Resistenza e letteratura

FONTI LETTERARIE

I problemi della letteratura della Resistenza sono stati acutamente definiti nell’articolo di Italo Calvino, scritto nel 1964, in occasione delle riedizione de Il sentiero dei nidi di ragno (1947).

L’autore, a proposito del suo testo, lo descriveva come “un libro nato anonimamente dal clima generale di un’epoca”, sottolineando come una narrazione di questi eventi non potesse che essere “un libro… dai mille padri”, in grado di parlare a nome di tutti coloro che avevano preso parte alla lotta. Ancora nel 1964 questa paternità collettiva e plurale costituiva motivo di orgoglio.
Il soggetto plurale “noi”, così spesso usato, e il “si” impersonale richiamano dal punto di vista morfologico l’antica comunanza dell’aggregazione come un valore imprescindibile.
L’idea ispiratrice di Calvino, riferibile anche al testo di Cugurra, pur nella scontata differenza di temperamento e cultura, è che un’esperienza radicale, come quella della guerra civile, condizioni in modo evidente e parzialmente omogeneo i nuovi scrittori

Calvino evidenzia la consapevolezza dell’eccezionalità dell’esperienza resistenziale e del suo appartenere alla storia (“ci muovevamo in un multicolore universo di storia”). L’affermazione “le storie appena vissute si trasformavano e trasfiguravano in storie raccontate la notte attorno al fuoco” sottolinea il rapporto vivificante con l’oralità, in cui la condivisione trasforma la materia quasi in epica e tenta di sottrarre gli eventi alla rimozione dell’esperienza, dopo appena un anno, da parte dell’Italia clericale e conservatrice. A conferma della verità dell’esperienza vissuta restavano “gli elementi extraletterari […] tanto massicci e indiscutibili che parevano un dato di natura”: l’arte, che li conserva e trasmette, ha dunque un manifesto valore politico.

L’idea che la letteratura della Resistenza potesse essere letta come un macrotesto unitario, all’interno del quale le opzioni stilistiche fossero predeterminate, ha lasciato spazio, oggi, al riconoscimento di una varietà di soluzioni, difficilmente riconducibili a una unità e libera dall’automatismo che ci porta ad associare spontaneamente alla Resistenza una letteratura scialba e fortemente ideologizzata, “tutta pugni al vento e bandiere rosse, scarpe rotte eppur si deve andar” (Gabriele Pedullà, Racconti della Resistenza, Torino, Einaudi, 2005). Una letteratura così sarebbe pericolosamente vicina alla propaganda politica, disposta a sacrificare tutto (ricchezza del vocabolario, sfumature psicologiche e stilistiche, necessità espressive) alla esigenza primaria di comunicare un messaggio chiaro, comprensibile a tutti.
Oggi sappiamo che, per ognuno degli scrittori che si considerano, si avrà una Resistenza diversa: un tono, una voce caratteristica, ma anche situazioni specifiche.

PAOLO CUGURRA

Con questa persuasione ci siamo avvicinati al testo di Paolo Cugurra, sensibilmente colpiti anche dalla sua biografia, di uomo e di padre, di professionista, di artista.

Cugurra è nato a Genova il 9 gennaio 1928 e l’8 settembre aveva, quindi, quindici anni. Con pochi compagni del Liceo D’Oria svolge attività di fiancheggiamento dei GAP genovesi sino alla primavera del 1944. Nel mese di giugno collabora stabilmente con la formazione garibaldina di Aurelio Ferrando “Scrivia” (per la biografia si veda più sotto) con il compito di guida. Sul finire dell’estate Cugurra entra a far parte della formazione Giustizia e Libertà a presidio del paese di Barbagelata, frazione montana a cavallo delle valli Aveto, Trebbia e Sturla. Al compimento del diciassettesimo anno (gennaio 1945), diviene membro della brigata della stessa formazione GL facente capo ad Antonio Zolesio (“Umberto Parodi”).

La liberazione di Genova si costruisce e si progetta già in montagna, come ci racconta il suo testo, Passo del Gabba. Resistenza minore (Genova, De Ferrari, 2007). Difficile è l’inclusione in un genere letterario specifico: narrativa certamente, ma con fortissime connotazioni di verità; un memoriale cui la lunga distanza cronologica fra le esperienze e il racconto delle stesse conferisce oggettività senza alterarne il pathos. Dell’esperienza partigiana, vissuta in un’età precocissima, conserva memoria viva e partecipe, all’interno di una visione coerente della vita, sempre improntata ai principi della libertà e del rispetto, come si evince dall’intervista rilasciata nel 1995 e depositata nel Fondo Memoria Orale dell’Archivio storico dell’Ilsrec, di cui abbiamo utilizzato alcuni stralci.

