Fonti tedesche
Il Memoriale Meinhold
Nel 1949 Il Secolo XIX pubblicò a puntate, a partire dal 26 aprile, il memoriale del generale Günther Meinhold, che era stato comandante della piazzaforte di Genova dal 1° marzo 1944 fino al 25 aprile 1945, giorno in cui firmò l’atto di resa alle forze della Resistenza.
L’originale del memoriale, autografato da Meinhold, e la relativa traduzione, a cura di Elisabetta Muller, cittadina di origine tedesca cui il generale si era rivolto per stabilire un primo contatto con gli uomini della Resistenza, è conservato presso l’Archivio storico dell’Ilsrec.
Il memoriale ricostruisce il periodo compreso fra il marzo 1944, quando Günther Meinhold, generale della Wehrmacht, riceve l’ordine di trasformare Genova in una piazzaforte, fino alla caduta e alla resa dei tedeschi nell’aprile 1945.
La narrazione, più ampia nella ricostruzione del primo periodo, diviene più precisa e densa via via che si avvicina alla conclusione del conflitto.
Fin dalle prime pagine del memoriale emerge con chiarezza la volontà di Meinhold di sottolineare la distanza tra il suo operato e quello degli apparati hitleriani che agivano in contiguità con i fascisti. In particolare il generale sottolinea la sua avversione verso lo SD (Sicherheistdienst), la polizia segreta hitleriana, il cui quartier generale era situato presso la Casa dello Studente, nell’odierna via Gastaldi. Si trattava di un organismo autonomo, indipendente dall’esercito, descritto come presuntuoso, minaccioso e sinistro. Presentandosi come un’autorità piena di senso di responsabilità verso la città di Genova, Meinhold si dipinge come colui al quale la popolazione civile faceva spesso riferimento e rivolgeva proteste e lamentele, “nella maggior parte ben giustificate”, suscitate dai soprusi dei nazisti e delle Brigate Nere. Da queste ultime, in particolare, il generale precisa di aver preso le distanze e di non essersene mai servito per azioni contro i partigiani. Duro è il giudizio formulato sul fascismo e sul Duce, il cui regime nel 1944 stava dando, ormai, inequivocabili segni di disgregazione. Meinhold sostiene di aver avuto allora la chiara consapevolezza che la terra stava venendo a mancare sotto i piedi degli occupanti e dei loro alleati, lasciando intendere che in quel clima maturò la sua preoccupazione per le sorti di Genova e la lucida visione dell’inutilità di proseguire il conflitto. Secondo i piani di Hitler, definito nel memoriale “il grande dilettante del Reichskanzlei [cancelleria del Reich] di Berlino”, se la città forse insorta o se un attacco degli alleati avesse costretto i tedeschi alla fuga, questi avrebbero dovuto fare “terra bruciata” dietro di loro, in conformità al “famigerato” – la definizione è dello stesso Meinhold – “Piano Z”, comprendente una lunghissima lista (centrali elettriche e dell’acqua, fabbriche, ponti, gallerie e, primo fra tutti, il porto con la sua diga foranea) di obiettivi da distruggere.
Proseguendo nella narrazione, il generale cerca di mostrare il suo crescente disagio per una situazione sempre più difficile, dominata da forze che egli sentiva avverse, folli, addirittura spregevoli. Torna ripetutamente sul ruolo svolto dalla SD e dal loro capo genovese, Siegfried Engel dai cui “artigli” sostiene di aver salvato, più volte, persone innocenti.
Preoccupato di tutelare i diritti della popolazione dagli abusi e dalle violenze naziste e fasciste, il capo della Wehrmacht genovese racconta di essere entrato in contatto con una coppia, i Giampalmo, a loro volta impegnati nel prestare aiuto a chi era in difficoltà. “Presto ci accorgemmo di concordare per la maggior parte delle nostre vedute e si sviluppò un rapporto di fiducia […], i Giampalmo già da tempo mi avevano fatto intendere che avversavano il fascismo”.
Stando dunque alla sua ricostruzione, tra il 1944 e il 1945 si venne a determinare una singolare situazione per Meinhold, in crescente contrasto con le SS e, all’opposto, in amicizia con italiani antifascisti, che restarono esterrefatti quando il generale svelò loro il piano hitleriano che prevedeva la distruzione del porto di Genova. Meinhold racconta di come fosse sempre più assillato per le sorti della città e in particolare del suo porto, la cui distruzione avrebbe compromesso per lungo tempo l’economia non solo della città ma dell’intero Paese, con riflessi anche sull’Europa.
