La mia famiglia e le leggi razziali fasciste del 1938.
Gilberto Salmoni
La mia famiglia era composta da 5 persone, padre e madre e tre figli: era per noi naturale considerare parte integrante della famiglia il carissimo nonno materno Vittorio Belleli, proprietario dell’appartamento dove vivevamo tutti insieme, in Via Ippolito d’Aste, nel centro della città. Il nonno era nato nel 1867 a Corfù ma si era poi stabilito a Genova in giovane età: aveva un piccolo ufficio in Piazza Umberto I ora Piazza Matteotti, e credo che facesse attività di importazione di olio e cereali. Nel 1938 aveva smesso la sua attività. Era una persona simpatica, di buon senso e di ottima cultura: era piacevole scambiare le idee con lui.
Mio padre Gino Salmoni, nato a Firenze nel 1878 era perito agrario e Vice Direttore di un ufficio statale che si chiamava con un nome, un po’ particolare: Cattedra Ambulante di Agricoltura, poi modificato in Ispettorato Provinciale di Agricoltura. La parola “ambulante” esprimeva il ruolo degli esperti di agricoltura che andavano nelle campagne a insegnare ai contadini come preparare il terreno, come seminare e poi curare, proteggere e raccogliere. Anche, come tenere le stalle e gli animali.
Mia madre Vittorina Belleli, figlia di Vittorio era nata a Genova nel 1894, aveva frequentato per alcuni anni la Scuola Svizzera di Genova, conosceva il francese e leggeva molto. Mio fratello Renato, del 1913, nato a Genova era medico, specializzato in Urologia. Durante la guerra aveva lavorato gratuitamente nel reparto di Urologia dell’Ospedale di San Martino, fino a che non fu licenziato. Renato era appassionato di montagna e aveva voluto fare il servizio militare negli alpini, prima a Bassano, come soldato semplice, poi a San Candido come sottotenente.
Dopo l’8 settembre era stato rifugiato a Roma nel Seminario Lombardo, proprietà della Stato Vaticano, sperando in una rapida avanzata degli alleati, per poter poi rientrare nell’esercito italiano e combattere contro i nazifascisti. Un’imprevista incursione nazista nel Seminario lo costrinse a fuggire rapidamente, a rientrare a Genova e ad unirsi a noi, nel nostro nascondiglio.
Mia sorella Dora aveva frequentato la scuola Regina Margherita, un istituto per ragazze di “buona famiglia” dove, oltre alle materie normali, si insegnavano cucito, ricamo, lavoro a maglia, pittura decorativa e altre cose utili. In più si era appassionata alla lingua tedesca e l’aveva studiata a Genova con una insegnante madre lingua. Aveva anche frequentato, in Austria, a Gmunden, un Istituto molto rinomato. Verso l’estate del 1936. A Gmunden Dora aveva avuto modo di vedere sulle panchine dei giardini pubblici la scritta “Juden unerwuenscht “, ebrei indesiderati, il primo segnale di quella che poi sarà la Shoah.
Poco tempo dopo l’Austria fu annessa alla Germania e in Italia furono emanate le leggi razziali
Dopo l’emanazione delle leggi alcuni nostri parenti decisero di espatriare. Non era facile ma si poteva tentare…I miei fratelli, però, avevano relazioni sentimentali intense con persone di religione cattolica e non avevano nessuna intenzione di separarsi da loro e di abbandonare l’Italia.Più intenso era il legame tra Dora e Romolo Porcù, un giovane che abitava a Genova. Si erano follemente innamorati.
Questi legami, probabilmente, ci hanno impedito di espatriare, a differenza di nostri parenti che, dal Cile e dall’Argentina, ci invitavano a seguirli.
Mia madre è stata più saggia e intraprendente: aveva affezionate amiche cattoliche che probabilmente le avevano suggerito di convertirci al cattolicesimo, con esclusione di mio padre e di mio nonno. Nessuno di noi figli era religioso. Ci convinse dell’opportunità di convertirci al cattolicesimo, sperando in questo modo di attenuare l’impatto delle leggi razziali.
