Fonti Partigiane

Il memoriale di Remo Scappini

Remo Scappini (1908-1994), operaio toscano, inizia negli anni Venti la militanza nel Partito comunista italiano. Ricercato dalla polizia, si rifugia all’estero, prima a Parigi e poi a Mosca. Nel 1933 rientra clandestinamente in Italia ma viene arrestato e condannato dal Tribunale Speciale. Tornato libero nel 1942, riprende la lotta politica. Nel giugno 1944 entra a far parte del CLN ligure, del quale diventa presidente nei primi mesi del 1945, assumendo in tale veste un ruolo di primo piano nelle vicende che conducono alla liberazione di Genova. Il 25 aprile a Villa Migone controfirma l’atto di resa del generale Günther Meinhold.

Nel libro di memorie, Da Empoli a Genova. 1945 (Milano, La Pietra, 1981), troviamo una dettagliata ricostruzione delle giornate conclusive del conflitto nel capoluogo ligure.
La situazione cominciò ad accelerare nel tardo pomeriggio del 23 aprile, quando, dapprima nei quartieri del ponente cittadino e poi in Valpolcevera, ebbe inizio l’insurrezione popolare. A far precipitare gli eventi fu la notizia della partenza di vari mezzi militari tedeschi, sintomo della imminente ritirata che avrebbe potuto comportare la messa in atto del ‘Piano Z’, che prevedeva la distruzione degli impianti portuali e di quelli industriali. Afferma Scappini: “é noto che questo piano non poté essere attuato dai tedeschi in seguito all’insurrezione popolare. Meinhold fece vari tentativi affinché questa non avvenisse, tramite i suoi amici genovesi e l’interessamento della Curia arcivescovile che, più volte, sollecitò il C.L.N.L. [Comitato di liberazione nazionale della Liguria] e altri dirigenti della Resistenza genovese a consentire il ritiro ‘indisturbato’ dei tedeschi per evitare che questi procedessero a mettere in atto il ‘Piano Z’. Dopo che il C.L.N.L. e il C.M.R. [Comitato militare regionale] si furono a più riprese rifiutati di accettare quelle condizioni, Meinhold si decise a intavolare trattative direttamente col C.L.N.L., contando evidentemente di ottenere quanto aveva inutilmente più volte richiesto tramite i suoi intermediari”.
Scappini attribuisce dunque all’insurrezione popolare la mancata attuazione del “Piano Z” che, stando alle sue affermazioni, lo stesso Meinhold avrebbe evocato come possibile conseguenza di una opposizione, da parte delle forze partigiane, alla ritirata tedesca. Meinhold, invece, nel suo memoriale afferma di aver fornito agli uomini della Resistenza le indicazioni dei posti di brillamento delle mine in porto, affinché queste potessero essere opportunamente disinnescate, essendo sua precipua preoccupazione la salvaguardia di Genova e del suo porto.
Proseguendo nella narrazione, Scappini rievoca la sera del 23 aprile, quando, a insurrezione popolare ormai in corso, venne convocata una riunione straordinaria e congiunta del CLNL e del CMR presso la sede del Collegio di San Nicola. La rappresentanza del Partito comunista raggiunse la riunione solo nelle prime ore del mattino del 24, poiché non era venuta subito a conoscenza dell’appuntamento. Non tutti i presenti erano d’accordo di passare all’azione ma alla fine, a maggioranza, fu deciso di dare l’ordine di insurrezione, il cui proclama venne redatto da Paolo Emilio Taviani, rappresentante della DC nel CLNL.

Popolo genovese esulta!

È finalmente giunta l’ora

tanto attesa della liberazione!

(proclama radiofonico di Taviani, 24 aprile 1945)

Intanto in molte parti della città e della provincia già si stava combattendo. Nella notte fra il 23 e il 24 furono presi dai partigiani alcuni luoghi nevralgici: la Prefettura, la Casa dello Studente, ove Siegfried Engel aveva installato il quartier generale delle SS, la Questura, la Casa del Fascio, le tipografie dei quotidiani. Fu anche occupato il carcere di Marassi, dove furono liberati i prigionieri politici, molti dei quali nelle ore immediatamente successive tornarono a combattere o andarono a ricoprire importanti incarichi nelle nuove istituzioni che stavano nascendo.
Ripercorrendo le memorie di Scappini sembra di assistere al fermento di quei giorni concitati. Leggiamo: “nei giorni precedenti l’insurrezione, il nostro partito aveva compiuto un grande sforzo per mobilitare compagni e compagne […] Nel tardo pomeriggio del 23, quando si notarono movimenti di carriaggi e di truppe tedesche sulla camionabile Genova-Milano, furono impartite le ultime direttive per una mobilitazione generale del partito e delle organizzazioni di massa […]. Una particolare attenzione era stata dedicata alle formazioni militari, alle Sap delle zone industriali e del centro di Genova, che operavano alle dipendenze del Comando Piazza. I nostri obiettivi immediati erano […] lo sciopero generale, l’azione armata contro vie di comunicazione, obiettivi militari e civili”. Lo sciopero generale fu infatti proclamato la mattina del 24″.