“Fu così – scrive il generale – che lentamente nella mia mente maturò la decisione di non dare l’ordine di distruzione fintanto che ciò fosse nel mio potere: sentivo imperioso il dovere di rifiutare l’obbedienza e seguire il miglior giudizio e la voce della mia coscienza”.
“Sentivo il dovere di seguire la voce della mia coscienza”
Il senso di responsabilità, il dovere morale di preservare una città e la sua popolazione, lo scrupolo di coscienza di fronte alla violenza gratuita e vendicativa, costituiscono i fili di cui l’intero memoriale è intessuto. E’ evidente che a Meinhold preme evidenziare una distinzione: da una parte lui e l’esercito tedesco, eredi di una nobile tradizione militare, dall’altra i fanatici distruttori. “I miei amici [i Giampalmo] sapevano ora che si potevano fidare di me: avevo anche fatto conoscere loro qualche altro ufficiale del mio Stato Maggiore al pari di me ostile al regime hitleriano – ma ce n’erano anche altri a Genova”.
Con l’arrivo del 1945 la situazione si fa sempre più grave per la Germania, la cui catastrofe appare ormai inevitabile, mentre si accentua l’attività partigiana. Contro l’insensatezza degli “ordini spietati” di Hitler, che spingevano alla lotta disperata, Meinhold capisce che non è più tempo di continuare la guerra in Italia ma di ritirarsi. “In fondo – si chiede – che cosa stavamo a fare ancora in Italia, se al di là delle Alpi i Russi e gli Alleati si accingevano a darsi la mano nel cuore della Germania?”. Se il Führer avesse richiamato in patria le truppe, sottolinea Meinhold, queste avrebbero ancora potuto fare barriera contro l’attacco sovietico: nei primi mesi del 1945, infatti, i tedeschi avrebbero potuto lasciare la Liguria e dirigersi a nord senza difficoltà, avendo ancora il controllo delle vie di comunicazione – l’autostrada e la statale della valle Scrivia – per la pianura padana. A tanto realismo e serenità di giudizio, il generale della Wehrmacht contrappone il cieco fanatismo dei seguaci del regime hitleriano, le cui rappresaglie, violenze, catture di giovani italiani inviati in Germania ai lavori forzati contribuivano a far crescere l’odio e a “inferocire le menti di tutti”. Ogni comandante era tenuto alla più rigorosa obbedienza agli ordini, ma qualunque soldato, secondo le disposizioni dello stesso Hitler, aveva il diritto di uccidere il suo superiore qualora costui avesse ordinato la cessazione del combattimento.
Nella ricostruzione di quei giorni a Meinhold preme dunque evidenziare la sua netta lontananza dalla ferocia nazista e progressiva convinzione della necessità del ritiro delle truppe e parimenti il grave rischio incombente sul capo di un comandante che avesse disatteso gli ordini ricevuti.
“Dovevo ritardare l’ordine di far saltare gli obiettivi fino all’ultimo momento – afferma il generale – […]. Per il resto bastava un’abile organizzazione al fine di favorire i partigiani nel prendere possesso della città e di impedire le distruzioni”.
La sera dell’11 aprile, presso l’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università di Genova, a San Martino, avvenne il primo incontro del generale con le forze della Resistenza. Erano presenti i Giampalmo, un accreditato del comando partigiano e un suo collega. L’inviato del CLN era Carmine Alfredo Romanzi nome di battaglia “Stefano”, che svolgerà un ruolo centrale nella fase finale degli eventi.
11 aprile 1944: primo incontro, in gran segreto, con il partigiano Carmine Romanzi
Quale il contenuto del colloquio? Meinhold racconta di aver messo subito in luce la volontà di tutelare Genova da ulteriori distruzioni. Egli disse ai convenuti che, qualora avesse ricevuto l’ordine di ritirarsi dalla città, non avrebbe eseguito le distruzioni previste. In cambio proponeva però ai partigiani la rinuncia ad ostacolare in alcun modo la ritirata tedesca. Il generale racconta poi di aver messo al corrente del colloquio il suo capo di stato maggiore, il capitano Asmus, che condivise in pieno il suo operato.