Il memoriale Passo del Gabba, prende il nome dal luogo-simbolo, il passo da cui, con una mulattiera, si raggiunge il paese di Barbagelata. Nella pagine che abbiamo considerato sono descritti e filtrati dal ricordo, alcuni momenti importanti vissuti nel gennaio 1945 dal protagonista, nome di battaglia “Angelino”: la guardia da solo, vicino al casone, nell’oscurità fitta, temperata dalla familiarità del luogo e dall’impugnare lo sten, il mitra a canna corta di produzione britannica, in luogo dell’ordinario moschetto. Le stelle che brillano sono “fari, miriadi di fari accesi, Angelino solo con lo sten imbracciato sotto le stelle dimentica la paura e la solitudine e prova un brivido d’orgoglio perché è un ragazzino in un ruolo che aveva sognato tanto”; ”quelle poche ore di guardia sotto le stelle, solo con lo sten, rimarranno incancellabili nella sua vita come livello massimo, mai più raggiunto, di impegno morale, di emozionante dedizione, di adempimento del proprio dovere verso la vera patria in guerra per la libertà e la democrazia”.

Una fucilata, sul dorsale di Barbagelata, rappresenta l’allarme per l’imminente battesimo del fuoco, evento a lungo atteso da Angelino ma al tempo stesso spaventoso e paralizzante. A posteriori l’autore effettua una ricognizione di quei luoghi fissatisi nel ricordo: la mulattiera del Passo del Gabba, che raggiunge Barbagelata dalla parte del costone occidentale; la mulattiera dell’Acquapendente, che si inerpica da Favale di Malvaro e taglia i fianchi del Monte Caucaso; il valloncello “pieno di silenzio” e infine il costone occidentale che copre il paese.
Nel 1945 le tracce dell’intervento della Monterosa avvenuto nell’agosto 1944, fanno ancora “male al cuore”, ma la poca gente rimasta conserva la compassionevole capacità di offrire pane, castagnaccio, latte. Posizionato nel “trincerone” assegnato al suo distaccamento davanti a una feritoia, Angelino attende, nella “contabilità estrema che si fa nei momenti tragici della vita”. Nel silenzio gelido, gli uomini stanno con le mani rattrappite sulle armi, ma la colonna “di presunti assalitori” si rivela essere composta in realtà di borghesi, in gran parte donne, diretti verso Roccatagliata. È la fine della guerra. Adesso che il battesimo del fuoco non sarebbe più arrivato, “si fece strada il dispetto”.

si fece strada il dispetto

Lo stralcio successivo vede Angelino a Genova nei giorni della Liberazione. Il passaggio di piazza Corvetto è facile, non quello di piazza Portello, dove ancora si combatte perché i nemici resistono, sparando da una villetta all’imbocco di salita San Gerolamo. La situazione viene sbloccata dall’arrivo di una autoblinda americana, con una potente mitragliatrice installata sul dorso; girando circolarmente lascia partire raffiche ogni volta che ha l’obiettivo di fronte. “Un giudizioso silenzio” si impadronisce della villa. Cugurra non ricostruisce né l’ubicazione né la successione dei “diffusi conflitti a fuoco” dei tre-quattro giorni successivi; ricorda invece con grande chiarezza alcuni eventi, anche se non può indicarne l’esatta cronologia.
L’Hotel Britannia di Principe, già devastato da precedenti passaggi di truppe, era la sede assegnata al Comando GL. Durante i pasti, la portata ricorrente era il riso, inusuale in montagna e qui misteriosamente abbondante. Angelino era alloggiato all’ultimo piano, in una delle stanze evidentemente riservate prima alla servitù; i capi ai piani intermedi. Il piano terreno, composto da salotti e sale da pranzo, era il regno di “un via vai frenetico e pittoresco”. L’autore ricorda il suo stupore di ragazzo davanti alla vivacità dei saluti e delle risate, l’eterogeneità delle divise e degli uomini, in massima parte membri della Resistenza, compresa quella urbana. Tutto appare confuso, l’attendibilità dei documenti è dubbia: “pezzi di carta, biglietti compilati a mano, improvvisati, timbrati con centinaia di sigle”. Ne consegue l’indecifrabilità di molti personaggi, in un’ambiguità di fondo a cui appare estranea la franchezza e la trasparenza sentita da Angelino nella vita di montagna. Vivacissimo è il ricordo delle tante ragazze – sia “per bene”, sia “non per bene” – che frequentano gli spazi dell’hotel, a conferma di un caos anche sensuale, ma certo non eroico.
Il frammento si conclude con la descrizione di un episodio sconcertante e aspro: il comandante della seconda brigata vede a terra le armi di un partigiano, deposte per poter liberamente abbracciare gli amici. La reazione è violenta, appare spropositata e viene motivata con l’allusione all’omicidio del padre del comandante ad opera di una banda “irregolare”, non allineata alle direttive del CLN, accusata anche di saccheggi ai danni dei civili. L’esperienza di Angiolino aveva escluso questi comportamenti, ma è inevitabile prenderne ora consapevolezza.