Un grande sforzo per mobilitare
compagni e compagne

Nel pomeriggio del 23 Scappini, dopo aver partecipato alla riunione del T.I. (Triumvirato insurrezionale), organo del PCI di cui facevano parte, oltre a lui, Carlo Farini e Giovanni Parodi, fece ritorno nella sua casa in corso Carbonara, dove trascorse la notte a discutere con Parodi. Al mattino del 24 si recò alla sede del T.I. in piazza Palermo, dove rimase fino al mattino successivo.
Grazie al lavoro delle staffette fervevano i contatti fra i vari gruppi combattenti dislocati nelle diverse parti della città. Più difficili erano le comunicazioni con la val Polcevera, ove molti partigiani si trovavano nei pressi della camionale Genova-Milano.
Nella mattinata del 25 Scappini lasciò piazza Palermo per recarsi alla sede del CLNL a San Nicola, dove, “accolto cordialmente”, assunse ufficialmente la carica di presidente.
Tra il 24 e il 25 infuriò la battaglia, soprattutto lungo la fascia del porto, tra Caricamento e Sampierdarena, dove gli uomini della Kriegsmarine, guidati dal capitano Max Berninghaus, insieme ai soldati della Decima Mas, sparavano senza sosta.

Scocca l’ora X dell’insurrezione: in tutta Genova infuria la battaglia

Sul fronte opposto agli uomini delle SAP e ai partigiani di varie brigate si stavano aggiungendo, ora dopo ora, “migliaia di operai, uomini e donne, giovani e ragazzi”. Lo sciopero generale fermò la città e la provincia in quanto furono bloccati tutti i mezzi di trasporto. Grande era la paura che i tedeschi facessero saltare il porto, come avevano minacciato, o che bombardassero la città dalle postazioni di artiglieria di monte Moro. Inoltre le formazioni partigiane di montagna tardavano ad arrivare. Scappini racconta che esse (Brigate Garibaldi e G.L. Matteotti) entrarono a Genova la notte del 25 e dovettero ancora battersi per ripulire definitivamente la città da tedeschi, fascisti e un gran numero di spie. Le avanguardie della V Armata fecero il loro ingresso nel capoluogo solo il giorno 26, mentre il grosso arrivò il 27.

Ma torniamo alla giornata del 25. Come si giunse alla resa tedesca?
Secondo la ricostruzione di Remo Scappini, il generale della Wehrmacht Günther Meinhold, comandante della piazzaforte di Genova, già da tempo aveva avuto approcci con esponenti della Curia, tramite alcuni suoi amici genovesi. Successivamente egli era entrato in contatto con il prof. Carmine Romanzi, legato al Partito d’Azione e amico di Cassiani Ingoni, membro del CLNL, al quale aveva chiesto di potersi incontrare con dirigenti partigiani. Il CLNL concesse che gli incontri di Günther Meinhold e l’esponente della Resistenza Carmine Alfredo Romanzi con il generale continuassero, al fine di conoscerne i propositi. Meinhold chiese una sorta di armistizio, affinché potesse essere effettuato il ritiro delle truppe tedesche dislocate tra Moneglia e Genova. “Tale richiesta – scrive Scappini – era fortemente condivisa e appoggiata dalla Curia arcivescovile genovese, ma il C.L.N.L., il C.M.R.L. e il Comando Piazza di Genova, all’unanimità e con decisione, opposero un netto rifiuto, chiedendo che le truppe tedesche si arrendessero senza condizioni al C.L.N.L., quale unico rappresentante del C.L.N.A.I. [Comitato nazionale di liberazione alta Italia, con sede a Milano] delegato del governo nazionale con pieni poteri per l’Italia occupata”.
Il 23 Meinhold, tramite Romanzi, insistette ancora nella sua richiesta. Il 24 il CMR fece pervenire al generale la sua risposta negativa: i partigiani chiedevano la resa. Quanto ai militari tedeschi, si assicurava che sarebbero stati trattati come prigionieri di guerra e tenuti a disposizione del Comando Militare Alleato.
Pur consapevoli della posta in gioco e dell’alto rischio che stavano correndo, i membri del Cmr decisero dunque di assumere una posizione netta e ferma: “in questo caso – scrive Scappini – si tenne molto conto del lato politico della questione, puntando sul prestigio e sul valore delle forze patriottiche che, anche agli occhi del nemico, avevano dato eloquenti prove della propria forza e capacità combattiva”. Le forze della Resistenza avevano bisogno di sancire il loro ruolo di combattenti e di liberatori con una azione di grande rilievo, anche dal punto di vista simbolico, in vista di ciò che sarebbe accaduto dopo la fine del conflitto.