Da parte sua Carmine Romanzi – come si può evincere da una intervista effettuata nel 1994 da Maria Elisabetta Tonizzi e Giovanni Battista Varnier, e ripubblicata di recente sulla rivista dell’Ilsrec Storia e memoria (2/2012) – ricorderà così il suo primo incontro con Meinhold:
“Günther Meinhold […] conosceva il prof. Giampalmo, mio collega all’Università. […]. Meinhold dunque, ai primi di marzo del 1945, quando la situazione della guerra volgeva chiaramente al peggio per l’esercito del Reich, comunica a Giampalmo la sua intenzione di incontrare un esponente del movimento partigiano. Egli sapeva che io ne facevo parte e quindi mi chiese se ero disposto ad incontrarmi con il generale. Comunico quindi la proposta al CLN per avere istruzioni su come comportarmi. Cassiani Ingoni mi rispose di rivolgermi al Comando Militare Unificato perché il CLN, organo politico, non poteva prendere alcuna decisione in merito. Mi rivolgo quindi al Comando che mi autorizza a prendere contatto […]. Ci siamo visti quattro volte. Il primo incontro è avvenuto l’11 aprile nello studio di Giampalmo all’Istituto di Anatomia Patologica dell’Università. […] Meinhold mi disse di essere disposto a far ritirare progressivamente le sue truppe che sarebbero state sostituite, senza combattere, dalle forze partigiane. Io risposi che non ero autorizzato a prendere impegni, né in questo senso né in altri, e che avrei riferito al Comando regionale. In questa occasione chiesi al generale se avesse in corso altre trattative. Egli mi rispose che aveva tentato di mettersi in contatto, tramite il console Etzdorf, con la Curia. Il contatto non aveva però avuto esiti positivi perché la Curia non intendeva accollarsi una così grave e impegnativa responsabilità”.
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Nei giorni seguenti si verificò una novità: la competenza sull’area del porto, e relative operazioni di distruzione, fu sottratta all’esercito e assegnata alla Marina, il cui comandante era di stretta fede hitleriana. Un duro colpo, a detta di Meinhold, per i suoi piani,.
Nel pomeriggio del 17 aprile, sempre in assoluta segretezza per timore di essere scoperto dalle SS di Engel, avviene il secondo incontro di Meinhold con Romanzi, presso la sede del Festungskommandantur di via Cesare Cabella; questa volta il generale era accompagnato dal maggiore Asmus. La ricostruzione di questo colloquio effettuata da Meinhold si discosta sensibilmente da quanto poi raccontato da Carmine Romanzi.
Secondo incontro di Meinhold, il 17 aprile, con Carmine Romanzi
Secondo Meinhold “il dott. Romanzi mi riferì innanzitutto che il suo comando aveva accettato la mia proposta di non disturbare il traffico sull’autostrada e che avrebbe rispettato questo impegno preso con me”. Romanzi, dal canto suo, nella citata intervista chiarisce la posizione del Comando militare:
“mi dissero che non era possibile accettarle. Un’avanzata compiuta senza combattere sarebbe stata disonorevole per i partigiani; il Comando rifiutava di scendere a patti con i tedeschi e voleva la resa senza condizioni. Mi venne però detto di continuare a incontrare Meinhold per cercare di venire a conoscenza di elementi che potevano essere utili. Io risposi che mi rifiutavo di tradire la fiducia del Generale […]. Visto il mio atteggiamento mi venne allora detto di continuare a tenere i contatti per cercare di orientare le trattative in senso diverso da quello espresso dal generale nel primo colloquio […]. Ci vedemmo ancora il 17 e il 23 aprile nella sede della Festungskommandantur. Entrambe le volte era presente, oltre a Meinhold e alla moglie di Giampalmo che faceva da interprete, anche il capitano Asmus, capo di stato maggiore. Meinhold era molto guardingo, temeva interventi delle SS ed aveva predisposto un servizio di guardia formato da elementi di sua stretta fiducia”.
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Proseguendo nella narrazione, Meinhold riferisce che durante il colloquio del 17 aprile si impegnò a comunicare, nei giorni seguenti, la posizione esatta dei congegni di brillamento in porto, mappa che fornì due giorni dopo ai Giampalmo onde permettere ai partigiani di neutralizzare in tempo gli ordigni predisposti.