Evidente appare l’autenticità del testo, privo di artifici se si esclude qualche inflessione epica ed edificante, motivata, più che dalle intenzioni, dalla distanza cronologica e dalla collocazione remota dei fatti. Si individuano anche influenze dello stile di Fenoglio: sintassi breve e paratattica; uso della terza persona, anche se la focalizzazione è interna al protagonista. La funzione palese del documento è quella informativa, non scevra però dalla convinzione che, come sottolinea Gabriele Pedullà, nella prefazione al citato Racconti della Resistenza, “l’assolutezza della scelta partigiana non si concilia con la folla e può essere abbracciata soltanto a livello individuale, nel silenzio dei boschi e della montagna”. Non si verificano incongruenze, anche se la narrazione, rigorosamente oggettiva, è strutturata soggettivamente per quanto riguarda le emozioni.

“Emergono – come scrive Luigi Surdich nella prefazione a Il taglio del bosco di Cugurra – nella lineare successione dei giorni, situazioni ed esperienze […] che si affermano e si consolidano come i picchi di maggior rilievo nella lunga trama del vissuto […] resistendo a qualsiasi procedura selettiva della memoria”. Di fatto numerosi testi in questa recentissima raccolta poetica rimandano con fedeltà alle esperienze partigiane, addirittura con riprese puntuali di immagini già formulate nel memoriale. Si vedano Il nemico; Barbagelata; Ritorno dalla missione; Partigiani; Cason da Basso.

Si confrontino, ad esempio, questi versi tratti da Partigiani

“minuscolo, piumato, timido ed ignaro

d’ogni umana tragedia, rompe il silenzio

con breve cinguettio, come un solitario

messaggio d’amor casto e garbato.

Bastano pochi istanti, prende il volo

e scompare nel raggio dorato

del primo sole ora filtrato”

con il seguente brano di Passo del Gabba: “così, un uccellino minuscolo, abitante di quelle altezze, sosta per un attimo lì presso e rimane silenzioso: solo un lievissimo frullo d’ali ne tradisce la partenza”.

Alessio Franzone

Ex militare, in servizio nei pressi dell’ospedale San Martino, dopo l’8 settembre Alessio Franzone (“Arrigo”), per evitare di essere catturato, sfolla con la famiglia a Molini di Fraconalto, in provincia di Alessandria, ove aiuta i giovani che vogliono raggiungere le prime bande partigiane nella zona del Monte Tobbio.
Nel maggio 1944 organizza, a Capriata d’Orba, la Banda italo-russa di sabotaggio (BIRS), formata da partigiani italiani ed ex prigionieri di guerra russi, con l’obiettivo di effettuare azioni contro le ferrovie, vie di comunicazione, linee telefoniche e telegrafiche utilizzate dal nemico. Costituita inizialmente da una quarantina di effettivi, ben presto raddoppiati, la Birs il 30 agosto 1944 prende il nome di 79ª brigata d’assalto Garibaldi Mazzarello, poi incorporata nella divisione Ligure-alessandrina, e Franzone ne diviene l’intendente.

Promosso successivamente comandante del battaglione Pio, destinato a trasformarsi dopo l’inverno in brigata alle dipendenze della divisione Mingo, l’11 marzo 1945 partecipa all’attacco della caserma delle Brigate nere di Ronco Scrivia, il 23 aprile tratta la resa del presidio tedesco di Voltaggio e prende parte alla liberazione di Genova.