Netta è la posizione del CLN: Meinhold deve arrendersi ai partigiani

Il 24 Meinhold fece sapere di essere disposto a incontrarsi con i capi militari del CLNL. Per questo Romanzi, munito delle necessarie credenziali, partì la sera del 24 e non il mattino del 25 (come scrive nelle sue memorie Scappini) con una ambulanza alla volta di Savignone, dove si trovava la sede del Comando tedesco. Da lì il generale, il suo capo di stato maggiore Asmus e l’interprete Joseph Pohl, accompagnati da Romanzi e da altri esponenti partigiani, partirono alla volta di Genova, con destinazione Villa Migone, residenza privata del cardinale Boetto, dove si sarebbe svolta la trattativa. Quattro uomini formavano la delegazione che alle 15.30 si presentò a villa Migone per la trattativa: Scappini (comunista), Errico Martino (liberale), Mauro Aloni (ex maggiore dell’esercito, passato alla Resistenza nel 1944, cui era stato affidato il Comando Piazza di Genova) e Giovanni Savoretti (liberale).
Meritano di essere citate le parole con le quali Scappini racconta quella circostanza: “fin dal primo momento capimmo di non aver fatto buona impressione sul generale, così magri in carne e mal messi nei nostri abiti civili, quando forse lui si aspettava di incontrare militari in divisa e di grado pari al suo. Il cardinale Boetto, pur non conoscendoci di persona, sapeva bene chi eravamo e quali partiti rappresentavamo, quindi doveva aver detto al generale che presidente del Comitato e capo della delegazione era un comunista”.

Così magri in carne e mal messi nei nostri abiti civili: i partigiani del CLN al cospetto di Meinhold a Villa Migone

Ricordiamo quanto scrive il generale Meinhold, nel suo memoriale, a proposito del momento in cui comunicò ai suoi di aver preso la decisione di arrendersi: “Diedi la parola al più anziano degli ufficiali. Mi disse che comprendeva la situazione, ma avrebbe preferito arrendersi agli americani. Ero preparato a questa obiezione. L’idea di arrendersi a truppe irregolari era antipatico ai più; respinsi questa proposta. Anzitutto era troppo tardi e poi l’idea di abbassare le armi davanti a una divisione di colore mi sarebbe stata ancora decisamente più antipatica”

Al presidente del CLNL dunque non sfuggì la diffidenza e lo sprezzante senso di superiorità del generale prussiano. Però, a differenza di quanto sostiene Meinhold nelle sue memorie, Scappini ebbe la netta sensazione che egli, ancora in quel momento, cercasse di evitare di arrendersi alle forze della Resistenza, sperando nell’arrivo degli anglo-americani:

“si vedeva chiaramente che Meinhold cercava di tergiversare prima di apporre la sua firma sul documento di resa; forse sperava in un tempestivo arrivo di staffette della 92ª Divisione americana che sapeva essere in marcia dalla Spezia e vicinissime a Rapallo, oppure nell’intervento della Missione inglese e americana della VI Zona, per consegnarsi prigioniero agli Alleati ed evitare così di arrendersi ai rappresentanti della Resistenza. Si vedeva che Meinhold non aveva nessuna fretta di arrivare alla conclusione, ma ne avevamo noi, consapevoli del valore di quell’atto”.

