Fabbriche e Resistenza
Gli operai hanno offerto un significativo contributo alla lotta di Liberazione attraverso una pluralità di forme e l’assunzione di notevoli rischi.
Aderire alla Resistenza restando in fabbrica e continuando a svolgere la propria mansione significò l’attuazione di una serie di azioni e strategie tese a sostenere la causa partigiana e a contrastare, per quanto possibile, la produzione bellica a vantaggio dei tedeschi e dei fascisti, loro alleati. Impiegati in aziende riconvertite alle esigenze del conflitto e sottoposti a un ferreo controllo, gli operai, pur non potendo sottrarsi al loro compito, cercarono spesso di fare propaganda antifascista, di sabotare e rallentare il ciclo produttivo, mettendo a disposizione delle SAP, costituitesi nell’estate del 1944, materiale utile per la lotta armata e creando idonei nascondigli all’interno dei magazzini e capannoni.
Genova era una città che per i tedeschi rivestiva un interesse sia strategico sia economico. Sino al 15 agosto 1944, giorno in cui venne effettuato, con l’operazione Dragoon, lo sbarco in Provenza della 7ª armata americana, la costa ligure fu ritenuta dai vertici militari tedeschi come il più probabile obiettivo di un’operazione alleata e Genova, conseguentemente, vide rafforzati i dispositivi di difesa e i presidi militari.
officina del complesso Ansaldo, 1944 (Archivio Ansaldo)
Dal punto di vista economico l’importanza di Genova era costituita dal porto, tra i maggiori del Mediterraneo, dalle industrie e relativa manodopera specializzata: avere il controllo del capoluogo ligure significava poter pienamente sfruttare il suo apparato produttivo a partire dall’Ansaldo, che con i suoi vari stabilimenti cittadini impiegava nel 1943 ben 36.000 unità.
Sin dalle prime settimane dopo l’8 settembre 1943, tra i tedeschi le preoccupazioni per la produttività e quelle per l’ordine pubblico e la sicurezza del territorio andarono di pari passo: “chi continua a lavorare – recitava un proclama tedesco – rende un servizio alla sua patria, al suo popolo e specialmente a se stesso”. Gli uomini del Terzo Reich erano consapevoli dell’importanza dell’apparato industriale per raggiungere la vittoria finale: solo chi avesse prodotto più aerei, navi, carri armati, proiettili, risorse energetiche ed alimentari avrebbe vinto la guerra.
L’Italia, da questo punto di vista, poteva rappresentare un ricco serbatoio, di uomini e strutture, da cui attingere per le esigenze belliche di Hitler.
A partire dal novembre 1943 le città del triangolo industriale furono investite da una serie di scioperi e rivendicazioni operaie, proteste che osavano sfidare apertamente il dominio tedesco e bloccare la produzione in piena guerra. È da sottolineare l’intreccio, in questi scioperi, tra motivazione economica e politica: anche la semplice rivendicazione di aumenti salariali e di migliori condizioni di vita assumeva, in quel drammatico contesto, la fisionomia di una protesta politica nei confronti delle autorità e un atto di deliberato sabotaggio nei confronti dello sforzo bellico.
A Genova le agitazioni operaie iniziarono il 27 novembre 1943, quando entrarono in sciopero i tranvieri, che protestavano per l’arresto, avvenuto due giorni prima, di tre loro compagni di lavoro per attività antifascista. A partire dal 6 dicembre si verificò il cosiddetto sciopero dell’olio, che nei giorni successivi interessò molte fabbriche genovesi e che, nella sua fase culminante, arrivò a coinvolgere 50.000 lavoratori, esasperati per la riduzione di un terzo della razione mensile dell’olio a persona.
Nonostante le promesse, alternate a minacce, di Paul Zimmermann, l’ufficiale SS nominato “incaricato speciale per la repressione degli scioperi” dopo le agitazioni di fine novembre a Torino, Milano e Genova, le agitazioni operaie genovesi ripresero nel gennaio 1944. Dura fu la risposta nazifascista: otto furono i patrioti fucilati al forte di San Martino come rappresaglia per lo sciopero del 13 gennaio e un mortale attentato dei GAP a danno di due tedeschi, compiuto da Giacomo Buranello e Andrea Scano nella centralissima via XX Settembre.
L’attività delle polizia fascista, alcuni arresti preventivi, le intimidazioni e divisioni politiche all’interno del PCI, partito che in clandestinità rappresentava il punto di riferimento per la classe operaia e buona parte del mondo antifascista, causarono il fallimento a Genova dello sciopero nazionale, indetto in Piemonte, Lombardia e Liguria per il 1° marzo, che rappresentò il più grande sciopero nell’Europa occupata dai nazisti durante la guerra.
Durante questi mesi le maestranze operaie ebbero modo, in più occasioni, di sperimentare “il pugno forte tedesco”, secondo l’espressione di un generale nazista, cui si associava l’azione repressiva della RSI. Tra minacce di licenziamento, arresto, ritorsioni sui familiari, requisizione delle tessere indispensabili per ottenere il cibo razionato e serrate, i lavoratori genovesi tornarono a incrociare le braccia nel giugno 1944, galvanizzati anche dalle notizie della liberazione di Roma (4 giugno) e dello sbarco in Normandia (6 giugno), evento che avrebbe impresso una svolta decisiva alle sorti del conflitto e che avrebbe potuto preludere, nell’immaginazione di molti, a uno sbarco sulla costa ligure.
“O con noi o contro di noi”
così il prefetto della RSI Carlo Emanuele Basile concludeva il suo proclama del 10 giugno, in cui annunciava la chiusura d’autorità per diversi giorni di alcune fabbriche entrate in sciopero. La minaccia si concretizzò sei giorni più tardi, il 16 giugno, quando venne attuata una terribile deportazione: circondati gli stabilimenti SIAC di Cornigliano, San Giorgio, Piaggio, cantiere navale Ansaldo di Sestri, i tedeschi, con l’aiuto di militi della RSI, catturarono circa 1500 operai che, portati allo scalo ferroviario di Sampierdarena, furono caricati sui vagoni e immediatamente inviati al lager in Germania, per essere poi impiegati come manodopera coatta nelle imprese tedesche.
Con la nascita, nell’estate 1944, delle SAP, molte fabbriche divennero sempre più un punto di riferimento e una base di appoggio per la lotta clandestina, che potè sfruttare per i propri fini queste vaste aree urbane e le costruzioni ivi situate. Molti operai-partigiani utilizzarono la fabbrica per nascondere e prelevare armi, per diffondere volantini e fogli antifascisti, per trafugare materiale utile alla lotta, per attuare manomissioni e sabotaggi.
La classe operaia genovese si attivò anche per la salvaguardia degli impianti e per evitare lo smontaggio e il trasferimento in Germania di macchinari e strumenti, operazione che avrebbe fortemente compromesso il futuro dell’industria genovese. Analoghe considerazioni si possono fare per le maestranze portuali a proposito delle infrastrutture sui moli e sulle banchine.
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Istituto Ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea
Liceo Scientifico Statale G. D. Cassini Genova