Il memoriale Vento del Tobbio. 8 settembre 1943-25 aprile 1945 (Genova, Tipografia Sambolino, 1952), al capitolo IV descrive gli eventi del 26 aprile: da Radio Genova, nelle mani dei partigiani, è giunta la notizia della resa, a Villa Migone, del generale Meinhold e, con uno stile estremamente sintetico e chiaro che richiama l’oggettività dei rapporti militari, Franzone fornisce una cronologia dettagliata degli eventi e una precisa indicazione dei luoghi.
Nella notte del 25 giungono a Genova i rappresentanti della VI Zona operativa, accompagnati dal maggiore Basil Davidson, della missione britannica Clover; la riviera di levante è stata completamente liberata dai partigiani. Sussistono invece sacche di resistenza nemica in città a San Benigno, Monte Moro, la Foce, Murta e Morigallo in val Polcevera; nell’entroterra i tedeschi sono ancora attestati al passo dei Giovi, a Gavi, Serravalle, Vignole Borbera, Novi. Si susseguono rapidamente le notizie della resa di Savignone, sede del quartier generale di Meinhold, del presidio di Borgo Fornari e di Serravalle, resa quest’ultima ottenuta grazie all’intervento dei partigiani scesi dalla montagna.

“Arrigo” intende prendere contatto con il Comando regionale, insediato presso il Teatro Ligure di Certosa, a Rivarolo in val Polcevera. La spedizione ha tratti avventurosi: il veicolo su cui viaggia Franzone è un’auto sequestrata ai nemici e a scortarli è un’autoblinda su cui viaggiano altri partigiani. All’altezza del ponte sul torrente Secca, a Morigallo, località tra San Quirico e Bolzaneto, vengono sparate contro di loro alcune raffiche di mitra, fortunatamente senza esito. Si succedono, lungo il loro percorso, i posti di blocco partigiani, mentre gli edifici sono piantonati dalla forze insurrezionali (“i colori della patria sventolano inondati dalla luce dorata del sole mattutino!”). Finalmente Certosa è raggiunta alle ore 9 del 26 aprile: il Teatro Ligure è piantonato da membri delle SAP e all’interno vi sono una dozzina di persone, fra cui alcune donne, sedute a un tavolo, su cui sono posate le pistole.
Franzone rinuncia qui, in parte, al tono oggettivo del resoconto per sottolineare la meraviglia e la curiosità suscitate dal loro arrivo. C’è una sfumatura d’orgoglio nel riconoscimento d’essere stati i primi comandanti partigiani di montagna a giungere a quel Comando. I piani prevedono che la brigata raggiunga la zona che si estende tra Sampierdarena e Certosa e la conferma giunge attraverso un ordine scritto da parte di “Simba”, ovvero Achille Paolo Casetti, capo di stato maggiore della divisione Mingo. L’operazione presenta dei rischi, in quanto sono ancora presenti presidi nemici e franchi tiratori, appostati alle finestre e sui tetti delle case (“a buon conto, le canne ventilate dei mitra sporgono costantemente dai nostri automezzi”).
La gioia della popolazione è palpabile: saluti, mani protese, ma non è ancora il tempo di fermarsi. Una piccola colonna motorizzata, a cui si unisce Franzone, si avvia verso i Giovi per ridurre l’ultima resistenza nemica, ma desiste alla notizia delle trattative in corso, ad opera del comando della divisione Pinan-Cichero, per la resa dello stesso presidio. La gioia della giornata è poi coronata dall’incontro, inaspettato, a Pontedecimo, di Franzone con il proprio fratello Ottavio, comandante dell’intendenza della VI Zona operativa.

La copertina scelta per l’edizione del 1952 – e conservata per la ristampa del 2009 – merita qualche considerazione: “Vento del Tobbio” è scritto in corsivo con un curioso effetto di trascinamento, a suggerire un raffica di vento; sotto, un disegno semplice presenta uno scorcio di paesaggio, con la montagna sullo sfondo e un casa rustica raggiunta da una mulattiera bianca; sulla destra due alberi, uno fronzuto, l’altro secco e contorto, a evocare il rigore dei luoghi e la loro asprezza, ma anche la forza naturale e ruvida.
In calce, un altro schematico disegno, più ingenuo, riporta le date “8 settembre 1943” e “25 aprile 1945”, come incise su un tronco, disposto orizzontalmente e appuntito ad un estremo.
Il testo è destinato evidentemente ad un pubblico semplice, ben memore degli eventi perché forse partecipe. Lo stile è semplice e asciutto, ma spontaneo e entusiastico, anche se mai celebrativo. La narrazione è certamente attendibile, confortata dai riferimenti a dati oggettivi, facilmente verificabili.