Alle 19.30, finalmente, la resa fu sottoscritta. Scappini riflette su quei momenti così intensi e si sofferma sul dramma umano del generale:

“alle 19 e 30, quando la resa fu sottoscritta, tirammo un sospiro di sollievo. Il generale era affranto, forse stanco anche fisicamente. Ebbimo l’impressione che Meinhold, dopo aver firmato, si sentisse come scaricato da un pesante fardello. Percepimmo di avere davanti a noi un uomo che si era fortemente dibattuto tra l’esigenza di tener fede al giuramento fatto ai capi politici e militari del Reich […] e l’impulso di rassegnazione a cedere, mettendo così fine all’inutile spargimento di sangue e a ulteriori distruzioni. In certi momenti Meinhold dava l’impressione di essere lontano con la mente. Sembrava interrogarsi nel suo intimo, forse per cercare una giustificazione a quanto stava facendo. Forse meditò sulla sua lunga carriera di soldato […]. Noi delegati del C.L.N.L. lo osservammo da vicino per tre ore e avemmo tutti questa impressione, che Meinhold in quel momento avesse compiuto lo sforzo più impegnativo della sua vita”.

Toccante è la conclusione, per il significato umano che riveste:

“credo che da parte sua, Meinhold scoprisse che noi, suoi nemici, non eravamo poi quei tremendi soggetti che forse qualcuno gli aveva rappresentato. Il generale era affranto, forse stanco […] Percepimmo di avere davanti a noi un uomo che si era fortemente dibattuto […] io, che non sono facile alla commozione, di fronte a quell’uomo, in quel momento, non sentii di odiarlo. E non escluderei che, in cuor suo, avesse cambiato opinione anche sui comunisti, nelle cui mani aveva temuto di far finire le armi dei suoi uomini. Devo dire che io, che non sono facile alla commozione, di fronte a quell’uomo, in quel momento, non sentii di odiarlo come odiavo i nazifascisti e provai un senso di comprensione umana”.

Le memorie di Augusto Miroglio

Nato nel 1908 a Visone, in provincia di Alessandria, in una famiglia di agricoltori, Augusto Miroglio (“Alfredo”) inizia a lavorare giovanissimo in una fabbrica genovese. Militante del PCI e costretto, dopo l’8 settembre, a lasciare Genova per timore di essere arrestato, continua a Imperia la sua opera politica clandestina. Ritornato a Genova nell’autunno 1944, si impegna nella riorganizzazione della rete clandestina, raggiungendo successivamente l’area dell’entroterra ove era ubicato il Comando della VI Zona.

Venti mesi contro venti anni. Quando la ribellione è dovere (Genova, Istituto Storico della Resistenza in Liguria, 1968, II edizione completata e aggiornata) riporta al suo interno integralmente il documento Circolare del Comando Piazza Genovese per la Mobilitazione Automatica delle S.A.P., emesso dal CLN-Corpo Volontari della Libertà e inerente lo spiegamento delle forze partigiane per il controllo della vita pubblica, delle vie di comunicazione e per la tutela del patrimonio nazionale, da effettuarsi dopo l’annuncio ufficiale dell’avvenuto crollo della Germania.

“Tutti i sapisti abbandoneranno il lavoro o la casa e si raduneranno nei posti assegnati per prenderne possesso. Dovranno cioè sostituirsi, quale forza pubblica e presidiaria, alla attuale organizzazione nazi-fascista, dopo aver posto in condizione di non nuocere tutte le F.A. tedesche e repubblicane [corsivo nel testo]. La m.a. [mobilitazione automatica] è un succedersi di movimenti rapidi che potranno susseguirsi normalmente soltanto se eseguiti felicemente l’uno dopo l’altro. Il documento elenca con precisione gli obiettivi civili, raccomandando rapidità nel prenderne possesso anche per evitare saccheggi e distruzioni da parte della popolazione e per dare un senso di tranquillità al popolo. Ciascun obiettivo doveva essere occupato da squadre sulla base della loro consistenza, la scelta dei capisquadra doveva rispondere a criteri rigorosi: cattivi esempi, da parte dei sapisti, non sarebbero stati in nessun caso tollerati.
Per quanto riguardava gli obiettivi militari, si faceva una triplice distinzione: le forze armate tedesche, in caso di resa, avrebbero dovuto essere disarmate e poi poste “in condizione di non nuocere sino all’arrivo delle forze alleate e delle formazioni partigiane”; i membri dell’Esercito e della Marina repubblicana erano “da considerarsi soggetti ad istruttoria” e in quanto tali, nel caso di soggetti sospetti, da rinchiudersi “in sedi di concentramento che ogni Brigata costituirà”; per quanto riguarda infine i membri della Guardia nazionale repubblicana (GNR) e del partito fascista “tutti gli elementi appartenenti a questi corpi dovranno essere catturati”. Si sottolineava la necessità di sottrarre all’ira popolare i caporioni fascisti in fuga e di evitare forme di linciaggio.
I sapisti, continuava il documento, dovevano arginare eccessi di entusiasmo e di vendetta e liberarsi “dallo stato d’animo cospirativo in cui si trovano da tanto tempo, perché la loro organizzazione, effettuata la m.a., non sarà più nascosta bensì sarà legale”.

