoghi in cui si svolse l’attività partigiana e i primi incarichi. Eccone due esempi e il ritratto di una partigiana caduta.

Nina Bardelle
“Io protesto quando vedo cose che non mi piacciono. Non ci si può tirare indietro: la mia politica è questa”. Nina Bardelle ha sempre vissuto a Genova, crescendo in una famiglia antifascista dichiarata. A sedici anni iniziò a lavorare presso l’Ansaldo di Campi ed è proprio in questo periodo che decise di aderire alla Resistenza. Nel 1944 entrò quindi a far parte delle SAP, con il compito di raccogliere beni necessari alla sopravvivenza dei partigiani. Successivamente assunse l’incarico di staffetta e partecipò ad alcune azioni di sabotaggio, con l’appoggio morale del padre.
Il 16 giugno assistette al rastrellamento degli operai delle fabbriche di Sestri Ponente e, insieme ad un gruppo consistente di donne, cercò di ostacolare la partenza dei treni destinati ai lager tedeschi.

Tina Tomanelli
“L’avrei fatta volentieri la politica attiva, ma mio marito mi ha detto: ‘Tu far politica che ti toglieresti quello che hai addosso per darlo agli altri?’. E non l’ho fatta”.
Nata a Napoli nel 1920, ha lavorato a Genova presso l’anagrafe. La dimensione della politica, all’interno del suo nucleo familiare, si limitò alla partecipazione alle adunate fasciste. Nel 1943 assunse un incarico importante presso i telefoni di Stato: doveva avvertire le fabbriche della val Polcevera degli allarmi aerei. Iniziò ad avvicinarsi all’attività partigiana in seguito all’adesione al movimento di lotta da parte dei suoi fratelli, nonostante la loro opposizione. Al termine della guerra venne chiamata in Corte d’Assise per testimoniare al processo di Alfredo Grazzini, vice federale di Genova.

Felicita Agostina Noli (“Alice”)

Nata a Campomorone, comune limitrofo a Genova, nel 1906, dopo l’8 settembre 1943 iniziò a collaborare con le nascenti formazioni partigiane, occupandosi soprattutto di reperire viveri e indumenti da inviare ai gruppi in montagna. Insultati alcuni militari con spavalderia e per questo motivo arrestata, venne liberata pochi giorni dopo, rimanendo però sottoposta a stretta sorveglianza da parte dei militi fascisti. Il secondo arresto, nel corso del quale non rivelò il nascondiglio del fratello Luigi e dei suoi compagni, le fu invece fatale: venne fucilata, insieme ad altri cinque patrioti, per rappresaglia, il 7 agosto 1944 presso il convitto Maria Immacolata, scuola da lei precedentemente frequentata. Al suo nome verrà intitolata una formazione femminile delle SAP genovesi.

Nel 1989 il Presidente della Repubblica le ha conferito la Medaglia di bronzo al Valor Militare.

Pochi sono i richiami nella toponomastica a personalità femminili di spicco della Resistenza e a tal proposito si è parlato di “misoginia ambientale”. Solo una ventina sono le donne ricordate nell’intero territorio regionale e meno di dieci nel capoluogo. A Genova le vie, con il relativo quartiere tra parentesi, dedicate a donne che abbiano preso parte alla lotta di Liberazione sono le seguenti:

∙ Angiola Berpi (presso i giardini di Cornigliano). Fu partigiana combattente, impegnata nel trasporto di medicinali e nell’attività infermieristica.
Vittorina Adaglio “Mara” (Prà). Fece parte della 334ª brigata SAP di Prà.
∙ Tea Benedetti (lungo Polcevera). All’età di 16 anni rivestì il ruolo di staffetta.
∙ Graziella Giuffrida (Bolzaneto). Di origine catanese, militò nelle SAP. Arrestata e seviziata venne uccisa, con altri quattro uomini, nella località Rocca dei Corvi, a Fegino in val Polcevera.
∙ Stefanina Moro (Marassi). Catturata e sottoposta a tortura alla Casa dello Studente, non rivelò alcuna informazione. Inviata all’ospedale di Asti in condizioni critiche, vi morì, a soli 17 anni, il 9 ottobre 1944, pochi giorni dopo il ricovero.

Dalla Resistenza alla cittadinanza attiva
Con la formazione delle cosiddette “Repubbliche partigiane” le donne videro l’opportunità non solo di fornire il loro contributo alla caduta del nazifascismo, ma anche di riprendere la lotta per la parità dei sessi.
Figure come quella di Gisella Floreanini, nominata commissaria di governo nella Giunta della Repubblica dell’Ossola; Jole de Cillia (“Paola”), partecipe alle riunioni della giunta di governo della Repubblica della Carnia e dell’Alto Friuli in rappresentanza della voce delle donne e caduta, con il mitra in pugno, il 9 dicembre 1944; Norma Barbolini, che dopo il ferimento del fratello Giuseppe lo sostituì al comando della brigata Ciro Menotti in Emilia; Maria Beltrami (“Franca”), partigiana di Correggio a capo di un gruppo combattente composto da cinquantaquattro partigiane, caso unico in tutta Italia, sono in tal senso oltremodo significative.

Resistenza, donne, letteratura

La presenza della figura femminile e la partecipazione delle donne alla Resistenza si riflette anche nella letteratura. Citiamo, in proposito, tre autori, uno dei quali dei nostri giorni.