In conclusione , sono possibili alcune considerazioni: esistono scrittori, narratori e memorialisti , la cui qualità di scrittura non è inferiore a molte narrazione di finzione pura; il proliferare degli alter ego letterari non aiuta certo a stabilire confini precisi. La narrativa resistenziale intrattiene con la memoria un rapporto speciale ed elettivo: è scrittura della presenza, che presuppone una fedeltà esistenziale al proprio passato.
Un criterio può risultare proficuo: dividere gli scrittori secondo la data di nascita. Come è evidente nel caso di Cugurra e, per es., di Paolo Emilio Taviani, le generazioni coinvolte direttamente nella lotta partigiana sono almeno due: quella dei nati alla fine del primo decennio del XX secolo, i quali avevano concluso il loro apprendistato formativo e culturale (Taviani) e quelli più giovani (Cugurra), per i quali l’esperienza resistenziale coincise con la formazione umana e politica. In ogni caso, il dovere della testimonianza, fortemente sentito, spinge alla documentazione, come ad una sorta di legittimazione di sé e del comune operato, una giustificazione di motivazioni e scelte condivise e sentite, nel trascorrere del tempo, sempre dovute e partecipate.

La letteratura della Resistenza in Liguria

• Italo Calvino

Il sentiero dei nidi di ragno, 1947;
Paura sul sentiero, in “Darsena nuova”, giugno-luglio 1946;
Ultimo viene il corvo, in “l’Unità” (ed.di Milano), 5 gennaio 1947;
Il bosco degli animali, in “l’Unità” (ed.di Torino), 20 aprile 1948
(i tre racconti di Calvino sono oggi inseriti nella raccolta, a cura di Gabriele Pedullà, Racconti della Resistenza, Torino, Einaudi, 2005).

Calvino nasce nel 1923 a Santiago de Las Vegas de La Habana, a Cuba, da genitori entrambi italiani. Famoso intellettuale e scrittore del secondo Novecento, viene ricordato principalmente per opere quali la trilogia I nostri Antenati (1960), Marcovaldo (1963), Le Cosmicomiche (1965) e Le città invisibili (1972).

Accostatosi nel corso della sua vita artistica a più tendenze letterarie (neorealismo, postmoderno) senza però aderire completamente a nessuna di esse, ha sempre mantenuto un proprio personalissimo stile, basato sulla descrizione analitica degli avvenimenti e su una forte presenza del lirismo e dell’ironia, risultando così una delle voci più originali del XX secolo. È morto a Siena nel 1985.

Calvino partecipa direttamente al fenomeno della Resistenza, combattendo come partigiano nella seconda divisione d’assalto Garibaldi Cascione – intitolata alla memoria del medico e comandante partigiano Felice Cascione, morto nell’imperiese per mano fascista nel gennaio del 1944 – con il nome di battaglia “Santiago”, dal nome del paese cubano di provenienza. Calvino si ispira a questa sua forte esperienza di vita per esordire nel mondo della letteratura con Il sentiero dei nidi di ragno (1947) e con i racconti de Ultimo viene il corvo (1949); con il successivo racconto Ricordo di una battaglia (1974), ricorda lo scontro di Baiardo, a cui egli stesso partecipò.
Con Il sentiero dei nidi di ragno Calvino consegna uno dei più alti esempi di letteratura della Resistenza, in cui il realismo degli eventi di guerra è filtrato attraverso il punto di vista di un bambino. Il romanzo è sicuramente uno dei più importanti scritti della corrente del neorealismo.

• Giorgio Caproni

Il labirinto, in “Aretusa”, gennaio-febbraio 1946;
L’arma in pugno, in “Settimana”, 28 marzo 1946;
Un discorso infinito, in “Domenica”, 7 aprile 1946;
Sangue in Val Trebbia, in “Mondo operaio”, 23 aprile 1949;
Il Natale diceva Pablo…, in “Patria indipendente”, 20 dicembre 1953. I racconti partigiani di Caproni sono oggi inseriti nella raccolta, a cura di Gabriele Pedullà, Racconti della Resistenza (Torino, Einaudi, 2005). La parte conclusiva de Il labirinto, con il titolo I denti di Ada, è presente in Storie della Resistenza, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma (Palermo, Sellerio, 2013).