La situazione si stava avviando all’epilogo finale. Meinhold non trascura di rammentare il clima di cambiamento che si respirava in città. “Le famiglie di molti fascisti lasciarono Genova alla chetichella: nelle librerie erano esaurite le grammatiche e i dizionari inglesi. Presso i reparti italiani ogni notte scomparivano alcune persone”.
“I topi stavano abbandonando
la nave che affonda”
Il generale sembra non poter fare a meno di esprimere, con toni sottilmente ironici, un certo disprezzo per quegli italiani che, vedendo la nave affondare, si preparavano, come i topi, ad abbandonarla in tutta fretta.
Secondo il suo memoriale, il 21 aprile gli fu comunicato – ma questa notizia, si badi bene, non trova riscontro in altre testimonianze di fonte tedesca – che la competenza del porto tornava nelle sue mani e che la diga foranea doveva essere risparmiata dalle previste distruzioni. Restava il fatto che, anche con questa eccezione, il “famigerato” Piano Z era in grado, secondo le sue stesse parole, di “trasformare mezza Genova in un cumulo di macerie”.
Intanto la battaglia con gli Alleati infuriava alle porte di La Spezia, ma l’ordine di iniziare la ritirata verso nord, per predisporsi alla difesa delle Prealpi secondo il volere di Hitler, tardava ad arrivare. “L’atteso ordine – scrive Meinhold – non venne, o per meglio dire venne troppo tardi, quando eravamo già alle prese con gli americani. Questo doveva avere conseguenze della massima importanza. Quel giorno invece io, date le premesse, dovevo ritenere che una soluzione del genere fosse stata prevista. L’altra soluzione, che più tardi dovetti lo stesso riconoscere come unica giusta, allora mi era ancora molto lontana dal pensiero”. Con queste parole Meinhold intende sostenere che se fosse arrivato l’ordine di ritirata, come egli si aspettava, l’esercito avrebbe lasciato Genova, scongiurando la distruzione della città. Se quell’ordine invece fosse stato ritardato, egli sarebbe stato obbligato a una scelta che, a suo dire, ancora il 22 aprile non contemplava. A cosa si riferisce? Alla rinuncia alla lotta? Alla resa? Il generale anche qui tralascia di dire che la sua proposta di ritiro indisturbato non era stata accolta dalle forze della Resistenza.
Quello stesso giorno giunse l’ordine di partenza per i comandi di tappa, che dovevano raggiungere la valle Padana entro il 24 aprile. La sera del 23 aprile una lunga autocolonna tedesca prese la via dell’autostrada in direzione Milano: fu l’ultimo convoglio nemico a poter lasciare, indisturbato, Genova.
A questo proposito è opportuno ricordare che la sera del 23 le autorità fasciste fuggirono dalla città; contemporaneamente le SAP genovesi diedero spontaneamente inizio all’insurrezione. Nella notte tra il 23 e il 24, presso il Collegio di San Nicola, a Genova, si tenne una riunione congiunta del CLN-Liguria e del Comando Militare Regionale per discutere sull’opportunità di dare il via all’insurrezione. Nonostante la pluralità dei punti di vista, l’assemblea, nelle prime ore del 24, decise a maggioranza di mettere in atto l’insurrezione.
Nel pomeriggio del 23 Meinhold, prima di incontrare per la terza volta Romanzi, fa una sosta nella villa della Stadtkommandantur in circonvallazione. Lì, contemplando la bellezza primaverile di Genova, si lascia andare a riflessioni sulla sorte della città e sul senso di quella guerra. Immagina che se il giorno dopo arrivassero i panzer americani, inevitabilmente la guerra infurierebbe e il destino della città sarebbe segnato.
“Perché risparmiare Genova,
la Superba, dalla distruzione?”
“Genova la Superba ridotta in macerie come centinaia di altre città dell’infelice e martoriata Europa. Il mio pensiero andò lontano dalla ridente visione primaverile che avevo innanzi agli occhi. Città nella loro lotta mortale mi si paravano dinnanzi nella memoria. Varsavia nella grandine delle bombe aeree aprì la tragedia; seguirono quelle pacifiche cittadine piccolo-borghesi della Francia tra Aisne e Loire. Avevo visto decine di città popolose della Russia meridionale perire nelle fiamme. Perché risparmiare Genova?”.