Beppe Fenoglio (Alba, 1922 – Torino, 1963). Al liceo di Alba ha due illustri insegnanti, che diverranno per lui un grande riferimento di cultura e di vita: Pietro Chiodi, professore di filosofia, e Leonardo Cocito, docente di italiano.
Iscrittosi alla facoltà di Lettere di Torino, interrompe gli studi nel 1943, iniziando a frequentare il corso per ufficiali, prima a Ceva, poi a Roma.
Dopo l’8 settembre entra nella Resistenza, nelle Langhe, seguendo l’esempio dei suoi professori di liceo Chiodi e Cocito. Milita dapprima in una brigata d’ispirazione comunista per poi passare a una formazione “badogliana”.
Tra i partigiani che il 10 ottobre 1944 entrano in Alba, trascorre il difficile e lungo inverno in un isolamento terribile, divenendo poi ufficiale di collegamento presso la missione inglese operante nel Monferrato, Vercellese e Lomellina. Nel 1949 pubblica il suo primo racconto, nel 1952 escono presso Einaudi dodici racconti intitolati I ventitre giorni della città di Alba. Nel 1954, sempre per Einaudi, viene pubblicata La malora, storia drammatica, ambientata, nella società contadina delle Langhe dei primi anni del ‘900.
Muore per malattia il 18 febbraio 1963, a soli 41 anni. Postumi sono usciti Una questione privata (1963) e Il partigiano Johnny (1968).

In Una questione privata, romanzo pubblicato nel 1963, la Resistenza diventa lo sfondo della vicenda privata del protagonista Milton, giovanissimo partigiano tormentato dal dubbio che la sua amata Fulvia lo abbia tradito con il suo migliore amico Giorgio, anch’egli impegnato nella lotta di liberazione.
Il romanzo lega la cronaca di una guerra alle tempeste interiori. La gelosia di Milton si interseca con la sua adesione alla Resistenza, ma a spiccare maggiormente sono i sentimenti del ragazzo, la voglia di libertà che precede l’azione politica e il combattimento. La lotta viene intesa come un’esperienza essenzialmente individuale, così come l’amore, che in alcun modo può essere represso. Milton è un partigiano coinvolto, come tanti altri suoi coetanei, nella lotta per la patria e la libertà, ma che non vuole rinunciare alla propria storia personale.
Ne I ventitré giorni della Città di Alba, edito nel 1952, Beppe Fenoglio racconta un episodio realmente accaduto. Tutto comincia il 10 ottobre 1944 quando i fascisti lasciarono Alba, permettendo così alle brigate partigiane di occupare militarmente la città sino al 2 novembre, giorno in cui gli uomini di Salò ne ripresero il controllo. Ecco come Fenoglio descrive la presenza delle donne nella parata – “fu la più selvaggia parata della storia moderna: solamente di divise ce n’era per cento carnevali” – dei partigiani che entravano festanti in città: “cogli uomini sfilarono le partigiane, in abiti maschili, e qui qualcuno tra la gente cominciò a mormorare – Ah, povera Italia!, perché queste ragazze avevano delle facce e un’andatura che i cittadini presero tutti a strizzar l’occhio. I comandanti, che su questo punto non si facevano illusioni, alla vigilia della calata avevano dato ordine che le partigiane restassero assolutamente sulle colline, ma quelle li avevano mandati a farsi fottere e s’erano scaraventate in città”. Lo scrittore pone in luce i pregiudizi esistenti nei confronti delle donne partigiane, che, pur avendo preso parte attiva alla lotta e corso gli stessi rischi dei loro compagni, restavano vittime di stereotipi duri a morire.

Renata Viganò, (Bologna, 1900-1976), autrice di L’Agnese va a morire, è stata una scrittrice e partigiana italiana. Scrittrice precoce, a soli tredici anni riuscì a far pubblicare la sua prima raccolta di poesie, Ginestra in fiore, seguita nel 1916 da Piccola Fiamma, ma raggiunse una certa notorietà solamente nel 1949 con L’Agnese va a morire, romanzo d’impianto neorealistico pubblicato nel 1949, di ispirazione autobiografica, avendo la stessa autrice militato nella Resistenza come staffetta e infermiera.
La vicenda è ambientata nelle valli di Comacchio tra il settembre del 1943 e la primavera del 1945 e racconta la storia di Agnese, donna semplice e dalla vita tranquilla che, a seguito della deportazione del marito a causa delle sue idee politiche, collabora con i partigiani come staffetta e che, dopo la scoperta della sua morte avvenuta durante il trasporto verso i campi di concentramento, si unisce alle loro formazioni.
La protagonista con le sue azioni volte ad aiutare in qualsiasi situazione i compagni della Resistenza, evidenzia un carattere forte e un grande coraggio, di cui molte donne diedero dimostrazione in quegli anni.

In Rossoamaro (Milano, Garzanti, 2008), lo scrittore genovese Bruno Morchio crea una narrazione che passa continuamente dal passato al presente. Il protagonista, “l’investigatore dei caruggi” Bacci Pagano, è contattato da un certo signor Hessen, figlio di una partigiana e di un ufficiale nazista, che gli commissiona un’indagine per cercare il fratellastro mai conosciuto. Con lo sviluppo della vicenda e la scoperta di nuovi indizi, Bacci Pagano si troverà ad affrontare l’ostinato silenzio dei vecchi partigiani, restii a dare informazioni su una misteriosa donna, partigiana a suo tempo infiltrata presso i tedeschi, che si rivelerà essere la madre del signor Hessen. La trama, seppur di fantasia, presenta la figura di una donna coraggiosa e sensibile, capace di mettere a repentaglio la propria vita per la Resistenza. Nel libro è quindi presente una riflessione sul significativo ruolo della donna nella Resistenza.

 

il Progetto  Team Classi Credits Ilsrec

Istituto Ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Liceo Scientifico Statale G. D. Cassini Genova

 

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