Dello stesso autore è la Cronistoria politico-militare ligure dell’aprile 1945 (Genova, Comitato della Resistenza presso la Regione Liguria, 1977), in cui vengono ripercorsi gli eventi della liberazione di Genova con particolare ricchezza di dettagli. In particolare viene sottolineato il problema della salvaguardia del porto, la cui distruzione sarebbe stata evitata, secondo le parole dell’ufficiale tedesco Max Berninghaus, solo se le truppe tedesche in ritirata non fossero state “provocate o aggredite”.

La “breve storia” di Paolo Emilio Taviani

Paolo Emilio Taviani (1912-2001) si laurea in giurisprudenza all’Università di Genova nel 1934, in scienze sociali all’Università di Pisa nel 1936 e in filosofia alla Cattolica di Milano nel 1938. Presidente della FUCI (Federazione universitaria cattolica italiana) dal 1932 al 1935, alla vigilia della guerra è richiamato alle armi con il grado di tenente, per poi essere messo in congedo provvisorio nell’agosto 1940. Inserito nell’aprile 1943 nella lista per il confino, a causa delle sue idee antifasciste e degli articoli pubblicati su “Il Nuovo Cittadino” e “Avvenire d’Italia”, promuove la nascita del Comitato dei partiti antifascisti genovesi e, dopo l’8 settembre, entra a far parte del CLN genovese, in rappresentanza della Democrazia Cristiana, con il compito, in particolare, di mantenere i contatti con le formazioni partigiane dell’entroterra ligure. Adottato il nome di battaglia di “Riccardo Pittaluga”, ben presto è costretto a lasciare l’insegnamento al liceo scientifico Cassini di Santa Margherita Ligure e ad entrare in clandestinità. Sarà lui, la notte del 23 aprile 1945, a presiedere la riunione del CLN, presso il collegio San Nicola sulla alture della città, durante la quale viene dato il via alla sollevazione e ad annunciare alla radio, la mattina del 26, l’avvenuta liberazione della città (“Genova è libera: popolo genovese esulta!”).
Deputato all’Assemblea costituente, Taviani è stato un protagonista della vita politica italiana, ricoprendo i ruoli di ministro della Difesa, dell’Interno, dei dicasteri economici, del Mezzogiorno, di vicepresidente del Senato e venendo nominato, nel 1991, senatore a vita.
Professore universitario, ha scritto saggi di economia e su Cristoforo Colombo, di cui è stato uno dei più autorevoli studiosi a livello mondiale.
Sulla Resistenza ha scritto Breve storia dell’insurrezione di Genova (Genova, Il Corriere, s.d. [ma 1945], più volte ristampato) e il memoriale Pittaluga racconta. Romanzo di fatti veri (1943-45) (Genova, Ecig, 1988; ristampato da il Mulino nel 2001).

Nel maggio 1945, all’indomani della liberazione, Taviani pubblica sulla rivista fiorentina “Il Ponte” una breve storia dell’insurrezione di Genova.
Accingendosi a ricostruire le fasi finali della lotta di liberazione nell’area genovese e l’intreccio delle varie vicende militari svoltesi contemporaneamente, sia città sia in montagna, Taviani sottolinea come essa costituisca l’unico episodio della Seconda guerra mondiale, considerata in tutti i suoi vari fronti, in cui un corpo di esercito, forte e organizzato, si è arreso dinanzi agli insorti. È stato, senza dubbio alcuno, l’episodio più significativo nella liberazione dell’Italia settentrionale. Gli Alleati lo hanno riconosciuto; un obiettivo esame dei fatti lo dimostra”.

Un quadro, quello che emerge nella Breve storia dell’insurrezione di Genova, che sembra ispirare e corrispondere alla definizione di “insurrezione modello, coniata da Roberto Battaglia in Storia della Resistenza italiana (Torino, Einaudi, 1953), opera rimasta per molto tempo come il classico testo di riferimento sull’argomento, per indicare gli avvenimenti genovesi dell’aprile 1945. La conferma di questo giudizio, in parte attenuato dalla storiografia più recente, ci pare sia data dall’applicazione dei piani operativi, che furono eseguiti secondo le previste indicazioni, salvo alcuni ritardi sui tempi di attuazione. Sul piano militare si verificò un vero e proprio salto di qualità, con un’azione coordinata in cui furono coinvolte anche le formazioni di montagna, chiamate a marciare contro i presidi e a fermare le colonne di ripiegamento.