Perché impedire che si ripetesse, a Genova, quanto già accaduto in tanti altri luoghi? Se in precedenza le ragioni della guerra avevano legittimato l’azione violenta e distruttiva, ormai ogni atto aggressivo non avrebbe più avuto alcun senso, perché nulla avrebbe più potuto salvare la Germania dalla catastrofe. Insomma le mutate condizioni generali rendevano ormai folle e criminale la continuazione del conflitto.
Ma veniamo alla descrizione del terzo incontro di Meinhold con Romanzi.
Terzo incontro di Meinhold, il 23 aprile, con Carmine Romanzi
Secondo la sua versione, durante quel colloquio parlarono della ritirata, convenendo entrambi sull’opportunità di evitare ogni contatto tra le due parti che avrebbe inevitabilmente causato un inutile spargimento di sangue.
Riferendo del suo terzo incontro con Meinhold, Romanzi afferma:
“nell’incontro del 23 aprile Meinhold mi fece sapere che aveva provveduto a sminare i punti che gli erano stati indicati […] Mi ribadì inoltre la proposta fatta nel nostro primo contatto. In sostanza mi ripropose l’accordo che prevedeva la ritirata, da effettuarsi in tre giorni successivi, delle sue truppe con una contemporanea occupazione, che doveva avvenire senza combattimenti, da parte dei partigiani, delle zone lasciate libere. Si impegnava, se la ritirata fosse avvenuta senza disturbo, a limitare al massimo la distruzione di strade ed edifici cittadini. Sapevo che simili clausole non sarebbero state accettate dal comando Militare, che voleva la resa senza condizioni, ma mi impegnai comunque a riferire ed a comunicargli la risposta il giorno successivo […]. La situazione però quella stessa sera ebbe un’evoluzione tale che ci impedì di incontrarci nella sede convenuta”.
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Romanzi si riferisce infatti all’ordine, impartito dal CLN alle prime ore del 24, che diede il via all’insurrezione generale.
“Il generale – sottolinea Romanzi- aveva l’acqua alla gola; i partigiani avevano ormai chiuso tutte le vie di fuga delle truppe tedesche verso il Nord. Cercava un accordo per salvare i suoi soldati, in caso contrario minacciava di bombardare la città. Io sono rimasto tutta la giornata in un posto di medicazione e solo alla sera sono venuto a sapere che Meinhold voleva vedermi. Inoltre il CLN e il Comando Militare avevano scritto a Meinhold una lettera, che non era ancora stata recapitata, in cui chiedevano la resa senza condizioni. Mi sono allora offerto di portarla io; […] mi viene consegnata anche una lettera del cardinal Boetto che chiede al generale di risparmiare la città. Salgo quindi su di un’ambulanza e, alle dieci di sera del 24 aprile, parto alla volta di Savignone [dove aveva sede il quartier generale della Wehrmacht]. Prima di partire concordo con Cassiani Ingoni che, se ce ne fosse stata la necessità, avrei condotto il generale a Villa Migone, allora residenza privata del cardinale Boetto”.
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La sera del 23 aprile, mentre stava cominciando l’esodo delle sue truppe, Meinhold ricorda di essere stato messo in guardia dal suo fedele capo di stato maggiore Asmus dal rischio di possibili aggressioni da parte di qualche fanatico seguace del Führer: “il nuovo sanguinario ordine di Hitler aveva già sconvolto più di una mente e accorti comandanti avevano dovuto pagare con la morte il loro coraggio civile”. In sostanza Meinhold intende evidenziare la difficilissima situazione in cui si trovava. L’immagine che intende accreditare di se stesso è quella di un soldato freddo e razionale, preoccupato per le sorti dei suoi uomini e animato dalla volontà di salvare Genova dalla distruzione, di un militare in grado di anteporre il bene comune all’interesse personale, anche a costo della sua stessa vita. Nella notte riflette: sa che i suoi uomini non potrebbero raggiungere la pianura padana prima di due giorni e si rende conto che il passaggio tra le strette gole di montagna presidiate dai partigiani costerebbe molto sangue e fatica, in quanto “la problematica dei corpi irregolari rimaneva un dato di fatto indiscutibile”.