Non essendo consentito il matrimonio civile tra persone di “razza ebraica” e persone di “razza ariana” Dora Salmoni e Romolo Porcù si sposarono, soltanto religiosamente, nella chiesa dell’Immacolata, in Via Assarotti. Le nozze furono celebrate dal parroco don Lercaro, persona splendida.
Romolo era militare a Ceva e Dora si trasferì lì. Così ebbero un breve felice periodo di vita insieme ma, non molto tempo dopo, fummo tutti costretti alla fuga: l’armistizio dell’8 settembre 1943, aveva determinato l’occupazione dell’l’Italia centro-settentrionale da fascisti e nazisti e noi, di “razza ebraica”, eravamo coscienti del rischio che correvamo. Si sapeva già dell’esistenza di Auschwitz e delle sue camere a gas.
Cercammo rifugio. La famiglia Isetti, nostri amici, si offrì di ospitarci nella villa che avevano a Celle, con il patto di non farci mai vedere, quindi di non uscire mai di casa. Due loro parenti avrebbero provveduto a fare la spesa per noi.
Alcuni mesi dopo, però, ci venne detto che l’ospitalità non poteva più essere mantenuta e pensammo di tentare la fuga nella neutrale Svizzera: questa fallì e fummo arrestati sui monti di Bormio, assieme ai due montanari che ci avevano fatto da guida.
Fummo detenuti nelle carceri di Bormio, Tirano, Como e Milano San Vittore per poi essere tutti trasferiti nel campo di smistamento di Fossoli, tranne Romolo che, detenuto tra i prigionieri politici nel carcere di San Vittore, riuscì a fuggire dopo un certo periodo.
A Fossoli due aerei USA, probabilmente ritenendo che le baracche del campo fossero caserme militari, mitragliarono il campo. Dora fu ferita in più parti molto gravemente. Portata in ospedale a Carpi fu curata, ma rientrò, con la ferita al ventre non completamente guarita e la mano destra mutilata.
A fine luglio 1944 i nazisti decisero l’evacuazione completa del campo di Fossoli: per mio padre e Dora la destinazione era Auschwitz, per Renato e me Buchenwald, per mia madre Ravensbruck.
Mia madre, però, chiese e ottenne di poter partire con suo marito e sua figlia, ben sapendo quale sarebbe stato il loro destino. Ci fu, tra noi, l’ultimo saluto a Verona.
Tornando indietro nel tempo, posso dire che nella nostra famiglia c’era molto amore, mia madre era il centro: ricordo che, quando frequentavo ancora le elementari, a volte, lei e Dora lavoravano insieme a maglia. E allora mi chiedevano di leggere alcune pagine di un libro, di solito della collana Medusa Mondadori. Stavamo molto volentieri insieme, Dora mi faceva dei maglioni bellissimi.
Certe domeniche Renato mi portava con sé a sciare. Lui era molto bravo e rinunciava a fare lunghe discese divertenti per insegnarmi qualcosa, anni prima, quando mio padre mi aveva portato con sé in campagna, avevo assistito, non a noiose lezioni, ma a cordiali colloqui con i contadini, avevo visitato stalle e bevuto il latte appena munto.
Renato passava molto tempo con i suoi vecchi amici di liceo, persone simpatiche che hanno continuato ad essere ottimi amici anche dopo l’emanazione delle leggi razziali.
Dora aveva molte amiche carissime: anche io, a scuola, avevo ottimi amici. Ricordo la famiglia De Pra: Guido era mio compagno di banco nelle elementari; suo padre era stato portiere della squadra di calcio del Genoa e della Nazionale. Poi commerciava in mobili: aveva un magazzino e sapendo che fascisti e nazisti ci avrebbero rubato tutto, lo avevamo pregato di vuotarci la casa.
Non posso dimenticare la fortissima amicizia con la famiglia Bertolotti, in particolare con Enrico, amico carissimo e compagno di scuola. Tutti sono stati affettuosi, solidali e mi hanno aiutato molto.