Le formazioni cittadine rivelarono, infine, una notevole efficienza e capacità organizzativa, riuscendo anche a impiegare e gestire i numerosi volontari “insurrezionali” che, altra grande novità di quelle giornate, si presentarono per dare il loro contributo.
L’unità politica e militare della Resistenza appare comunque come la premessa e la base di questo successo, in cui va evidenziato il ruolo del CLN, pronto ad assumersi la responsabilità di dare il segnale dell’insurrezione generale e di assecondare così la spinta popolare, concretizzatasi nella sollevazione nel tardo pomeriggio del 23 aprile di alcune SAP cittadine, senza attendere l’arrivo delle unità partigiane di montagna.
In tal modo fu possibile, con alcune essenziali modifiche del piano A, respingere il ricatto del comando germanico, impedire le minacciate distruzioni e, nello stesso tempo, la ritirata della maggior parte delle truppe nemiche, costrette alla resa nelle mani dei partigiani.
Unità, tempestività, una buona preparazione hanno reso possibile il successo della sollevazione per liberare Genova in una situazione militare che risultava ancora favorevole al nemico.

Del testo di Taviani, scritto “a caldo”, mettiamo in evidenza alcuni passaggi che ci sembrano significativi per diversi motivi.

• “La seduta non è tranquilla”, così l’autore descrive la riunione del CLN, nella notte del 23 aprile, in cui si doveva decidere se dare il via libera oppure no all’insurrezione. Una decisione non facile, presa a maggioranza e non all’unanimità come avveniva solitamente, che avrebbe potuto provocare un bagno di sangue e trasformarsi in una catastrofe per il movimento partigiano.

• “Tutto il popolo genovese si era armato: vecchi, adulti, ragazzi. Genova acquistava coscienza della sua fierezza, e compiva gesta che, dall’età di Balilla, le sue strade, i suoi vicoli più non conoscevano”. Taviani sostiene che il 24 aprile le SAP, inizialmente formate da circa 3000 uomini, arrivino a contare fino a 20.000 elementi: al di là della cifra, difficilmente verificabile e probabilmente sovrastimata, è da rimarcare l’enfasi dell’autore posta sul coinvolgimento dell’intera popolazione.

Tutto il popolo genovese si era armato

• “Nessuna resistenza viene opposta da parte dei fascisti, di cui non c’è più traccia”: affermazione veritiera e sostanzialmente convalidata dalla storiografia successiva. Con l’unica eccezione degli uomini della X Mas, asserragliati in porto, i fascisti rimasti in città si nascosero o non opposero resistenza. I gerarchi e i 1500 brigatisti neri della Silvio Parodi avevano già lasciato Genova la sera del 23 aprile, accodandosi alla colonna tedesca diretta a nord.

• “In quel momento lo sentii fratello; e sentii che, al di sopra di tutto il sangue che, per colpa loro, si era versato in ogni contrada d’Europa, e oggi si spargeva nelle strade della nostra città, c’era ancora un vincolo che univa il nostro popolo […] e il popolo di quell’ufficiale, infatuato da un’ideologia pagana e da un orgoglio pazzesco e suicida: il vincolo che unisce tutti gli uomini, e li fa tutti figli di mamma, carne della stessa carne, creature dello stesso Dio”: sono i sentimenti provati dall’autore al cospetto di un capitano della Wehrmacht – condotto bendato, alle ore 18 del 24 aprile, al Collegio di San Nicola – venuto a chiedere il libero transito sino ai Giovi per tutti i presidi tedeschi del levante.

• “Armati, equipaggiati, magnifici, sfilavano, cantando, i giovani, che, per lunghi mesi, sulle pendici dell’Antola, nei paesi dell’Alta Trebbia e dell’alta Scrivia, avevano sognato questo momento”: sono i primi reparti partigiani di montagna che, nel pomeriggio del 26 aprile, cominciano ad arrivare in città. Il sogno tenacemente coltivato per mesi e mesi si stava finalmente avverando.

• “Per la prima volta una città si presentava a loro nelle sue condizioni normali di vita”: le prime pattuglie americane, che la sera del 26 aprile riescono a raggiungere Genova lungo la via Aurelia, sono esterrefatte nel constatare che Genova è libera, le case sono illuminate e qualche tram aveva pure ripreso a circolare.