“Presi la mia decisione: dovevamo sospendere la lotta […]
Era una decisione ingrata la mia”
Di fronte all’inarrestabile avanzata delle forze alleate e con una Germania ormai sull’orlo del baratro, Meinhold opera la sua scelta: “presi la mia decisione: dovevamo sospendere la lotta. Il silenzio della notte mi fece vedere le cose con rigida chiarezza. La via che avevo deciso era ormai l’unica giusta […] Era una decisione ingrata la mia. Certo era molto più semplice e comodo non intervenire nel corso degli avvenimenti, lasciando alla distruzione, alla morte e al caos l’ultima parola. Mi invase, variamente represso, un senso di profonda amarezza che non poteva però far vacillare la mia convinzione di agire rettamente”.
Il 24 aprile i partigiani erano in movimento e la fanteria tedesca intendeva attaccare. Meinhold racconta di aver dato ordine ai suoi di non reagire; intanto contattò Giampalmo, affinché gli mandasse Romanzi, che però non comparve per l’intera giornata. Alle 6 di mattina del 25 aprile, quando già il generale era in procinto di recarsi a Genova, arrivò Romanzi, accompagnato da un giovane capo partigiano.
Nonostante la gravità del momento, Meinhold dipinge la situazione con toni distesi, come se si fosse trattato di un cordiale incontro tra due gentiluomini. Constatata la stanchezza del suo interlocutore, racconta di averlo invitato a fare colazione con lui e a metterlo al corrente di quanto stesse accadendo.
Il CLN chiede la resa senza condizioni
Meinhold afferma di aver ricevuto da Romanzi due lettere, una del Comando militare regionale ligure, che lo accreditava a parlare col generale, e una del Cardinale Boetto, che supplicava il generale di risparmiare la città dai bombardamenti.
Ma quale fu il contenuto della conversazione fra i due uomini?
“Gli dissi che conveniva ai partigiani rispettare la vecchia massima che vuole ponti d’oro per l’avversario che se ne va. Piccoli successi locali non dovevano ingannare sulla situazione. Per ora la mia fanteria era perfettamente intatta e in attesa dell’ordine di attaccare. La mia artiglieria eccezionalmente numerosa era in grado di dirigere il fuoco sia verso i monti sia verso la costa. I partigiani non disponevano attualmente di nulla con cui poter validamente opporsi. Sull’esito della lotta non poteva quindi esservi dubbio. Ma non volevo più combattere per Hitler, ora che la lotta per la Germania era finita”.
Secondo questa versione Meinhold, ancora la mattina del 25 aprile, riteneva di poter ritirare indisturbato le sue truppe. E’ chiara, in questo passaggio, la volontà del generale di sminuire il ruolo militare svolto dalle organizzazioni partigiane, che nella sua mentalità di vecchio Junker prussiano dovevano sembrare nulla più che un insieme di bande prive di autentico valore. Stando alla sua ricostruzione, il generale tedesco chiese ancora una volta di potersi ritirare indisturbato, svilì l’importanza delle forze resistenziali e, nel sottolineare la superiorità militare tedesca, minacciò una dura reazione in caso di attacco. Sentì però anche il bisogno di far comprendere al suo interlocutore il peso della difficile scelta che stava per compiere: “gli parlai senza riserve delle mie preoccupazioni. Era difficile convincere una truppa non battuta che deve arrendersi. […] La massa priva di poteri critici, credeva tuttora nel grande mago. Ma la mia decisione era irremovibile”.
Ecco invece la ricostruzione di quella mattina nelle parole di Carmine Romanzi:
“sono arrivato a Savignone, che dista solo pochi chilometri da Genova, alle sei meno un quarto del mattino del 25 aprile e ho parlato con Meinhold per due ore. Si rendeva conto che non c’erano più vie di scampo per lui e per le sue truppe; ha quindi accettato di venire a Genova con me. Prima di metterci in viaggio mi consegnò la sua pistola come garanzia della lealtà delle sue intenzioni”.
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Nel memoriale Meinhold non fa alcun cenno alla questione della pistola, un atto che dovette ferire non poco il suo orgoglio militare per l’alto significato simbolico che rivestiva. Si sofferma invece su un colloquio avuto con il più anziano degli ufficiali, fatto apparentemente marginale ma rivelatore della mentalità dei vertici militari tedeschi. Pur comprendendo la situazione, l’ufficiale tedesco disse che avrebbe preferito arrendersi nelle mani degli americani.