Nato a Livorno nel 1912 ma giunto a Genova all’età di dodici anni, Giorgio Caproni riconosce al capoluogo ligure un ruolo fondamentale nella sua formazione. È maestro elementare in val Trebbia, dove partecipa alla Resistenza. Trasferitosi a Roma, dove morirà nel 1990, collabora a diversi giornali e riviste con poesie, racconti e traduzioni. È una delle massime voci della poesia del Novecento.
Dalla sua esperienza di partigiano nascono racconti e poesie, riunite nella raccolta Il passaggio di Enea, pubblicata nel 1956.
Quando parlava degli eventi di guerra, con una sorta di pudore diceva: “non sono stato un partigiano nel senso eroico della parola. La mia parte, in quella lotta, fu molto più modesta. L’8 settembre ero là, in val Trebbia. Venne questo armistizio e a un certo momento io dovevo scegliere: o Salò o rimanere lì coi partigiani”. A Loco, piccola frazione di Rovegno, in provincia di Genova, dove Giorgio Caproni ha voluto essere sepolto, l’allora maestro elementare fece la sua scelta e per diciannove mesi, in val Trebbia, fu testimone di “scene di indicibile orrore” che non avrebbe mai dimenticato.
Caproni si vantava di aver scritto per così dire in diretta, con la Resistenza ancora in atto, prima ancora di Pavese e Fenoglio. In ciò che scrive, sia in versi sia in prosa, è assente qualsiasi visione celebrativa e retorica della Resistenza.

Angelo Del Boca

Un uomo ordinato. Il dizionario del partigiano anonimo, tratto da La scelta (Milano, Feltrinelli, 1963).
Sebbene non specificamente legato alla Resistenza ligure, citiamo questo testo, di cui è impossibile, ovviamente, identificare l’autore, in quanto riferibile, per l’altezza del messaggio contenuto, a tutte le esperienze della Resistenza verificatesi nell’Italia settentrionale.

Nato a Novara nel 1925, giornalista e scrittore, Angelo Del Boca si è affermato come il maggior storico delle guerre coloniali italiane ed è stato il primo a denunciare le atrocità compiute dalle truppe italiane in Libia e in Etiopia.
Costretto ad arruolarsi nell’esercito della RSI nel 1944 e impegnato nella repressione delle forze partigiane, Del Boca disertò, unendosi alla Divisione Piacenza di Giustizia e Libertà.
Come narratore ha esordito nel 1947 con il romanzo Dentro mi è nato l’uomo (Torino, Einaudi), a cui ha fatto seguito nel 1963 La scelta (Milano, Feltrinelli), legato all’esperienza vissuta prima nell’esercito della Repubblica di Salò e poi nella guerra partigiana in val Trebbia.

• Giovanni Battista Lazagna

Il casone di Cichero, in Ponte rotto. Storia della divisione garibaldina Pinan-Cichero (Genova, “Il Partigiano”, 1946; testo più volte ristampato), ora anche in Storie della Resistenza, a cura di Domenico Gallo e Italo Poma (Palermo, Sellerio, 2013).

Iscrittosi al partito comunista clandestino a soli diciannove anni, Giovan Battista Lazagna (Genova 1923 – Rocchetta Ligure 2003) dall’aprile 1944 partecipò alla lotta partigiana, divenendo vicecomandante della Divisione Cichero e prendendo parte a molti combattimenti sostenuti contro i nazifascisti, tra cui quello di Pertuso, in val Borbera, dell’agosto 1944.
Il 25 aprile 1945 firmò la resa del presidio tedesco di Tortona.
Nel dopoguerra ha esercitato la professione di avvocato e militato nelle file del PCI, divenendo consigliere provinciale a Genova e comunale a Novi Ligure.
Negli anni Settanta è stato arrestato e incarcerato due volte perché accusato di coinvolgimento in organizzazioni terroristiche (Gap di Giangiacomo Feltrinelli e Brigate Rosse), venendo poi prosciolto.

Ha insegnato diritto all’Università di Urbino e dal 1984 al 1992 è stato presidente dell’Anpi val Borbera.


il Progetto  Team Classi Credits Ilsrec

Istituto Ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Liceo Scientifico Statale G. D. Cassini Genova