• Nel riportare un bilancio conclusivo di 300 morti e 3000 feriti, cifre sovrastimate (Giorgio Gimelli, nella sua opera sulla Resistenza ligure, calcolerà in 187 il numero dei morti), così Taviani conclude la sua breve storia dell’insurrezione genovese: “l’Italia è ancora una nazione vinta. Sarebbe follia pretendere di cancellare, con due giornate eroiche, gli errori di ventidue anni; ma non è follia ritenere che, se il popolo genovese e italiano ha molto perduto, esso non ha perduto, ma soltanto smarrito l’8 settembre, e poi ritrovato nelle radiose giornate di aprile, il suo onore, la coscienza delle proprie possibilità, il proprio posto nell’ambito dei popoli civili”.

 

Memorie orali della Resistenza

I documenti che abbiamo analizzato sono interviste, custodite presso l’Archivio storico dell’Ilsrec nel Fondo Memoria Orale. Registrate originariamente su nastro magnetico e trascritte su supporto cartaceo, queste preziose testimonianze orali sono state interamente digitalizzate nel 2014 grazie alla collaborazione della Fondazione Ansaldo che, sotto la supervisione della Soprintendenza Archivistica per la Liguria, ha reso possibile questa operazione, tesa alla salvaguardia di un patrimonio archivistico a rischio di progressivo deterioramento. Le oltre duecento interviste sono ora a disposizione degli storici e dei ricercatori, che potranno analizzarle senza comprometterne lo stato di conservazione.

Le interviste esaminate – lettura delle relative trascrizioni – riguardano dodici partigiani e la maggior parte di esse è stata realizzata da Alberto Piccini tra il dicembre del 1994 e il maggio 1995, mentre in due casi, quello di Maria Pia Masnata e Santo Minetto, sono state raccolte nel 1994 da Anna Alberico.
L’elenco dei partigiani, con relativo nome di battaglia e formazione di appartenenza, è il seguente:

∙ Giovanni Battista Benso (“Batti”): comandante del distaccamento Crescione e del distaccamento Barigione (GAP)
∙ Cesare Casalini (“Cini”): III brigata Liguria, successivamente brigata SAP Rissotto
∙ Paolo Cugurra: brigata GL Matteotti
∙ Giovanni Degl’Innocenti (“Giuàn”): brigata Oreste
∙ Arrigo Diodati (“Franco”): brigate SAP di Genova
∙ Alessio Franzone (“Arrigo”): comandante della brigata Pio (divisione Mingo)
∙ Maria Pia Masnata (“Anita”): brigata Jori SAP, distaccamento femminile Alice Noli
∙ Santo Minetto (“Santin” o “Lepre”): brigata Oliveri (divisione Mingo)
∙ Giuseppe Noberasco (“Gustavo” o “Libro”): comandante SAP Garibaldi
∙ Francesco Panizzi (“Racchetta”): Brigata Mario Sordi
∙ Fernando Pucci (“Ettore”): SAP Garibaldi
∙ Luigi Scalbi: Brigata Balilla (SAP)