“meglio arrendersi ai partigiani che a una divisione
di colore americana”
Questa la replica di Meinhold: “l’idea di arrendersi a truppe irregolari era antipatico ai più; respinsi questa proposta. Anzitutto era troppo tardi e poi l’idea di abbassare le armi davanti a una divisione di colore mi sarebbe stata ancora decisamente più antipatica”. Insomma, se amara era la resa nelle mani di truppe irregolari, ancora peggio sarebbe stato doversi umiliare di fronte a truppe americane formate da soldati di pelle nera. Da quelle parole trapelava, senza che Meinhold se ne rendesse conto, il retaggio di una mentalità razzista che era profondamente penetrata nel popolo tedesco (e non solo) e che non sarebbe facilmente scomparsa, nonostante nel 1948, ovvero l’anno prima della pubblicazione del memoriale di Meinhold, l’ONU avesse approvato la Dichiarazione universale dei diritti dell’ uomo.
Riprendendo la narrazione dei fatti, Meinhold racconta di aver lasciato Savignone alla volta di Genova. Insieme a lui partirono Romanzi, il capo di stato maggiore, Asmus, l’interprete tedesco e il giovane partigiano. Il viaggio fu lungo e faticoso poiché dovunque vi erano reparti partigiani, posti di blocco, spari. Solo nel tardo pomeriggio giunsero finalmente a Villa Migone, dimora privata del cardinale Boetto che, invitato dal generale a partecipare alle trattative, rifiutò, affermando, a quanto si legge nel memoriale, “non siamo dei politici e la Chiesa non può intervenire nelle lotte delle potenze profane, ma la mia casa le sarà aperta finché vorrà”.
25 aprile, ore 19.30: la resa di Villa Migone
La trattativa avvenne con i membri delegati del CLN: Remo Scappini ed Errico Martino. Erano anche presenti, secondo la narrazione di Meinhold, altri quattro “signori in borghese”, oltre a Carmine Romanzi.
L’incontro è descritto brevemente. Di esso viene messa in risalto l’iniziale, reciproca riserva, destinata però a sciogliersi rapidamente, alla luce della autentica disponibilità dimostrata dalle autorità tedesche. “Quando ringraziai i signori di essere venuti, affermai ciò chiaramente. Poi misi le carte in tavola. Dissi che non era stata la situazione della divisione che mi aveva indotto a voler sospendere la lotta; la divisione non si trovava in situazione disperata; le posizioni del fronte di combattimento erano ancora fermamente nelle mani nostre, la fanteria integra e pronta a combattere, e alle numerose batterie leggere e pesanti nulla di analogo aveva da opporre l’avversario attaccante.
Erano invece la sorte della città e – quello che più contava – la vita di migliaia di persone da tutte e due le parti ciò che doveva starci a cuore. Ora che la guerra era definitivamente perduta, la mia coscienza mi vietava di sacrificare ancora un sol uomo. L’onore era stato soddisfatto fin troppo. Ero perciò disposto ad abbassare le armi con tutte le truppe poste sotto al mio comando”.
“La mia coscienza mi vietava di sacrificare ancora un sol uomo“
L’orgoglio ferito del militare che si sta arrendendo sente il bisogno di ribadire, in quel momento, le ragioni profonde del suo gesto. Militarmente – sottolineava il generale – le forze germaniche erano ancora integre e in grado di combattere. Solo un profondo senso di responsabilità verso tante vite umane lo avrebbe, dunque, spinto alla resa.
Anche nella descrizione del momento, per lui assai gravoso, della resa, il generale usa toni sobri e misurati, definendo i partigiani “avversari cavallereschi”, in quanto nessuno volle sollevare difficoltà e rapidamente fu trovato l’accordo sulle modalità del trattato: “il documento venne firmato. La lotta per Genova era terminata prima ancora che fosse veramente incominciata”.
Qualcosa di più in merito allo stato d’animo del generale prova a dire chi, in quel momento, gli stava di fronte in quanto avversario. Leggiamo in Da Empoli a Genova (1945), memoriale di Remo Scappini: “il generale era affranto, forse stanco anche fisicamente. Ebbimo l’impressione che Meinhold, dopo aver firmato, si sentisse come scaricato da un pesante fardello. […] Noi delegati del ClnL lo osservammo da vicino per tre ore e avemmo tutti questa impressione, che Meinhold in quel momento avesse compiuto lo sforzo più impegnativo della sua vita”.
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Liceo Scientifico Statale G. D. Cassini Genova