dischi del Fondo Memoria Orale dell’Archivio Ilsrec

Abbiamo ordinato le nostre osservazioni cercando di evidenziare gli aspetti che ci sono sembrati maggiormente significativi e chiarificatori ai fini della comprensione e valutazione dei documenti stessi.
Dai dati a nostra disposizione è possibile affermare che le brigate partigiane fossero formazioni largamente eterogenee, di cui facevano parte uomini e donne di ogni età e condizione sociale.
Entrare nella brigata significava lasciarsi alle spalle la propria vita precedente, dover dimenticare la propria età e addirittura il proprio nome, che per ragioni di sicurezza veniva sostituito con uno fittizio, il nome di “battaglia”, al quale peraltro ogni partigiano sarebbe rimasto affezionato per tutto il resto della sua vita. Per fare alcuni esempi, Alessio Franzone nato a Pontedecimo nel 1909, scelse il nome di Arrigo, Giovanni degl’Innocenti, nato ad Arezzo nel 1924 e successivamente trasferitosi a Genova, quello di Giuàn e Francesco Panizzi, nato a Genova-Borzoli il 1° marzo 1926, quello di Racchetta.
L’età media dei componenti delle brigate era molto bassa, come dimostrano i casi di Giovanni Battista Benso, che nell’anno della Liberazione, il 1945, aveva solo 18 anni e quelli di Luigi Scalbi e Paolo Cugurra (si veda la sezione “Resistenza e letteratura”), entrambi diciassettenni.
Alla Resistenza non parteciparono solo gli uomini, come dimostra, nel campione di interviste da noi esaminato, la vicenda di Maria Pia Masnata, nata a Certosa in val Polcevera il 13 agosto 1926, che prese parte attiva alla lotta di Liberazione.
Abbiamo inoltre avuto modo di leggere le interviste a Giuseppe Noberasco (“Gustavo”), nato a Savona nel 1920, e a Fernando Pucci (“Ettore”), nato a Genova nel 1918. I suddetti partigiani mostrano in maniera chiara quanto i membri delle brigate fossero diversi tra loro anche per livello di istruzione e provenienza sociale: Noberasco frequentò il liceo classico, opportunità di cui non potè avvalersi invece Pucci, proveniente da una famiglia di estrazione operaia.
Anche le interviste a Santo Minetto, nato a Rossiglione il 2 maggio 1924, a Cesare Casalini, originario di Pontedecimo, e allo spezzino Arrigo Diodati, che nell’anno della Liberazione aveva 19 anni, offrono un quadro dettagliato e vivace del lavoro svolto dai partigiani nell’ambito della Resistenza e in particolar modo nelle vicende inerenti la liberazione di Genova.
Analizzando le varie testimonianze possiamo notare come le motivazioni che spinsero le persone a entrare nelle file della Resistenza siano state molteplici e non riconducibili a fattori univoci.
Tra i numerosi ruoli che i partigiani hanno ricoperto nel corso della lotta di liberazione, dalle interviste prese in esame sono emersi soprattutto quelli legati a operazioni di propaganda e volantinaggio, funzioni di staffetta, trasporto d’armi, azioni di sabotaggio.
Dall’indagine sulle dodici testimonianze della Resistenza genovese, è emerso come tre partigiani – Panizzi, Cugurra, Scalbi – abbiano svolto prevalentemente azioni di propaganda e volantinaggio e ciò, molto probabilmente, per la loro giovane età. Maria Pia Masnata e Santo Minetto hanno ricoperto il ruolo di staffetta, con il compito di curare i collegamenti nella zona del Ponente ligure; inoltre Maria Pia Masnata precisa come quello di staffetta non fosse che uno dei molteplici ruoli ricoperti dalle donne, cui spesso veniva affidato il compito di trasportare armi e ordigni, essendo la componente femminile meno soggetta degli uomini, almeno in teoria, ai fermi e alle perquisizioni.
Tutti gli altri intervistati, compreso il precedentemente citato Scalbi, parteciparono ad azioni di sabotaggio. Giovanni Degl’Innocenti, a questo proposito, rammenta vari attentati a tralicci e vie di comunicazione, mentre Franzone ricorda l’attacco a un convoglio tedesco nei pressi di Ronco Scrivia e l’assalto ad una struttura delle Brigate Nere, conclusosi con la liberazione di alcuni partigiani prigionieri.
Giuseppe Noberasco e Fernando Pucci svolsero attività di direzione, coordinamento, sorveglianza nelle zone maggiormente a rischio e furono tra coloro che, nei giorni dell’insurrezione generale di Genova, parteciparono alla liberazione del carcere di Marassi. Ancora Scalbi racconta dell’operazione, portata avanti insieme ai suoi compagni di brigata, per bloccare la camionale per Milano, in modo da impedire il transito ai tedeschi.
Le interviste presentano anche episodi legati alle giornate che portarono alla liberazione di Genova. Ricordiamo, in particolare, le azioni militari che videro protagonisti, con i loro uomini, Diodati (attacco alla postazione dei Giovi, presidiata dai tedeschi), Franzone (attacco al presidio tedesco di Voltaggio e alle caserme della Gaiassa e di Isoverde), Casalini, impegnato con i sappisti della Brigata Rissotto a Pontedecimo, estrema delegazione genovese, e, per restare sempre in val Polcevera, Scalbi, attivo nella zona di Teglia. Nel ponente cittadino operava invece Panizzi, che con i suoi compagni di brigata riuscì a occupare la stazione ferroviaria di Sestri, mentre Pucci, vicecomandante delle SAP cittadine, ebbe la responsabilità del centro città, della val Bisagno e del quartiere di San Fruttuoso, contribuendo alle trattative per la resa del presidio tedesco della Foce.
Sui quartieri di Rivarolo e Sampierdarena gravitò l’azione di Maria Pia Masnata.
Le azioni dei partigiani, dei quali abbiamo esaminato le testimonianze, si concentrarono principalmente nelle seguenti quattro aree: entroterra ligure, Genova, riviera di ponente, riviera di levante.

 

il Progetto  Team Classi Credits Ilsrec

Istituto Ligure per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea

Liceo Scientifico Statale G. D. Cassini Genova

 

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